sabato 31 dicembre 2011

2011


Quello che volge al termine è stato un anno intenso. Ed è difficile dire per quale avvenimento in particolare sarà ricordato. La Primavera Araba? Il matrimonio di William e Kate? L’assassinio di Osama bin Laden? La morte di Steve Jobs? L’acuirsi della crisi finanziaria, con l’Italia a rischio default? La fine dell’era Berlusconi? O il profilarsi di una nuova guerra globale contro l’Iran di Ahmadinejad, passando per il vacillare del brutale regime siriano? Forse, anzi sicuramente, per tutte queste cose insieme. Alle quali vanno ad aggiungersi gli ultimi colpi di coda di un anno che, come molti dei suoi protagonisti, sembra non avere nessuna voglia di cedere il passo... La morte, a metà dicembre, del Caro Leader nordcoreano Kim Jong-Il potrà dare luogo a conseguenze non indifferenti sullo scacchiere internazionale, oppure risolversi sotto il segno della più piatta continuità. E le pressioni di Angela Merkel sul presidente Napolitano a sostegno del cambio di governo, rese note solo poche ore fa dal Wall Street Journal, forse apriranno nuovi interrogativi circa la sopravvivenza della sovranità degli Stati e della volontà popolare. Ma senza troppa riprovazione, né grossi rimpianti…
Avrete notato come molti degli eventi sopraelencati non siano stati minimamente sfiorati da questo blog, che domani festeggerà, oltre all’arrivo del 2012, anche il suo primo compleanno. Nell’impegnarmi per un drastico cambio di rotta – più come auspicio che come promessa – porgo ai miei tenaci lettori i migliori auguri di un felice anno nuovo!

Manuel Lambertini

martedì 27 dicembre 2011

Giorgio Bocca

Da circa un mese, la sua rubrica non compariva più sull’Espresso. Al suo posto, poche parole su sfondo rosso: «La rubrica L’antitaliano è momentaneamente sospesa. Giorgio Bocca si è preso infatti un breve periodo di riposo». Solo il giorno di Natale abbiamo saputo che quel riposo durerà per sempre.
Non si è persa l’occasione di ricordare che Giorgio Bocca aveva 91 anni e un carattere difficile. Che era un uomo complesso, un montanaro solitario, un bastian contrario per vocazione. E l’implacabile inclinazione ad andare controcorrente, quella sì, l’aveva davvero. Tra giudizi sommari e battute fulminanti. Detestava qualsiasi partito, casta, gruppo corporativo. Antifascista e anticomunista: è rimasto, per tutta la vita, una spina nel fianco di ogni potere costituito. Molte le antipatie, pochi gli amori e alcuni punti fermi. Su tutti, la Resistenza. Parentesi eroica e generosa della miserrima storia d’Italia. Esperienza vissuta da protagonista, in Val Grana e in Val Maira, nei boschi attorno alla sua Cuneo. Bussola irrinunciabile di tutta una vita, al punto di insegnargli a distinguere il bene dal male, per dirla con il suo direttore Ezio Mauro. Di qui la violenta polemica con l’ex allievo Giampaolo Pansa, capofila di un inaccettabile revisionismo.
Partigiano, dunque; non «fazioso». Ma soprattutto cronista di inarrivabile inventiva, oltreché ottimo e puntuale commentatore. Senza nulla togliere ad altri giganti della sua generazione di giornalisti – anche viventi e in piena attività, Sergio Zavoli, Arrigo Levi e il nemico fraterno Eugenio Scalfari in testa – con Bocca è scomparso un fuoriclasse. Forse non il migliore, ma certamente il più spregiudicato giornalista del dopoguerra. Colui che prima di chiunque altro, e con una veemenza paragonabile solo a quella di Montanelli, vide nel raccontare i fatti l’ultimo baluardo di libertà che fosse degno di essere difeso. Abbandonata ogni ideologia, anzi sempre in bilico sull’orlo del nichilismo, vivisezionò la realtà italiana con un sarcasmo e una franchezza imbarazzanti. A differenza di molti altri, non cedette mai alla tentazione di compromettersi con quell’establishment che da giornalista doveva monitorare, fedele al significato ultimo della sua professione. Memoria della lotta partigiana e difesa della democrazia: questi gli unici imperativi che non hanno mai smesso di sorreggerlo. E nel definirsi social-democratico faceva riferimento a un orizzonte ideale, non certo politico. Il suo disincanto era totale. Le sue cronache e i suoi editoriali trasudavano scetticismo, non vendevano speranze.
Giorgio Bocca con Eugenio Scalfari
Ma Giorgio Bocca era anche un formidabile artigiano dell’invettiva. Un artista dello sproloquio. L’ultimo rimasto, dopo la morte di Oriana Fallaci. Della grande collega, ad esempio, disse che «era tutta letteratura e niente cronaca. Tutta la cronaca era inventata». Ricordò anche di averle prestato cinquanta dollari e di non averli mai più rivisti... La pubblicazione di un'ormai celebre biografia di Palmiro Togliatti, assai poco generosa nei confronti del Migliore, gli valse la permanente ostilità del Pci. Che andò a sommarsi con quella di tutti gli altri partiti e di molti colleghi, subito ricambiati senza troppi complimenti. Pasolini? «È morto perché, la rigirino pure come vogliono, era di una violenza spaventosa nei confronti di questi suoi amici puttaneschi». Cesare Pavese? «Come scrittore a me sembrava pessimo». Gianni Brera? «Un fetente, una carogna paracadutista. Sai, uno nasce carogna. Lui come giornalista ha fatto carriera facendo la carogna». Ancor più spiazzante il suo giudizio sul presidente Pertini, un politico «modesto» che però «poteva apparire come un personaggio che restituiva fiducia al sistema, che lo faceva sembrare affidabile, che con la sua sola presenza, la sua faccia da onest’uomo, la sua bella voce pareva dire: vedete com’è democratica questa repubblica? Vedete che alle più alte cariche possono arrivare anche dei galantuomini come me? E questa sua immagine curata quotidianamente con telefonate ai direttori di giornale e ai giornalisti copriva e metteva al riparo da ogni critica l’altro Pertini, il Pertini presuntuoso».
Proprio a Sandro Pertini, al partigiano Pertini, sembrò imputare tutto ciò che detestava dell’Italia: «il culto dei figli di mamma defunti, il cordoglio generale, il funerale continuo con lacrime da coccodrillo; il “siamo tutti buoni” ma con qualche brutto neo da estirpare, la vicenda sociale concepita come patologia incolpevole, i siciliani brava gente, peccato che ci sia la Mafia, i calabresi tutto cuore, peccato che ci sia la n’drangheta, i partiti tutti democratici, peccato che ci siano nelle loro file alcuni ladroni». Già, i ladroni. Niente scatenava le sue ire come la clemenza generalizzata per il furto. Non ha mai ritrattato neanche il sostegno offerto alla Lega Nord nei primi anni ’90 – «per la riconoscenza di aver mandato fuori dai piedi Craxi e la Democrazia Cristiana» –  salvo poi scaricarla e liquidarla, in tempi più recenti, come «l'ignoranza al governo». Per Berlusconi aveva avuto un’iniziale attrazione, anch’essa tramutatasi in un disprezzo viscerale: «Mi stupisce che Berlusconi non mi ami. Io scrivo sui giornali che è un maiale e dentro di me penso che lui dica: beh, in fondo ha ragione».
Nutriva un gusto irrefrenabile per la provocazione, e avvertiva una soddisfazione intensa nel risultare sgradevole. Eccessive, tuttavia, molte delle accuse di cui fu bersaglio, in particolare quelle che lo volevano razzista, omofobo, antisemita. Giorgio Bocca, antifascista educato nel fascismo, era un giornalista anti-sistema, avvezzo ad oltrepassare le linee del politically correct e dell’ordinaria ipocrisia: la sua capacità corrosiva non era neanche lontanamente alleviata dal fatto di figurare tra i fondatori di Repubblica, il giornale dell’ingegner De Benedetti e di tanti altri poteri forti… Eppure ci sono buone ragioni per credere che con la Resistenza rimpiangesse soprattutto la propria giovinezza, e che nell’indignarsi provasse lo stesso piacere che sempre attraversa certi critici cinematografici, abituati a stroncare film tutto sommato divertenti. Perché anche i grandi uomini, i migliori uomini – alla cui schiera, caro Bocca, non hai mai cessato di appartenere – hanno tutti  «qualche brutto neo da estirpare».

Manuel Lambertini

venerdì 23 dicembre 2011

La «ragazzina mostro»

Monika Simonovic Ilic non dimostra neanche oggi i suoi 36 anni. Le fotografie che ne documentano l’arresto mostrano, tra due agenti di polizia, un’esile donna bionda infastidita dalla luce del sole. Immagini che rimandano ad un’altra immagine, la foto in bianco e nero di una ragazza curata e dallo sguardo impassibile, e finiscono col richiamare alla memoria – più per una suggestione vagamente sensazionalistica che per un’effettiva somiglianza fisica – la criminale nazista Ilse Koch, nota come «la cagna di Buchenwald». Moglie di Karl Otto Koch, comandante del campo di concentramento di Buchenwald dal 1937 al 1941, è ricordata per le indicibili atrocità che infliggeva ai prigionieri del lager. Processata a Norimberga e condannata all’ergastolo, si impiccò in cella nel 1967.
Anche Monika Simonovic, la «ragazzina mostro», era sentimentalmente legata al comandante di un lager: a diciotto anni aveva sposato Goran Jelisić, l’«Adolf serbo», tenente dell’esercito serbo-bosniaco in servizio nel campo di Luka. «Sembrava una bambina, ma tutto quello che aveva di femminile era il nome», ha detto di lei il sopravvissuto Dzafer Deronjic. «Lei non era una donna, era un mostro». Tra le peggiori efferatezze attribuitegli, l’abitudine di cavare gli occhi ai prigionieri con un uncino.
Nel campo di Luka, a Brcko, furono sterminati centinaia di musulmani bosniaci e croati. Arrestato nel 1998, Jelisić venne condannato dal Tribunale dell’Aja a 40 anni di carcere per crimini contro l’umanità e per violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra. Sta scontando la pena in Italia, e pochi anni fa è convolato a nozze con l’avvocatessa Patrizia Trapella. Una vita familiare violenta, quella di Monika. La madre, Vera Simonovic, gestiva la casa di appuntamenti “Westfalia”, dove venivano sistematicamente stuprate donne musulmane. E il fratello, Konstantin Simonovic, ha anch’egli subito una condanna a sei anni di reclusione per aver partecipato ai massacri di Luka.
È stata trovata a Prijedor, a nord della Bosnia, dove si nascondeva sotto falso nome dopo aver vissuto per anni nella città serba di Novi Sad. Sui media italiani, la notizia della sua cattura non ha avuto il giusto risalto. Altrimenti non troverebbe spiegazione l’inaspettato silenzio dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio, che solo pochi mesi fa esaltava le gesta del generale Ratko Mladić: «un patriota» che ha «interpretato con grande coraggio e determinazione quel senso di responsabilità che i serbi hanno avuto nel bloccare la penetrazione islamica in Europa»… Farneticazioni aberranti, inserite nel solco delle 4.000 fosse comuni disseminate in ogni parte della Bosnia, e avallate dall’oblio a cui l’opininone pubblica mondiale ha condannato quella terra martoriata.

Manuel Lambertini

martedì 29 novembre 2011

Un anno senza Mario

Un anno fa, Mario Monicelli ci lasciava alla sua maniera. Gettandosi dal quinto piano del reparto di urologia dell’ospedale San Giovanni di Roma. All’età di 95 anni. Un addio sbrigativo e sarcastico, amaro ma lucido, del tutto coerente con quell’istintiva repulsione per l’autoreferenzialità mostrata durante tutta la vita. Ad alcuni aveva confidato, non molto tempo prima, l’estremo desiderio di fare visita a Berlusconi imbottito di tritolo. E tra i tanti epitaffi di suo conio – «nessuno lo salutò mai per primo», piuttosto che «non ebbe mai il cellulare» «muoiono solo gli stronzi» era di gran lunga quello che preferiva.
Rievocando quel 29 novembre 2010, ciò che più colpisce è la serenità con cui amici e colleghi accolsero la notizia. A caldo, Giovanni Veronesi interpretò il pensiero di tutti: «Non so cosa si dirà domani di quello che è successo, ma una cosa va detta: non ho mai sentito nessuno che si suicida a novantacinque anni. Era davvero speciale». Persino il presidente Napolitano, forse per smorzare un’accesa polemica parlamentare, parlò di uno «scatto di volontà che bisogna rispettare». E di recente è stata l’ultima compagna, Chiara Rapaccini, a confessare che Mario Monicelli «cominciava a sentirsi uno stronzo», cieco com’era, e afflitto da un incurabile cancro alla prostata.
Per lui, nessun funerale. Solo un saluto sulle note di Bella Ciao nel rione Monti, il quartiere romano dove viveva, e un omaggio alla Casa del Cinema. Poi la cremazione e la dispersione delle ceneri lungo il mare della sua Viareggio. Un addio in pieno stile Monicelli.
Integrità e coerenza avevano peraltro accompagnato ogni passo del suo lungo percorso, risolvendosi negli ultimi anni in un lucido e disilluso radicalismo. Burbero, cinico, anticoformista. Autocritico e autoironico. Generoso ma dissacratore, allergico ad ogni retorica. Difficile, in verità, immaginare uomo più diverso dai personaggi dei suoi film.
Settantacinque anni di carriera e più di sessanta pellicole, una decina i capolavori: Guardie e ladri (1951), I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959), I compagni (1963), L’armata Brancaleone (1966), Brancaleone alle crociate (1970), Amici miei (1975), Un borghese piccolo piccolo (1977), Il marchese del Grillo (1981), Speriamo che sia femmina (1986), Parenti serpenti (1992)… Film ormai entrati nell’immaginario collettivo, che solo il regista si affannava a sminuire, convinto che il declino del linguaggio cinematografico fosse cominciato con l’invenzione del sonoro…
Era considerato il padre della commedia all’italiana, insieme a Risi, Germi e Comencini. Lui preferiva ricondurre la propria filmografia alla grande tradizione letteraria e teatrale, dalla Divina Commedia alla Mandragola di Machiavelli, nella convinzione che il cinema non potesse esimersi dal raccogliere quell’eredità. Senza inventare nulla, dunque. Rubando dal passato e dal quotidiano. Per ridere delle debolezze degli italiani, del loro opportunismo, della loro vigliaccheria. E per commuoversi davanti al loro senso della solidarietà, alle loro pretese velleitarie, al loro essere sempre perdenti.
Una commedia umana inizialmente rifiutata da critici e intellettuali, molti dei quali si indignarono alla notizia che un’opera sulla Prima Guerra Mondiale sarebbe stata scritta da sceneggiatori di film comici e girata con caratteristi da commedia-spazzatura. La grande guerra, ex aequo con Il generale della Rovere di Rossellini, vinse il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia del ’59. E nella sua recente autobiografia, La bambina buona (Sonzogno, 2011), Chiara Rapaccini ha scritto di aver usato l’ambito premio la prima volta che preparò la cena al marito. Per schiacciare il pollo alla diavola, «in mancanza di altri pesi».

Manuel Lambertini

sabato 19 novembre 2011

La notte è piccola per noi


Alice ed Ellen Kessler, Manuel e Veronica, Teatro Nuovo, Repubblica di San Marino, 18 novembre 2011

Che dire? Un blitz da manuale, no? Soprattutto se considerate che è stato magistralmente eseguito in un Paese straniero, la Repubblica di San Marino, e in un teatro che non avevo mai sentito nominare (come ogni altro teatro di San Marino, del resto). Insieme ad Alessandro Benvenuti, a Rosalinda Celentano e ad altri quindici attori, Alice ed Ellen Kessler hanno appena iniziato la tournee di un nuovo spettacolo: Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Spettacolo di cui non avevo i biglietti e che sapevo di non poter vedere, purtoppo, nonostante il personale di sala mi abbia gentilmente invitato ad assistere agli ultimi cinque minuti. L'invito, inutile dirlo, non è caduto nel vuoto.
Posso immaginare la faccia di chi ha avuto la pazienza di leggere fino a qui… “E tu sei andato a San Marino solo per una foto con le gemelle Kessler? Senza nemmeno vedere lo spettacolo???”
Affermativo!
Non lasciatevi ingannare dalla nostra apparente tranquillità e dall’atmosfera distesa che la macchina fotografica ha maledettamente consegnato ai posteri: le ragazze avevano fretta, ed erano sotto il fuoco incrociato dei più temibili acchiappavip della Romagna. Il bottino, viste le condizioni, è stato più che soddisfacente: foto con Benvenuti, con la Celentano e con le Kessler insieme, oltre ad un autografo razziato alla sola Alice.
Diciamo subito una cosa: la ragazza sulla sinistra non è un’intrusa. Si chiama Veronica. A dirla tutta, l’intruso sono io, visto che se non fosse stato per lei e per Cristian non avrei potuto aggiungere le gemelle Kessler agli oltre 1230 personaggi che ho accalappiato negli ultimi sette anni… Non sto scherzando: lì al centro mi do fastidio da solo, se penso che Veronica non ha avuto il tempo di farsi scattare altre fotografie. C’è solo una cosa positiva: se vorrà continuare a guardare questa foto senza moti di rabbia, non dovrà mai litigare con me!
Avrete capito: sono stati Cristian e Veronica a venirmi a prendere alla stazione di Forlì e ad accompagnarmi a San Marino in macchina. Più il ritorno, naturalmente. E che ritorno…
A operazione ultimata, raggiungo con loro la stazione di Forlì, poco prima dell’una di notte. Come previsto, per Bologna non ci sono più treni. Bisogna scendere a Rimini con un Espresso dell’1.07 (l’unico possibile) e risalire al capoluogo emiliano con un altro Espresso delle 2.30. Oppure con un Intercity delle 3.39. Rispettivi orari di arrivo a Bologna: 3.30 e 4.39. Faccio il biglietto per Rimini. Poco dopo l’altoparlante annuncia un leggero ritardo. Cinque minuti che diventano dieci, poi quindici, poi venti, poi trenta. Poi il colpo più duro: «Annuncio ritardo. Il treno Espresso 16.17 proveniente da Milano Centrale e diretto a Bari Centrale delle ore 1.07 arriverà con 60 minuti di ritardo, diversamente da quanto già annunciato. Ci scusiamo per il disagio». Il treno delle 2.30 che da Rimini mi avrebbe dovuto portare a Bologna ormai era perso. “C’è sempre quello delle 3.39”, mi azzardo a pensare in quel momento... “Forse quello ho ancora qualche speranza di prenderlo, almeno se riesco a partire da qui per le 3.00”. Macché! A colpi di annunci, il ritardo dell’Espresso 16.17 sarebbe più che raddoppiato, toccando quota 2 ore e 35 minuti. Il treno in questione ha fatto la sua comparsa alle 3.40, tra il sollievo dei pugliesi che affollavano la stazione, ma solo dopo essersi assicurato che il mio treno per Bologna delle 3.39 fosse già partito da Rimini! Ve la faccio breve: dopo aver regalato 4 euro e 40 cent. a Trenitalia con un biglietto per Rimini non utilizzabile (anche 4 centesimi sarebbero stati troppi, visto il destinatario), ho passato la notte a Forlì aspettando un treno, stavolta puntuale, delle 4.59 (Trenitalia deve aver pensato che farlo passare alle cinque sarebbe stato più scoraggiante). Insomma: sono arrivato a Bologna che mi era già cresciuta la barba, mentre gli uccellini, intirizziti dal freddo, cominciavano a cinguettare e mio padre faceva colazione.
«Fai poco casino, alla mattina presto!» mi ha detto.
«Non è mattina presto» gli ho risposto. «È sera tardi».

Manuel Lambertini

venerdì 11 novembre 2011

Pupi Avati, artigiano di cinema

Confeziona film ad una velocità impressionante, con ritmi di lavoro che il trascorrere degli anni ha perfino reso più incalzanti. Dall’esordio con Balsamus, nel 1968, a Il cuore grande delle ragazze, Giuseppe Avati detto Pupi vanta una filmografia di circa quaranta titoli, a cui si aggiungono alcune serie tv di grande successo. Da anni accompagna la promozione del film appena realizzato con le riprese dell’opera che seguirà, non senza aver elaborato la sceneggiatura ancora successiva... E su ogni nuovo set la “famiglia Avati” si allarga, accoglie i nuovi arrivati e non trascura gli amici di sempre, guidata dal paziente rigore di Pupi e sorretta dall’espansiva magnanimità del fratello Antonio, colonna portante della DUEA Film e indispensabile compagno d’avventura. Nel libro autobiografico Sotto le stelle di un film (Il Margine, 2008) è proprio quest’ultimo a confessare il segreto della prolificità avatiana: «Noi facciamo tanti film non perché siamo più bravi degli altri, ma perché ne abbiamo più bisogno degli altri, perché ogni nuovo film con i suoi anticipi finanziari ci permette di pagare i conti del film precedente e consente alla nostra società di vivere».
Al bolognese Pupi Avati il cinema ha offerto quel successo che la musica aveva negato, riscattando aspirazioni artistiche bersagliate dal sarcasmo provinciale e platealmente derise dalla cultura del bar. Quando, dal 1959 al 1962, suonava nella «Rheno Dixieland Band», era certo di poter diventare un grande clarinettista jazz; ma fu l’entrata nel gruppo di Lucio Dalla, con il suo umiliante talento, a stroncargli ogni ambizione. Assunto come impiegato alla Findus, trascorse nella nota azienda di surgelati il periodo meno gratificante della sua vita, benché la sicurezza economica di quegli anni gli abbia permesso di sposare l’amata Nicola Turri: nel 1966 nacque la loro prima figlia, Maria Antonia, seguita da Tommaso nel 1969 e da Alvise nel 1971. Ma in quel periodo fermentò anche il suo amore per il cinema: folgorato dalla visione di Otto e mezzo e imbattutosi, a Ferrara, nel set de La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, si lasciò conquistare da questa nuova infatuazione.
Nel 1966 diresse uno spettacolo musicale che fu inscenato al Teatro Duse di Bologna; poi la sua amicizia con il jazzista Romano Mussolini gli permise di lavorare come aiuto regista in Satanik (1968) di Piero Vivarelli. La sceneggiatura del suo primo film venne sottoposta a tutti i produttori dell’epoca, finchè un anonimo industriale accettò di finanziarne la realizzazione: Balsamus, l’uomo di Satana, con protagonista Bob Tonelli, poté faticosamente comparire sulle scene, regalando ad Avati almeno l’attenzione della critica. Dopo il fallimento del film che seguì, Thomas…Gli indemoniati (1969), decise di trasferirsi a Roma, dove la madre Ines gestiva una piccola pensione. Malgrado le molte difficoltà economiche, fu proprio il nuovo clima a infondergli fiducia: libero dal timore di essere additato come un fallito, poté entrare a far parte del salotto di Laura Betti – un ambiente che presto avrebbe abbandonato – e conoscere meglio il mondo del cinema. Collaborò infatti alla sceneggiatura dell’ultimo film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), nell’attesa di portare a termine un proprio progetto.
La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone uscì nel 1974, prodotto da Giovanni Bertolucci per la Euro International e reso possibile dalla generosità di Ugo Tognazzi, che accettò senza cachet il ruolo di protagonista. La formula produttiva cambiò radicalmente dopo le disavventure del film successivo, Bordella (1975), sceneggiato con la collaborazione di Maurizio Costanzo e posto sotto sequestro per oscenità. Nell’intento di svincolarsi da ogni nocivo condizionamento, il regista fondò la A.M.A. Film, insieme all’inseparabile Antonio e al producer Gianni Minervini. Scommettendo su una pellicola a basso costo, la nuova società produsse l’esempio più alto di gotico padano, La casa dalle finestre che ridono (1976). Il film, come ha evidenziato Antonello Sarno, segnò l’ingesso di Avati «in quella categoria di autori certamente promettenti (che, con un termine orrendo e di vaga derivazione sindacale, oggi si definisce “artigianato” cinematografico) nella quale resterà per parecchio tempo, prima di raggiungere il traguardo della definitiva e simultanea consacrazione da parte della critica e del pubblico» (A. Sarno, Pupi Avati, Il Castoro, 1992, p. 46). Operazioni altrettanto felici della A.M.A. Film furono Tutti defunti… tranne i morti (1977) con Carlo Delle Piane, Aiutami a sognare (1981) e Zeder (1982), oltre a serie televisive quali Jazz Band (1978) e Cinema!!! (1979), trasmesse da Rai Uno in prima serata. A deludere le aspettative fu invece lo sfortunato Le strelle nel fosso (1978), un’incantevole fiaba contadina in perpetua corrispondenza con il sovrannaturale. Il sodalizio con Minervini proseguì fino al 1983: dopo lo straordinario esito di Una gita scolastica, che vide la prima apparizione del giovane Nik Novecento, i fratelli Avati poterono dare vita ad una factory del tutto autonoma, la DUEA Film.
Quest’ultima iniziativa – la cui energia, dopo un quarto di secolo, non può certo dirsi esaurita – ha dato al cinema italiano piccoli capolavori come Festa di laurea (1985), Regalo di Natale (1986), Storia di ragazzi e di ragazze (1989) e Il testimone dello sposo (1997). Nel corso della sua lunga maturazione, il regista è poi approdato ad una singolare esperienza negli Stati Uniti, seguendo il mito del cornettista Leon “Bix” Beiderbecke. Dopo l’impegnativo Bix: un’ipotesi leggendaria (1991), girato a Davenport, nella casa natale del protagonista, la provincia americana avrebbe fatto da location ad altri suoi film: da Fratelli e sorelle (1992) a L’amico d’infanzia (1994), fino al recente Il nascondiglio (2007). Ma tra ripetute avventure d’oltreoceano e appassionate incursioni nel Medioevo – prima con Magnificat (1993) e poi con il kolossal I cavalieri che fecero l’impresa (2001) – a imporsi sarebbe stata, ancora una volta, quella riflessione sulla famiglia e sui rapporti padre-figlio da sempre presente nella cinematografia avatiana. La cena per farli conoscere (2006) e Il papà di Giovanna (2008), come ha fatto notare Federico Pontiggia su «Il Fatto Quotidiano», potrebbero così essere collocati all’interno di un’ideale “trilogia sui padri”, giunta poi a compimento con Il figlio più piccolo (2010).
Tra i registi italiani, nessuno sembra attingere idee ed emozioni dalla propria storia personale con la stessa naturalezza di Pupi Avati. Ha saputo raccontare Bologna solo dopo averla lasciata: si è calato nei luoghi fisici dell’infanzia e in quelli ideali della memoria, riscoprendo una città con cui non è ancora avvenuta una piena riconciliazione. Per il duplice rifiuto dell’impegno politico e della sottomissione al mercato, ha ottenuto da Goffredo Fofi l’appellativo di «Truffaut dell’Italietta»: nel restare fedele al credo cattolico e a idee politiche vagamente democristiane, Avati ha scelto una forma di emarginazione che si è rivelata alquanto stimolante… Muovendosi tra l’horror e la commedia, tra il grottesco e il drammatico, il suo cinema ha creato un genere del tutto nuovo, contraddistinto da una predilezione spesso derisa per i buoni sentimenti ma incapace di rinnegare il fascino del lato oscuro dell’anima umana. «Deluderò qualcuno – ha scritto in Sotto le stelle di un film – ma tutti i film di genere horror [...] li ho fatti con l’obiettivo di spaventare, e basta. Non voglio giustificarli con istanze superiori. È stato il resettare me stesso nei riguardi del mezzo, rimettermi alla prova per vedere se ero ancora capace di produrre emozioni primarie. Niente di più. Nessun altro intento artistico o filosofico».
Eppure, neanche i film horror possono ritenersi estranei a quell’«Avati touch», per usare la felice espressione di Tullio Kezich, che regala una delicata grazia ad ogni tipo di narrazione. Le sue opere più sentite sono pervase da una religiosità personale e intrisa di cultura contadina, nella credenza dal sapore antico che il trascendente possa manifestarsi attraverso l’immediatezza della natura. Le sue storie, sempre corali e sommesse, nascono dal quotidiano e cercano di entrare in intimità con lo spettatore. Gli eroi di questi piccoli film sono uomini semplici e insicuri, persone ingenue e mai cresciute del tutto, destinate ad essere tradite e ridicolizzate. Ma sono anche «perdenti senza rassegnazione», come li ha definititi lo stesso Avati, capaci ogni volta di nutrirsi delle più vane speranze. A venticinque anni di distanza, Carlo Delle Piane e Silvio Orlando hanno vinto la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia per ruoli molto simili, rispettivamente con Una gita scolastica e Il papà di Giovanna. Entrambi interpretavano timidi professori liceali – e del medesimo liceo, il Galvani – intenti a difendere le loro illusioni. Ancor più ingenui erano poi i personaggi interpretati da Nik Novecento, scoperto per caso da Antonio Avati e prematuramente scomparso: al secolo Leonardo Sottani, Nik resta la più commovente incarnazione della genuinità e del candore, la più autentica personificazione dell’innocenza che si ricordi nel cinema italiano.
Una nota anomalia del metodo avatiano riguarda proprio la selezione e la direzione degli attori. «L’organizzazione del film assomiglia un po’ agli inviti a cena» ha spiegato una volta Pupi. «Cerchi di mettere insieme le persone con le quali hai piacere di stare, ma che immagini stiano bene tra di loro, a tavola. E così, per i film, io diramo gli inviti prima di sapere esattamente quello che farò, ed è la risposta all’invito che crea in me quella sorta di piccolo brivido, di piccolo entusiasmo, che mi è indispensabile per scrivere la storia. È proprio questo raccontare e riraccontare [alle persone chiamate] che crea in me stesso quell’accumulo di materiale che poi mi è indispensabile nel momento in cui vado a scrivere» (A. Sarno, op. cit., p. 118). A lungo coordinata dall’aiuto regista Cesare Bastelli, col supporto di fidati professionisti quali Riz Ortolani per le musiche, Pasquale Rachini per la fotografia e Amedeo Salfa per il montaggio, la factory non ha mai separato il proprio destino da quello di Gianni Cavina, presente fin dai tempi di Balsamus. A lui si sono aggiunti, negli anni, attori celebri e sconosciuti, improbabili personaggi televisivi e talenti inaspettati: da Mariangela Melato a Ezio Greggio, da Elena Sofia Ricci a Cesare Cremonini, passando per Katia Ricciarelli, Ines Sastre e Francesca Neri, solo per citarne alcuni. «Ma uno studio più attento – ha scritto il critico Lorenzo Pellizzari – rivelerebbe la costante presenza di caratteristi e figuranti che nell’immaginario del regista più che una squadra vengono a comporre un vero e proprio piccolo mondo» (Antonio Maraldi, Il cinema di Pupi Avati, Centro Cinema Città di Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», p. 13-14).
Un mondo che non sarebbe lo stesso senza la famigerata “terapia Avati”. L’ha vissuta il grande Carlo Delle Piane, riabilitato da Tutti defunti… tranne i morti dopo un periodo di commedie di serie B. Vi si è sottoposto con entusiasmo Diego Abatantuono, sdoganatosi dai film precedenti grazie a Regalo di Natale. E ha tentato di praticarla anche Massimo Boldi, nel meno noto Festival (1996). «La prima volta che ho incontrato Pupi è stato per Il nascondiglio» ha ricordato di recente un’attrice assai lontana da necessità di questo tipo, Laura Morante. «Lui subito ha premesso: “ti avverto che in questo film dovrai essere brutta”. Poi nel secondo film mi ha detto: “vorrei che tu rinunciassi ad essere intelligente”… A Pupi piacciono o gli attori che può scoprire e tirare fuori dal nulla, oppure quelli sul viale del tramonto. Io suppongo di essere della seconda categoria…».
Dopo la tiepida accoglienza ricevuta dagli ultimi due film – Il figlio più piccolo con Christian De Sica e la stessa Laura Morante, e Una sconfinata giovinezza (2010), assai più doloroso e commosso – Il cuore grande delle ragazze (2011) figurava tra i favoriti alla sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Non ha vinto, ma per la critica Avati è ormai «il Balzac della celluloide». La sua leggerezza, semplice e nostalgica come l’odore del biancospino, insospettabilmente ed innocentemente licenziosa, non è più imputabile di sentimentalismo.

Manuel Lambertini

giovedì 20 ottobre 2011

L’uomo dalla pistola d’oro

«Sic transit gloria mundi». Laconico e calzante il commento dell’ex-sodale italiano, Silvio Berlusconi. Così passa la gloria di questo mondo. Muammar Gheddafi è stato ferito e giustiziato sul posto da una folla in stato di isteria collettiva. Trascinato nella polvere. Spogliato della camicia da combattente. Calpestato. Difficile dire se a ucciderlo sia stata l’eccitazione dei ribelli o un preciso ordine del Consiglio nazionale di transizione. I capi degli insorti avevano dichiarato di volerlo catturare vivo, ma la sua ingombrante figura – anche nel più penoso dei processi farsa – non avrebbe rinunciato a mettere in imbarazzo le vecchie conoscenze della nuova Libia. Lui che era al potere dal ’69, tra voltafaccia e colpi di teatro, e che nella sua ultima primavera aveva assistito ad un numero impressionante di tradimenti. Primo fra tutti, quello di Mustafa Abd al-Jalil, ministro della Giustizia dal 2007 al 2011 ed oggi segretario del Cnt, bersaglio nel 2010 delle proteste di Human Rights Watch e Amnesty International.
Secondo le testimonianze dei presenti, l’ex rais implorava i suoi nemici: «Non sparate, non sparate». Lo ha confermato anche Mohammed Al-Bibi, il ventenne che avrebbe scoperto il tunnel dove si era nascosto, dopo che aerei Nato avevano messo fuori uso il convoglio che lo scortava. Galvanizzato dall’entusiasmo dei compagni d’armi, il ragazzo sorrideva davanti alle telecamere brandendo la pistola d’oro che il colonnello portava sempre con sè. Ma la ricostruzione degli avvenimenti è grossolana, non verificabile e non credibile, funzionale alla rimozione di una resistenza sorprendente, imprevista, prolungatasi fino alle estreme conseguenze, fino all’ultimo respiro. Versione contraddittoria e lacunosa, scandita da una ridda di voci contrastanti e offuscata da innumerevoli incongruenze. In alcune immagini si vede l’ex presidente della Jamahiriya camminare con le proprie gambe. In altre, girate poco dopo, lo si vede riverso a terra senza vita, coperto dalla polvere e dal sangue. Nessuna corsa in ambulanza, contrariamente a quanto dichiarato nelle prime ore, e nessun tentativo di salvargli la vita.
Non ci sono dubbi: il vecchio leone è morto con le armi in pugno. Seguitava a rivendicare la propria diversità rispetto agli altri leader arabi, Ben Ali e Mubarak in testa, e ha preferito l'onore alla vita. Fedele alla migliore tradizione della tragedia shakespeariana, si era asserragliato nella sua Sirte, al fianco degli ultimi fedelissimi, e non tra i Tuareg del deserto o in un qualsiasi altro esilio dorato. Stavolta è impossibile non associarsi all’epitaffio di Giuliano Ferrara: «Le persone sane di mente e di cuore sanno che è stato, oltre che un assassino, anche un grande combattente». E il vagito della Libia che verrà è ora inascoltabile, perché la primavera araba ha appena esalato l’ultimo respiro. Tra grigi burocrati, militari riciclati e inaddomesticabili sgherri col coltello tra i denti.

Manuel Lambertini

martedì 18 ottobre 2011

Andrea Zanzotto


Esistere psichicamente (1957)

Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
- soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli -
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch’io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d’inferno
degli atomi e il conato
torbido d'alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.

                                   Andrea Zanzotto (10 ottobre 1921 – 18 ottobre 2011)

Manuel Lambertini

lunedì 26 settembre 2011

Wangari Maathai

Bologna, Palazzo D'Accursio, 11 maggio 2010
Se ne è andata «il 25 settembre 2011 dopo una lunga e coraggiosa lotta contro il cancro», si legge sul sito internet del Green Belt Movement, l’organizzazione non governativa che ella stessa aveva fondato nel 1977 e che da allora combatte la deforestazione del continente africano. Prosegue il comunicato: «La dipartita della Professoressa Maathai è prematura ed è una grandissima perdita per tutti coloro che la conoscevano - come madre, parente, collega, modello, e eroina; o che ammiravano la sua determinazione nel rendere il mondo un posto più pacifico, più sano e migliore».
Tra le grandi personalità africane, nessuna al pari di Wangari Maathai è riuscita a indirizzare la propria realizzazione professionale verso una così alta condivisione delle improcrastinabili battaglie a difesa dell’ambiente. Nata a Nyeri il 1° aprile 1940 in una modesta famiglia di etnia kikuyo, nel 1966 si laureò in Scienze Biologiche all’Università di Pitthsburg, grazie alla borsa di studio che il programma “Ponte aereo Kennedy” forniva agli studenti africani più meritevoli. Nel 1971 fu la prima donna dell’Africa Orientale a ricevere un dottorato di ricerca, e poi la prima a dirigere un dipartimento universitario in Kenya: al 1976 risale infatti la sua nomina a capo del dipartimento di Anatomia Veterinaria presso l’Università di Nairobi.
Il Green Belt Movement vide la luce l’anno successivo, su sollecitazione del Consiglio Nazionale delle Donne del Kenya, che la stessa Maathai avrebbe successivamente presieduto. Oggi, dopo oltre tre decenni di attività e grazie alla partecipazione di tremila donne, l’associazione può vantare una campagna di riforestazione che conta circa 30 milioni di alberi piantati con il coinvolgimento delle piccole comunità locali. Un impegno che è valso a Wangari Maathai il soprannome di Mama Miti, “mamma degli alberi”. Non mancarono neanche i riconoscimenti internazionali… Nel 1984 le venne assegnato il Right Livelihood Award, noto come il Nobel alternativo, in seguito conferito ad un’altra icona ecofemminista, Vandana Shiva. E nel 2004, dopo vent’anni di lotte - anche contro il governo di Daniel Arap Moi, la cui polizia non esitò a picchiarla mentre stava piantando alberi nella foresta di Karura, nei pressi di Nairobi - la parlamentare e neo sottosegretaria al Ministero dell’Ambiente fu insignita del Premio Nobel per la Pace. Quello vero. In omaggio al «suo operato nel campo dei diritti delle donne, perché il suo lavoro ha ispirato moltissimi altri attivisti, perché ha saputo conciliare la scienza e il lavoro democratico». Per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace».
Durante la cerimonia di consegna del premio, pronunciò un discorso dall’enorme slancio profetico: «Sono passati trent’anni dall’inizio del nostro lavoro. Le attività che devastano l’ambiente e le società proseguono senza sosta. Oggi ci troviamo di fronte ad una sfida che richiede un cambiamento nel nostro modo di pensare, affinchè l’umanità smetta di minacciare il proprio sistema di supporto vitale. Siamo chiamati ad aiutare la Terra a guarire le sue ferite, e a guarire la nostra – anzi, ad abbracciare l’intera creazione in tutta la sua diversità, bellezza e meraviglia. [...] Nel corso della storia, arriva un momento in cui l’umanità è chiamata a passare ad un nuovo livello di coscienza, per raggiungere un terreno morale superiore. Un tempo in cui dobbiamo liberarci delle nostre paure e trasmetterci speranza a vicenda. Quel tempo è adesso».
Da allora girò il mondo ripetendo sempre lo stesso messaggio: «In tutte le analisi dei problemi dell’Africa, c’è una risorsa che spesso non viene apprezzata: gli africani stessi». E l’immensa saggezza dell’Africa non è certo scomparsa con lei. Quell’Africa ancora dilaniata dalla povertà. Culla di un’umanità distratta. Terra insanguinata da eterni conflitti. Ma madre amorevole di una donna dolce e ostinata, capace di reggere sulle proprie spalle il peso di questo opprimente fardello. Un carico che ora grava sulle generazioni che verranno, alleggerito soltanto dalla forza del suo esempio.

Manuel Lambertini

venerdì 16 settembre 2011

Donne che odiano Madonna

Andrea Riseborough, Madonna e Abbie Cornish
1° settembre 2011
Trovarsi a un metro di distanza dalla Regina del Pop non è un’esperienza che possono vantare molti. A me è successo quindici giorni fa durante la 68esima Mostra di Venezia, all’imbarcadero dell’Hotel Excelsior. Con alcuni amici stavo seguendo il grande press agent Enrico Lucherini, convinto che fosse in procinto di accogliere qualche ospite importante… A ragione, pensavamo si trattasse dei protagonisti di Sangue caldo, la fiction di Canale 5 con Asia Argento, Manuela Arcuri e Gabriel Garko. Ma l’atmosfera di sovreccitazione che aleggiava tra i presenti ci ha fatto pensare subito a qualcosa di più grosso... Poi è arrivata la conferma: la conferenza stampa di presentazione del film W. E. era appena finita, e Madonna Louise Veronica Ciccone stava per entrare in Hotel. Preceduta da un numero considerevole di guardie del corpo, la guardo sbarcare sulla passerella di fronte ai fotografi. Un bodyguard mi vede giocherellare con la macchina fotografica: si avvicina con aria grave e me la fa mettere via. Intanto Madonna ha raggiunto un gruppetto di fans urlanti, raccolti dietro le transenne. Firma un paio di autografi. Poi il volume delle urla sale, la piccola folla comincia a spingere, una guardia del corpo è costretta ad appoggiarsi di peso alla transenna. La fanno entrare dopo pochi secondi. Per un momento me la trovo di fronte. Dall’interno del corridoio che dà nella hall, la vedo agitare in aria le braccia e lanciarsi in un sospiro liberatorio, prima di scambiare una risata complice con la ragazza che la tiene a braccetto. Poi i bodyguard la indirizzano in un corridoio laterale, di cui ci viene opportunamente sbarrato l’accesso.
La mia storia con Madonna finisce qui. E mi ha lasciato la piacevole impressione di aver assistito alla autosospensione di un mito costruito dal nulla; mito temporaneamente rimosso, messo in ombra da un più urgente desiderio di tranquillità. Ma a quei giorni risale anche l’incubazione di una polemica che è deflagrata solo ora, dopo la pubblicazione dell’intervista che la Regina del Pop ha rilasciato a Oggi. Chiamata ad esprimere un giudizio su Berlusconi, si è limitata a rispondere: «Cosa penso di Berlusconi? Non vorrei parlarne adesso. Ma il settimanale inglese Economist ha già detto tutto, no?». Molto probabilmente il riferimento è ad un recente titolo: «Perché Silvio Berlusconi è inadatto a governare l’Italia». Apriti cielo! I berluscones non hanno esitato a dare battaglia. Il sottosegretario Giovanardi ha colto la palla al balzo: «Molto intelligente l’attacco all’Italia e a Berlusconi della signora Ciccone. Riprende un giornale inglese, The Economist, che pontifica da un Paese in cui, ad agosto, abbiamo visto rivolte sociali senza precedenti e certamente avrà sentito cosa ha detto il premier inglese a commento di una città come Londra messa a ferro e fuoco; l’Inghilterra è un Paese in preda a un evidente sfascio delle strutture familiari, a una disgregazione totale della società. Insomma se il pulpito cui si ispira Madonna è quello inglese allora possiamo stare tranquilli». E poi la ciliegina sulla torta: il pensiero politico della popstar «non conta nulla. Gli italiani sanno che è una supermiliardaria e non è che la gente si lasci irretire da questi satrapi ricchi e viziati. Tra l’altro, la signora Ciccone è apertamente per le famiglie omosessuali, quindi schierata palesemente contro la nostra cultura e la nostra Costituzione che non prevedono famiglie gay». Già, la gente non si lascia irretire da questi satrapi ricchi e viziati… E gli italiani non resterebbero certo a guardare, se qualcuno di questi supermiliardari calpestasse la loro Costituzione…
Le prime ad insorgere, tradite dalla deriva antiberlusconiana di Madonna, sono però state le donne del Pdl. Come non accorgersi, ad esempio, della reazione di Daniela Santanchè? Al solo leggere le sue dichiarazioni sembra quasi di sentirne la voce. Sembra di vederla, mentre dice che Madonna «va contro la scelta democratica di milioni di italiani che hanno voluto e votato con convinzione questo governo. Mi dispiace che Madonna usi queste parole nei confronti dell’Italia. Dispiace che sia proprio un’italoamericana a giudicare così negativamente il suo Paese. Mi auguro a questo punto che gli italiani pensino di lei quello che lei pensa di loro e che, quindi, il suo peraltro stroncatissimo film se lo veda da sola. Quello che fa più male è che queste celebrità siano particolarmente attente a lanciare i loro prodotti e, senza scrupoli, facciano il loro marketing sulla pelle degli italiani».
Apparentemente più pacata la replica di Gabriella Carlucci: «Continuerò ad essere una sua grandissima fan e ad apprezzarla artisticamente, ma trovo un errore strategico la sua dichiarazione. È evidente che non sa nulla dell’Italia. È come se io, che sono stata recentemente negli Usa per un gemellaggio con la città di Miami, parlassi male di Obama». Il confronto lascia un po’ perplessi. Ma il meglio deve ancora venire: «Mi dispiace moltissimo che Madonna abbia avallato le tesi dell’Economist, tra l’altro in un Paese come l’Italia che la adora. Evidentemente ha un ufficio stampa comunista che le ha detto di dire così per farla uscire meglio sui giornali comunisti».

Manuel Lambertini

lunedì 12 settembre 2011

Dieci anni e un giorno

Nel commemorare il decennale dell’11 settembre, Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio al presidente Obama nel quale ricorda come la tragedia delle Twin Towers abbia «unito americani e non americani, nel segno del medesimo dolore e di una condivisa determinazione». Per il Presidente della Repubblica, «al di là dello shock immediato, tutte le Nazioni e i popoli civili hanno compreso che i nostri valori comuni fondamentali erano stati ripudiati e attaccati. Era necessario combattere contro il terrorismo internazionale, in quanto minaccia diretta non solo contro il mondo occidentale ma contro l’intera comunità internazionale. Questo è divenuto un comune impegno per la comune sicurezza». In quest’ambito, «importanti risultati sono stati raggiunti». E ancora oggi «la sicurezza di tutti rimane fondamentale. Ma dobbiamo anche guardare avanti e rafforzare quella solidarietà internazionale e multilaterale che ci ha sostenuto dieci anni fa. Non abbiamo semplicemente combattuto il terrorismo. Abbiamo salvaguardato i nostri valori comuni in pericolo; abbiamo difeso i diritti umani, lo stato di diritto, la libertà e il rispetto per la vita umana; abbiamo rifiutato uno scontro tra culture e abbiamo promosso il dialogo; abbiamo preservato i fondamenti e la legittimazione della comunità internazionale». Resta fermo «il nostro impegno comune per un mondo più sicuro, aperto e pacifico».
Giorgio Napolitano e Barack Obama al Quirinale, 8 luglio 2009
Nessuno ha avuto il coraggio di dire che li abbiamo invece traditi, quei valori. Che gli otto anni di Amministrazione Bush hanno cavalcato proprio quello scontro tra civiltà che Obama e le rivolte arabe sembrano aver momentaneamente riposto nel cassetto. Che a Guantanamo e ad Abu Ghraib abbiamo deliberatamente calpestato «i diritti umani, lo stato di diritto, la libertà e il rispetto per la vita». E se qualcuno riesce ad annoverare l’assassinio di Bin Laden tra gli «importanti risultati raggiunti», è assai più difficile fare lo stesso con la criminale invasione dell’Iraq e con l'occupazione dell’Afghanistan. Con buona pace della «solidarietà internazionale e multilaterale», ben presente al tempo della guerra contro i Talebani, ancora una volta abbiamo promosso la democrazia solo se compatibile con gli interessi occidentali, sostenuti da quelle stesse dittature che la Primavera Araba ha spazzato via. Unilaterale è stata l’Operazione Iraq Freedom, lanciata da Usa e Gran Bretagna sulla base di inenarrabili menzogne. E unilaterali sono state le tante offensive scatenate da Israele, in Cisgiordania come in Libano, come a Gaza, dove lo Stato ebraico ha smantellato le proprie colonie, sempre unilateralmente, nel 2005.
Inevitabile conclusione: il messaggio con cui Napolitano sotterra dieci anni di crimini e di fallimenti è un capolavoro di politically correct. Obbligato, certo. Speriamo almeno non sia sincero.

Manuel Lambertini

domenica 11 settembre 2011

Azzollini

Ricordarsi della sua faccia non risulta molto difficile. Lo è molto di più credere che proprio lui, il senatore Azzollini, sia relatore della manovra economica ora all’esame del Parlamento, nonché Presidente della Commissione Bilancio del Senato. A lui è da far risalire anche la paternità dell’art. 8 della manovra, che introduce il licenziamento senza giusta causa in deroga all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. E reca la sua firma l’emendamento che recepisce l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso: i contratti sottoscritti dalla maggioranza dei sindacati saranno validi «per tutti i lavoratori», e con l’assenso delle stesse organizzazioni sindacali si potrà derogare all’obbligo di reintegro previsto per i lavoratori licenziati senza giusta causa.
Ma chi è Antonio Azzollini, l’improbabile regista del fortunato colpo di mano? Forse l’unico uomo politico ad essere sindaco di un comune con più di 60.000 abitanti – la natia Molfetta – e contemporaneamente senatore e Presidente di Commissione. Già primo cittadino del comune pugliese, nel 2008 aveva rassegnato le dimissioni per poter partecipare (con successo) alle elezioni in Senato, salvo poi ricandidarsi e sconfiggere il democratico Mino Salvemini. Classe 1953, è avvocato dal 1984. Della sua formidabile carriera politica, la prima cosa che salta agli occhi è la vecchia militanza comunista. I terreni della sinistra, per la verità, il senatore Azzollini li ha battuti un po’ tutti: dal Partito di Unità Proletaria ai Verdi, al Pci-Pds. Poi l’adesione al Partito Popolare Italiano, e l’ingresso in grande stile nella neonata Forza Italia: perché non poteva «rimanere ucciso ideologicamente sotto le macerie del Muro di Berlino».
Poche volte ha goduto della visibilità che ha oggi, ma sempre grazie a exploit di tutto rispetto. Irresistibili le sue imprecazioni in dialetto barese durante la seduta del consiglio comunale che, nel settembre 2008, seguì alla decisione del Tar di imporre una minima presenza femminile in Giunta.  Provocò invece una levata di scudi la proposta, poi ritirata, di tagliare le tredicesime a magistrati, poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, personale di carriera prefettizia, professori e ricercatori universitari… È infine di stretta attualità il pacchetto anti-evasione, con provvedimenti che prevedono il carcere per chi evade più di 3 milioni di euro e la pubblicazione on-line delle dichiarazioni dei redditi.
Ma tra la commedia all’italiana e il noir, si sa, il confine è spesso incerto: a giugno un’inchiesta della Procura di Trani, l’operazione «Mani sulla città», ha svelato abissi di illegalità e di corruzione gravitanti attorno al Comune di Molfetta. 51 le persone indagate, 9 gli arresti. Secondo gli inquirenti, l’attività amministrativa dell’Ufficio Tecnico del Comune era stata interamente dirottata verso interessi privati, a beneficio dello studio di progettazione riconducibile all’ing. Rocco Altomare, dirigente del’UTC di Molfetta. Gravissime le ipotesi di reato: associazione a delinquere finalizzata a corruzione e concussione, abuso d’ufficio, reati contro la pubblica amministrazione, reati ambientali implicanti notevoli rischi di natura idrogeologica... Il sindaco Azzollini, che pure non risulta tra gli indagati, ha finora ignorato le numerose richieste di dimissioni. Ma la farsa che lo vede protagonista non diverte più come prima.

Manuel Lambertini

venerdì 12 agosto 2011

Londra in fiamme

«Dai nuovi segni di negazione [della società dello spettacolo], incompresi e falsificati dall’organizzazione spettacolare, che si moltiplicano nei Paesi economicamente più avanzati, si può già trarre questa conclusione, che una nuova epoca si è aperta: dopo il primo tentativo di sovversione operaia, è ora l’abbondanza capitalista che è fallita. Quando le lotte antisindacali degli operai occidentali sono represse prima di tutto dai sindacati, e quando le correnti in rivolta della gioventù lanciano una prima protesta informe, nella quale nondimeno il rifiuto della vecchia politica specializzata, dell’arte e della vita quotidiana è immediatamente implicito, sono queste le due facce di una nuova lotta spontanea che comincia sotto l’aspetto criminale. Sono i segni precursori del secondo assalto proletario contro la società di classe. Nel momento in cui i fanti perduti di questo esercito ancora immobile riappaiono su questo terreno, divenuto diverso e rimasto lo stesso, essi seguono un nuovo “generale Ludd” che, questa volta, li lancia nella distruzione delle macchine del consumo permesso.»

(Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, pp. 118-119, 1967, ed. 2004)

Manuel Lambertini