giovedì 31 maggio 2012

Doppia Congiura

Il terremoto di Messina, 28 dicembre 1908
Altre scosse. Altre macerie. Altre diciassette vite spezzate. L’angoscia di chi ha perso tutto, sempre unica e nuova, non rinuncia al suo antico, amaro sapore, legata com’è alla miserrima condizione umana.
Nel dicembre 1908, all’indomani del terremoto di Messina, il poeta egiziano Hafez Ibrahim (1872-1932) rendeva omaggio alle oltre centomila vittime del più tragico evento sismico nella storia d’Europa: «Ma tu, Messina, non scomparirai nell'oblio [...] Sia pace a te nel giorno in cui sei venuta meno con la tua bellezza, / sia pace a te quando ritornerai ad essere come un tempo il paradiso d'Italia. / Un saluto da ogni essere umano della terra / per ognuno di coloro che sono scomparsi, / di coloro che il lupo ha divorato e i falchi hanno straziato, / un saluto per ciascuno di quelli che hanno versato una lacrima / e un’offerta per ricostruirti, / non elemosina ma giusto tributo di ogni uomo verso il suo simile». Riproporre oggi i versi che «il poeta del Nilo» affidò alla poesia Il terremoto di Messina, conosciuta anche col titolo di Doppia Congiura, significa fermarsi davanti al dolore delle vittime. E trovare, nel loro ricordo, una giustificazione per rialzarsi


Ditemi o stelle, se lo sapete, cosa sta succedendo all'universo:
è l'ira divina o una congiura della terra per castigare l'uomo?
Dio mi perdoni, non è l'una né l'altra, ma la natura stessa delle cose:
nel ventre della terra c'è un tumulto che sprigiona e sconvolge il mare ed il vulcano.
O Signore, qual è lo scampo se mare e terra congiurano contro l'uomo?
Temevo mari, poiché la morte attendeva anche una minima distrazione del capitano:
eccola insinuarsi sotto di noi, sovrastarci, avvolgerci, ora più prossima ora più lontana.
Dunque la terra e il mare hanno per sorte entrambi di tradirci.
Cos'è successo a Messina, doppiamente uccisa nel fiore della sua gioventù?
Le sue incomparabili bellezze sono venute meno all'avvento delle due calamità.

In un attimo è stata risucchiata dal suolo e ricoperta dalle acque,
la sua beltà è perita d'un tratto, si è compiuto il suo fato.
Magari le avessero concesso almeno il tempo di congedarsi dagli amici e dai vicini,
lasciando ai compagni la gioia di incontrarsi, agli amanti di riunirsi.
Terra e monti hanno prevaricato su di essa
e con quale prepotenza l'ha fatto il mare!

Il suolo scoppia di rancore contro di lei
e si spacca da tanto ne ribolle.
Le montagne rispondono lanciando pietre, lapilli e fumo,
i mari a loro volta ingaggiano eserciti di onde tumultuose.
La morte assume diversi colori: qui nero fitto, là rosso vermiglio.
Ha reclutato acque e terra per distruggere tutti e si è fatta aiutare dalle fiamme.
Ha convocato anche nubi possenti che asservono una schiera di fulmini.
Fuggire è impossibile, regna la disperazione e svanisce il coraggio dei valorosi.

[...]

Ahi, Messina, oggi ti affianchi a Pompei ch'era rimasta sola,
vai a tenere compagnia al gioiello della corona romana,
assassinata mentre era ancora intenta al diletto.
La sorte è sopraggiunta mentre la gente doviziosa era nei ritrovi
al suono della musica: amanti appassionati, gaudenti spensierati, giocatori incalliti...
Son tutti morti, così come lo sono or ora i tuoi
ed il sorriso della vita si è offuscato.
Ma tu, Messina, non scomparirai nell'oblio come a lei è toccato,
coloro che hanno edificato l'Italia son grandi costruttori,
finché sussisterà almeno uno di loro, puoi stare tranquilla.
Sia pace a te nel giorno in cui sei venuta meno con la tua bellezza,
sia pace a te quando ritornerai ad essere come un tempo il paradiso d'Italia.
Un saluto da ogni essere umano della terra
per ognuno di coloro che sono scomparsi,
di coloro che il lupo ha divorato e i falchi hanno straziato,
un saluto per ciascuno di quelli che hanno versato una lacrima
e un'offerta per ricostruirti,
non elemosina ma giusto tributo di ogni uomo verso il suo simile.

Scrivete del cielo di Reggio, di Messina, della Calabria, in ogni lingua:
qui è morta ogni impresa, ogni immagine è sbiadita,
si è spento ogni pensiero, ha taciuto ogni canto.

                                                                                                    Hafez Ibrahim

Manuel Lambertini

venerdì 25 maggio 2012

Terremoti

Sette morti. Cinquanta feriti. Seimila sfollati, e danni incalcolabili al patrimonio culturale e al tessuto produttivo della regione. Pensare che un sisma di magnitudo 6 abbia colpito l’Emilia Romagna, in località che la pianura e le nebbie sembravano proteggere da ogni turbolenza, lascia sopresi e sgomenti.
Finale Emilia, Sant’Agostino, San Carlo, Sant’Alberto, Ponte Rodoni di Bondeno: paesi che fino a cinque giorni fa erano poco conosciuti dagli stessi emiliani sono balzati ora all’attenzione dei media per il più imprevedibile degli eventi naturali, e per il carico di morte e distruzione che li ha feriti.
Anna e Gabi, 86 e 37 anni, sono morte di paura. Nevina avrebbe compiuto 103 anni il mese prossimo: le ha tolto la vita la caduta di un calcinaccio, nel suo vecchio casolare di campagna. Leonardo aveva un figlio di 8 anni e una figlia di 18: faceva il turno di notte nella Ceramica Sant’Agostino, ed è morto nel crollo di uno dei capannoni più nuovi di tutto lo stabilimento. Come Nicola, di anni 35, che alla Ceramica era delegato sindacale, e che tra non molto avrebbe dovuto sposarsi. La notte del 20 maggio sostituiva un collega ammalato. Tarik aveva appena ottenuto il ricongiungimento familiare con la giovane moglie Iudad, in arrivo dal Marocco; aveva 29 anni, e da tre lavorava alla Ursa di Bondeno, una fabbrica chimica di polistirene espanso. Sopravvissuto alla prima scossa, era rientrato precipitosamente in fabbrica per «chiudere la valvola del gas», secondo i racconti dei compagni di lavoro. Non ne è più uscito.
Nell’aprile 2009, sul suo indimenticabile Quaderno, Josè Saramago dedicava alcune, lapidarie righe al terremoto a L’Aquila: «Leggo in un reportage sul terremoto degli Abruzzi che i sopravvissuti, disperati, impotenti, si domandano perché mai il destino abbia scelto loro e la loro terra come campo della tremenda catastrofe. È una domanda a cui non ci sarà mai una risposta, ma che invariabilmente ci poniamo quando l’infelicità è venuta a bussarci alla porta, come se in qualche parte dell’universo esistesse un responsabile cui chieder conto dei mali che ci capitano. […] Ci domandiamo perché a noi, perchè a me, e non c’è risposta. Anche Jacques Brel se l’era domandato: “Pourquoi moi? Pourquoi maintenant?” – e morì. È il destino, diciamo, e nel destino non c’è scritta la parola risurrezione. È bene saperlo perché, in verità, il mondo non è fatto per le risurrezioni. Basta già quello che c’è».

Manuel Lambertini