mercoledì 29 febbraio 2012

Poesia dal disgelo


Roberto Roversi (Bologna, 28 gennaio 1923)

XVIII.

Italia sepolta sotto la neve
adorata maledetta
perduta ritrovata
muta loquace assisa in un cortile a Venezia
dove trionfa Goldoni seduto al Caffè.
Incapace di fedeltà
distrutta dalle passioni
calpestata da una dolorosa viltà
trascinata dalle ruote della Ferrari
e dall’amore di un popolo che oggi è travolto
infuriato o inquieto.
Giardino di ciliegi
diventato foresta frequentata da nani
con il pelo di ferro
divorata dalle cavallette avide e ciarliere
precipitosa armata incalzata dal vento…

                            Roberto Roversi

 Trenta miserie d’Italia, XVIII, Ascoli Piceno, Sigismundus Editrice, 2011.

Manuel Lambertini

domenica 19 febbraio 2012

Non è Sanremo

Gianni Morandi, Ivana Mrazova e Rocco Papaleo
Erano 21 anni che un film italiano non vinceva il Festival di Berlino. Eppure la notizia dell’Orso d’Oro ai fratelli Taviani per Cesare deve morire ha tenuto banco solo poche ore, immediatamente oscurata dal trionfo di Emma a Sanremo. Apertosi con imbarazzanti problemi tecnici, che nella prima giornata hanno perfino invalidato il voto della giuria demoscopica, il 62esimo Festival della Canzone Italiana si è trascinato per cinque giorni tra inconvenienti di ogni sorta, pettegolezzi e polemiche. Dopo l’esclusione preventiva di Tamara Ecclestone, una misteriosa cervicalgia ha colpito l’altra valletta, Ivana Mrazova. Di qui il frizzante ritorno, per le prime due sere, di Elisabetta Canalis e Belen Rodriguez. Poi le «parolacce» di Luca e Paolo, gli strali di Celentano contro Famiglia Cristiana e Avvenire, il «commissariamento» del Festival voluto dal direttore generale Lei, lo spacco vertiginoso di Belen e la farfallina tatuata sull’inguine, fino alle esternazioni – per la verità piuttosto generiche – del ministro Elsa Fornero…
Nel commentare l’edizione dell’anno scorso, notavo quanto fosse pressante e visibile il controllo dei vertici Rai. Quest’anno è andata diversamente: l’uso insensato di una libertà assai più ampia ha fatto naufragare la speranza che il Festival di Sanremo potesse essere un luogo di riflessione e solidarietà, oltre che di intrattenimento. Quanti non nutrivano alcuna aspettativa in proposito, anche stavolta, avevano ragione. E benché lo spettacolo non sia da cestinare in blocco – la presenza di Rocco Papaleo, alcune canzoni, le coreografie e i duetti della serata di giovedì, alla presenza di Josè Feliciano, Brian May e Patti Smith, sono stati persino coinvolgenti – l’atteso intervento di Celentano è stato davvero sconfortante. Non perché sia scandaloso dire che i maggiori giornali cattolici «andrebbero chiusi», esternazione peraltro stigmatizzata dagli stessi che umiliarono e spinsero alle dimissioni proprio l’ex direttore di Avvenire, Dino Boffo. Né per la durezza dei toni, che pure non ha risparmiato ad Aldo Grasso l’appellativo di «deficiente» che «scrive delle idiozie sul Corriere della Sera» davanti a 16 milioni di telespettatori. Il fallimento di Celentano, in parte riparato nella serata finale e comunque attenuato da esibizioni magistrali (su tutte, il duetto con un commosso Gianni Morandi nella bellissima Ti penso e cambia il mondo), è da imputare alla mancanza di quella qualità che lui stesso ha sempre annoverato tra i propri pregi: la capacità di farsi capire.
Gianni Morandi e Adriano Celentano
Difficile dire quanti telespettatori abbiano cercato di comprendere il perché di improvvise critiche alla linea editoriale di due giornali accusati di parlare poco di Dio e troppo della politica degli uomini. La successiva gag con Morandi e Pupo, spiazzante e piacevole, avrebbe potuto funzionare, ma richiedeva in questo senso uno sforzo ancor maggiore: il referendum sulla legge elettorale bocciato dalla Consulta, la «bassezza» dell’italiano medio, le contraddizioni degli artisti e degli intellettuali di sinistra… Un’accozzaglia indistinta di allusioni e avvenimenti freschi di cronaca che avrebbe potuto trovare giusta collocazione in uno show a puntate, ma certamente fuori luogo per un Festival della Canzone. 
Come Marino Bartoletti aveva auspicato fin dall’inizio, la finale era tra sole donne. Che il televoto premiasse Emma Marrone era più che prevedebile: una vittoria, la sua, maldestramente in continuità con l’impegno sociale del Vecchioni di Chiamami ancora amore – la canzone di Emma, Non è l’Inferno, si apre con le parole: «Ho dato la vita e il sangue per il mio Paese / e mi ritrovo a non tirare a fine mese…» (sic!) – ma che dopo i successi di Marco Carta e Valerio Scanu trasforma definitivamente Sanremo nella vetrina dei talent show targati De Filippi. Poteva esistere deriva peggiore per una manifestazione che fino a qualche anno fa era saldamente in mano a professionisti come Pippo Baudo o Fabio Fazio?

Manuel Lambertini