domenica 31 maggio 2015

Il ritorno di Sorrentino

La locandina del film
A due anni esatti dalla prima proiezione de La grande bellezza, presentato alla 66esima edizione del Festival di Cannes, Paolo Sorrentino è tornato al cinema con un film dal respiro internazionale: Youth - La giovinezza, che vede sfilare un cast di stelle, dal protagonista Michael Caine a Harvey Keitel, da Rachel Weisz a Jane Fonda.
Il tocco sicuro e l’apparente autoreferenzialità del regista non devono ingannare: il film che segue la vittoria di un Oscar è il più difficile per tutti. Lo fu per Giuseppe Tornatore, che con Stanno tutti bene restò lontano anni luce dal folgorante successo di Nuovo Cinema Paradiso. Andò allo stesso modo a Gabriele Salvatores, tuttora costretto a confrontarsi con i fasti di Mediterraneo: l’aver indicato fin dall’inizio Lanterne Rosse di Zhang Yimou quale vincitore morale dell’Oscar non bastò ad attirargli l’indulgenza della critica nei riguardi dei film successivi. Per non parlare dello scherno che accolse il Pinocchio di Benigni, insignito nel 2002 del Razzie Award al peggior attore protagonista.
Di Youth è stato detto che non aggiunge nulla al dibattito accesosi negli ultimi anni intorno al cinema di Sorrentino: agli ammiratori il buon gioco di esaltarne l’estetica e la potenza visiva, ai detrattori il facile esercizio di stigmatizzare la frammentarietà della sceneggiatura e la debolezza della storia. Niente di nuovo, insomma. Anche gli aggettivi, dall’uno e dall’altro punto di vista, restano gli stessi: emozionante, inconsistente, anticonvenzionale, kitsch, felliniano.
Michael Caine e Harvey Keitel in Youth (2015)
Le principali riserve su Youth sono a loro volta riconducibili ai due grandi filoni critici già consolidatisi a proposito degli altri film. Il primo filone, più popolare, non avrebbe potuto trovare esemplificazione migliore di quella offerta anni fa da Paolo Cirino Pomicino in un dibattito tv su Il divo: «Durante il film mi stavo addormentando». È il rischio di annoiare gli spettatori il più grande nemico di chi fa cinema come Sorrentino. Ma il fatto che questo giudizio metta d’accordo una buona parte di pubblico dovrebbe far riflettere più il pubblico stesso che il regista: sulla generale incapacità di discostarsi dai modelli mainstream, di cogliere la grandiosità del mezzo cinematografico e il suo valore in sé; sulla perdita dell’abitudine a contemplare la forma, i dettagli, i caratteri di personaggi curati fin nei minimi particolari. Dal Tony Pisapia de L’uomo in più al Cheyenne di This Must Be The Place, fino all’ormai citatissimo Jep Gambardella de La grande bellezza: non c’è regista italiano dell’ultima generazione la cui filmografia possa vantare personaggi tanto originali e memorabili.
L’altro filone di critiche al cinema di Sorrentino – e a Youth – si concentra invece sul fronte logoro ma incandescente del contenuto. Qui riscuotono indiscusso apprezzamento la fotografia di Luca Bigazzi e le musiche di Lele Marchitelli o David Lang, ma ciò che non viene perdonato è l’assenza di un messaggio forte. In altre parole, la lentezza nel ritmo e la raffinatezza del linguaggio sarebbero state tollerate (e persino celebrate) se poste al servizio di grandi temi a sfondo sociale. Ed ecco che su Sorrentino si abbatte l’inappellabile accusa di «fellinismo», con l’aggravante di una così autocompiaciuta magniloquenza a fare da cornice al peggior «cinema del nulla».
Il cast di Youth al Festival di Cannes (20 maggio 2015)
Malgrado i toni eccessivi e stupidamente zelanti di certe critiche, non si allontanerebbe molto dalla verità chi considerasse Youth come un nuovo capitolo, quasi un’appendice, de La grande bellezza. Non c’è la sfavillante indifferenza di Roma, ma un albergo di lusso sulle Alpi svizzere, meta di villeggiatura di una schiera di artisti, attori, celebrità decadute e agiati intellettuali in età senile. Ritorna invece Federico Fellini, il Fellini di 8 ½, che insieme a La montagna incantata di Thomas Mann si accredita coma la principale fonte d’ispirazione del film. Al posto di Jep, Roman, Ramona e Dadina abbiamo il direttore d’orchestra in pensione Fred Ballinger (Michael Caine), insidiato da un emissario della Regina d’Inghilterra che intende fargli dirigere un ultimo concerto per il Principe Filippo, e il regista Mick Boyle (Harvey Keitel), alle prese con la stesura del suo film-testamento; poi la figlia di Ballinger, Lena (Rachel Weisz), con un divorzio in vista, l’attore hollywoodiano Jimmy Tree (Paul Dano), l'ultima Miss Universo (Madalina Ghenea) e un Diego Armando Maradona (Roly Serrano) ormai attaccato alla bombola d’ossigeno.
La sceneggiatura, anche qui, punta più sulle battute fulminanti e sul solenne distacco dei suoi nobili interpreti – e l’ironia leggera di alcuni critici non ha risparmiato nemmeno Sir Michael Caine, «truccato da Toni Servillo» – che sulla costruzione narrativa o su particolari articolazioni nell'intreccio. Fred e Mick, giunti alla fine di una vita che li ha portati alla gloria, sono legati da un’amicizia strana: parlano solo di cose belle, restano complici soprattutto per quello che non si dicono. Ma il Fred Ballinger che libera dalla polvere dell’apatia il suo antico amore per la moglie, tra le lacrime di commozione di Lena, non è molto diverso dal Jep Gambardella che ricomincia a scrivere, a vivere. Perché a volerlo trovare per forza, il senso del cinema di Sorrentino è nello sguardo saggio e amoroso con cui illumina i suoi personaggi. Nessuno di loro va incontro a condanne definitive, anche i più miserabili vengono sfiorati da lievi folate di grazia.
Si potrà allora sostenere che questo regista appena quarantacinquenne abbia fatto sempre lo stesso film, a patto di riconoscerlo come un film su esseri umani che hanno – o non hanno – il coraggio di deporre maschera e armatura, di aprirsi a nuovi rischi. Persone che comunque si rivelano essere qualcosa di più della loro indifferenza. «Le emozioni sono tutto quello che abbiamo»: è questo l'unico, vero testamento che Mick riesce ad affidare a Fred. A fare il paio con un'altra grande lezione, impartita in altri tempi da Alfred Hitchcock: «Il cinema è il come, non il cosa».