martedì 29 novembre 2011

Un anno senza Mario

Un anno fa, Mario Monicelli ci lasciava alla sua maniera. Gettandosi dal quinto piano del reparto di urologia dell’ospedale San Giovanni di Roma. All’età di 95 anni. Un addio sbrigativo e sarcastico, amaro ma lucido, del tutto coerente con quell’istintiva repulsione per l’autoreferenzialità mostrata durante tutta la vita. Ad alcuni aveva confidato, non molto tempo prima, l’estremo desiderio di fare visita a Berlusconi imbottito di tritolo. E tra i tanti epitaffi di suo conio – «nessuno lo salutò mai per primo», piuttosto che «non ebbe mai il cellulare» «muoiono solo gli stronzi» era di gran lunga quello che preferiva.
Rievocando quel 29 novembre 2010, ciò che più colpisce è la serenità con cui amici e colleghi accolsero la notizia. A caldo, Giovanni Veronesi interpretò il pensiero di tutti: «Non so cosa si dirà domani di quello che è successo, ma una cosa va detta: non ho mai sentito nessuno che si suicida a novantacinque anni. Era davvero speciale». Persino il presidente Napolitano, forse per smorzare un’accesa polemica parlamentare, parlò di uno «scatto di volontà che bisogna rispettare». E di recente è stata l’ultima compagna, Chiara Rapaccini, a confessare che Mario Monicelli «cominciava a sentirsi uno stronzo», cieco com’era, e afflitto da un incurabile cancro alla prostata.
Per lui, nessun funerale. Solo un saluto sulle note di Bella Ciao nel rione Monti, il quartiere romano dove viveva, e un omaggio alla Casa del Cinema. Poi la cremazione e la dispersione delle ceneri lungo il mare della sua Viareggio. Un addio in pieno stile Monicelli.
Integrità e coerenza avevano peraltro accompagnato ogni passo del suo lungo percorso, risolvendosi negli ultimi anni in un lucido e disilluso radicalismo. Burbero, cinico, anticoformista. Autocritico e autoironico. Generoso ma dissacratore, allergico ad ogni retorica. Difficile, in verità, immaginare uomo più diverso dai personaggi dei suoi film.
Settantacinque anni di carriera e più di sessanta pellicole, una decina i capolavori: Guardie e ladri (1951), I soliti ignoti (1958), La grande guerra (1959), I compagni (1963), L’armata Brancaleone (1966), Brancaleone alle crociate (1970), Amici miei (1975), Un borghese piccolo piccolo (1977), Il marchese del Grillo (1981), Speriamo che sia femmina (1986), Parenti serpenti (1992)… Film ormai entrati nell’immaginario collettivo, che solo il regista si affannava a sminuire, convinto che il declino del linguaggio cinematografico fosse cominciato con l’invenzione del sonoro…
Era considerato il padre della commedia all’italiana, insieme a Risi, Germi e Comencini. Lui preferiva ricondurre la propria filmografia alla grande tradizione letteraria e teatrale, dalla Divina Commedia alla Mandragola di Machiavelli, nella convinzione che il cinema non potesse esimersi dal raccogliere quell’eredità. Senza inventare nulla, dunque. Rubando dal passato e dal quotidiano. Per ridere delle debolezze degli italiani, del loro opportunismo, della loro vigliaccheria. E per commuoversi davanti al loro senso della solidarietà, alle loro pretese velleitarie, al loro essere sempre perdenti.
Una commedia umana inizialmente rifiutata da critici e intellettuali, molti dei quali si indignarono alla notizia che un’opera sulla Prima Guerra Mondiale sarebbe stata scritta da sceneggiatori di film comici e girata con caratteristi da commedia-spazzatura. La grande guerra, ex aequo con Il generale della Rovere di Rossellini, vinse il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia del ’59. E nella sua recente autobiografia, La bambina buona (Sonzogno, 2011), Chiara Rapaccini ha scritto di aver usato l’ambito premio la prima volta che preparò la cena al marito. Per schiacciare il pollo alla diavola, «in mancanza di altri pesi».

Manuel Lambertini

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