lunedì 30 gennaio 2012

Oscar Luigi Scalfaro

Oggi gli è stato tributato l’ultimo saluto, in una cerimonia semplice e sbrigativa, quasi impaziente di consegnare alla storia la sua immensa eredità.
Oscar Luigi Scalfaro non fu il presidente di tutti. Solo dell’Italia migliore. Fu un uomo di parte. Sempre in difesa della democrazia, dello Stato laico e della Costituzione repubblicana, scritta col sangue dei caduti della Resistenza, come lui stesso amava ricordare. La laicità, diceva, non gliela avevano certo insegnata i massoni… «Me l’hanno insegnata i preti, con il catechismo!». Lui, cattolico di ferro ed ex magistrato dal piglio combattivo, ma “apolide” all'interno della Dc, alieno alle molteplici correnti che attraversavano la Balena Bianca: «Presidente per disgrazia ricevuta», lo definì Indro Montanelli in quel tragico maggio 1992, enfatizzando il ruolo decisivo che la strage di Capaci ebbe nella sua elezione al Quirinale. Dalla destra Dc – il «centrismo popolare» di Mario Scelba – e dal categorico rifiuto del «compromesso storico», era infine approdato al Partito democratico, con il rigore e l’integrità di sempre. «Buona battaglia» era l’augurio che più frequentemente rivolgeva agli interlocutori, specie se di giovane età. Ed ora quell’«io non ci sto» gridato davanti alle telecamere resta a testimonianza di un’alta concenzione della politica, non disponibile ad annacquare tra vicendevoli illazioni le più manifeste diversità morali.
Le generazioni future gli sono debitrici di due grandi meriti. Innanzitutto, l’aver compreso prima di chiunque altro l’incompatibilità del berlusconismo con la democrazia, e l’essersi attivato concretamente per arrestarne l’ascesa. Poi la difesa fiera e appassionata di quella Carta Costituzionale che aveva contribuito a scrivere, e che col referendum del 2006 fu preservata dalla devolution anche grazie al suo straordinario attivismo.
Non dimenticherò mai le parole con cui si congedò alla platea grata e commossa della Festa de l’Unità di Bologna, nel 2005, proprio alla vigilia di quell’entusiasmante campagna: «Molti non mi hanno mai potuto digerire per quello che ho fatto, ma molto peggio sarebbe stato se, a non potermi digrerire, fosse la mia coscienza!».

Manuel Lambertini

domenica 22 gennaio 2012

Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo (18 febbraio 1933 - 21 gennaio 2012)
Sembrava appartenere ad un’altra epoca, e a luoghi lontani, che solo i suoi occhi perspicaci potevano vedere. Invece era nato a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, nel 1933: si è spento a Milano, dove viveva da molti anni, ma riposerà per sempre nella sua Sicilia. Piccolo di statura, voce ferma e pulita. Dietro allo sguardo accigliato e spesso impassibile, un abisso di dolcezza.
Vincenzo Consolo era uno scrittore di inimitabile originalità. Il suo stile raffinato, ricercato, antico, e tuttavia lontano dal puro sperimentalismo, non esitava ad attingere ulteriore ricchezza dal dialetto e da tradizioni culturali fra loro diversissime, fino alla costruzione di un codice linguistico del tutto personale. Tra i suoi maestri, Elio Vittorini, che la timidezza gli impedì di avvicinare, nella Milano degli anni ’50. Ma anche Ignazio Buttitta, Lucio Piccolo, Antonino Uccello. E soprattutto Leonardo Sciascia. Fu proprio il grande scrittore di Racalmuto a ricoscere per primo la sua «notevolissima e appartata presenza nella letteratura italiana d’oggi», perfettamente inserita «nella tradizione della narrativa siciliana» e addirittura capace di compiere «una specie di “rovesciamento della praxis” realistica che a questa tradizione è peculiare». Sciascia lo apprezzò fin dalla pubblicazione del primo romanzo, La ferita dell’aprile (1963), e assistette entusiasta alla sua definitiva consacrazione con Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976).
In quest’ultima opera, la più celebre di Consolo, si impose con forza quella grande riflessione sull’uomo e sulla storia che avrebbe dominato la sensibilità dello scrittore anche negli anni successivi. Il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, nobile filantropo completamente dedito alla ricerca malacologica, nota in uno sconosciuto la stessa espressione del marinaio dipinto da Antonello Da Messina nel Ritratto d'uomo che egli ha appena acquistato: «Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà». L’uomo del fugace incontro è in realtà l’avvocato Giovanni Interdonato, che nella Sicilia del Risorgimento sta segretamente organizzando l’opposizione al potere borbonico. E con l’esplodere delle rivolte contadine del 1860 e l’arrivo delle truppe di Garibaldi, la stessa figura del barone viene caricata dei più opprimenti interrogativi circa la responsabilità civile dell’intellettuale ed il suo ruolo nella società, con un passaggio all’azione consapevole e tormentato.
Antonello Da Messina, Ritratto d'uomo, 1465-1476
Nelle pieghe di quell’epoca lontana si intravedono le stesse miserie della nostra, anch’essa intrappolata nella circolarità della storia e parte inscindibile di una spirale eternamente sospinta dalla sopraffazione.
Di qui la predilezione di Consolo per una narrativa continuamente sospesa tra la ricerca storica, l’indagine linguistico-filologica, la poesia e le suggestioni dell’arte figurativa. Grande attenzione riscossero presso la critica i lavori successivi a Il sorriso dell’ignoto marinaio. In particolare, a Lunaria (1985) fu assegnato il Premio Pirandello, mentre Nottetempo, casa per casa (1992) pochi anni più tardi si aggiudicò lo Strega. A Retablo (1987), scritto grazie alle sollecitazioni di Elvira Sellerio, era invece andato il Premio Grinzane Cavour. Esplicito, qui, il richiamo allo stesso straziante rovello del Sorriso: «Ma così mai sempre è la veritate della storia, il suo progredire lento e contrastato, il miscuglio d’animalità e di ragione, di tenebra e di luce, barbarie e civiltà. […] Ah, lasciamo, lasciamo di dire qui di quanto l’uomo è stato orribile, stupido, efferato. Ed è, anche in questo nostro che sembra il tempo della ragione chiara e progressiva. L’uomo dico in astratto, nel cammino generale della storia, ma anche ciascun uomo al concreto, io, voi (perdonate), è parimenti ottuso, violento nel breve tempo della propria vita. Vive sopravvivendo sordo, cieco, indifferente su una distesa di debolezza e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe».
Nessuna delle sue storie sarebbe comunque stata possibile senza l’amore sconfinato che nutriva per la propria terra, percorsa infinite volte nelle peregrinazioni dei suoi personaggi. Un amore discretamente custodito e accarezzato dalla lontana Milano, ma anche esibito con esemplare veemenza dopo l’offensiva di Cosa Nostra dei primi anni ’90, e scolpito per sempre nelle pagine de Lo Spasimo di Palermo (1998).  Lo stesso dicasi di quella naturale vicinanza agli ultimi e agli oppressi che alimentò la sua radicale opposizione alle «demenze localistiche» della Lega Nord. E che nel marzo 2002 gli fece visitare la Palestina assediata dall’esercito israeliano, al seguito di una delegazione del Parlamento Internazionale degli Scrittori: erano presenti, tra gli altri, i Premi Nobel Josè Saramago e Wole Soyinka, lo statunitense Russell Banks, il sudafricano Breyten Breytenbach e il cinese Bei Dao… Come scrisse egli stesso, sempre in quel prezioso, irripetibile romanzo che è Retablo (1987): «Gli umili solamente e disinteressati mostrano qualche volta di guardare all’essere, essere dico unicamente òmini, e dunque degni di stima e di rispetto, in qualsiasi condizione e traversia».
E mentre comincia a circolare la notizia che Cesare Segre – già autore del saggio La struttura a chiocciola del “Sorriso dell’ignoto marinaio” – sta curando il Meridano della Mondadori dedicato a Vincenzo Consolo, gli siano da epitaffio queste parole, tratte da Le pietre di Pantalica (1988): «Ma che siamo noi, che siamo? Formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura».

Manuel Lambertini