domenica 24 aprile 2011

Vittorio Arrigoni

Vittorio Arrigoni con una bimba di Gaza
«Restiamo umani». Erano le due parole con cui «Vik Utopia», al secolo Vittorio Arrigoni, concludeva i suoi articoli. È il titolo del libro che ne raccoglie gli scritti. E sarà il nome della spedizione navale che tenterà di forzare il blocco israeliano della Striscia di Gaza: «Freedom Flotilla Stay Human».
Con l’uccisione di Arrigoni i fondamentalisti islamici hanno spento la voce più libera e più appassionata della causa palestinese. Il suo nome aveva acquisito grande notorietà tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009: mentre l’esercito israeliano assediava la Striscia di Gaza, durante quell’operazione Piombo Fuso che avrebbe provocato circa 1300 vittime, Vik era l’unico testimone occidentale presente sul campo, e il blog Guerrilla Radio divenne in quei giorni il più visitato d’Italia. Gli uomini che lo hanno strangolato appartenevano ad una cellula salafita legata ad al-Qaeda che la polizia di Hamas sembra avere già smantellato. Oggi Bulciago lo ha salutato per l’ultima volta, con la stessa commozione con cui nei giorni scorsi gli avevano reso omaggio gli abitanti di Gaza.
Del suo assassinio hanno parlato proprio tutti… Lungi dall’associarsi al cordoglio del presidente Napolitano («Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili»), il deputato di Iniziativa Responsabile Giancarlo Lehner, con alle spalle due condanne per diffamazione aggravata, ha voluto rendere pubbliche le proprie autorevoli riflessioni: «Sorprende che il presidente della Repubblica abbia potuto spendere parole di solidarietà per Arrigoni, un povero ragazzo, certo, confuso e sfortunato, eppur complice di Hamas, conclamato militante antisemita e antisionista, ammazzato da chi lo ha voluto superare a sinistra nell’antisemitismo». E in quanto ad autorevolezza, non poteva mancare l’opinione di Maurizio Belpietro… «Lasciamolo là», titolava Libero a tutta pagina, mentre l’editoriale del direttore si scagliava contro la richiesta dei familiari di non far transitare il corpo del cooperante in territorio israeliano: «Che il giovane volontario lombardo odiasse tutto ciò che gli ricordava la stella di David è noto. Sul suo blog si possono leggere le parole con cui accusava il premio Nobel per la pace Simon Peres di sterminare i bambini con le bombe al fosforo bianco, o il disgusto con cui rifuggiva dai libri di scrittori israeliani favorevoli al dialogo con i palestinesi come Amos Oz e Abraham Yehoshua, definendole pagine sporche di sangue. E dunque comprendo che la madre – la quale ha dichiarato di condividere le opinioni del figlio e di essere orgogliosa di lui – voglia idealmente proseguirne la battaglia, a nome di coloro i quali Vittorio riteneva essere gli unici e i soli oppressi». Non si è fatto attendere neppure il commento di Pierluigi Battista, che dalle pagine del Corriere della Sera imputava ad Arrigoni un «odio […] assoluto nei confronti dello Stato di Israele, descritto e demonizzato nel suo blog come l’espressione di ogni nefandezza, la manifestazione di uno scandalo storico che non ammetteva mediazioni e non concedeva nulla, ma proprio nulla, alle ragioni del Nemico». Per non parlare di Radio Israel, che lo ha liquidato come un «utile idiota», o del macabro «Arrivederci, Arrigoni» che campeggiava su Stop the Ism, il sito ultrasionista americano in guerra con i pacifisti dell’International Solidarity Movement: nei giorni dell’operazione Piombo Fuso, il gestore del sito Lee Kaplan aveva persino auspicato l’eliminazione del «terrorista» Arrigoni, colpevole di fare da scudo umano alle ambulanze che trasportavano i feriti di Gaza.
"Vik Utopia" con Handala, il bambino
palestinese nato dalla penna di Naji al-Ali
Informazione di regime e industria mediatica sembrano essersi coalizzate per sminuire, svilire e affossare il valore di un sacrificio che mai comprenderanno. Però non hanno tutti i torti. Vittorio Arrigoni vedeva nel dramma palestinese il paradigma di ogni ingiustizia. La sua adesione alla causa era davvero «totalizzante, assoluta, mistica, senza riserve, dubbi, sfumature», per dirla ancora con Battista. Le sfumature, nella sua esperienza quotidiana, rischiavano effettivamente di perdersi dinanzi al numero delle vittime palestinesi, sei volte superiore a quello dei morti israeliani, e svanivano di fronte ai crimini di guerra perpetrati dallo Tzahal. Vik pensava anche che Israele fosse uno Stato di apartheid, come ha polemicamente fatto notare Belpietro: la sua opinione ricalcava quella di Nelson Mandela e dell’arcivescovo Tutu. Condivideva il destino e le sofferenze della gente di Gaza. Era la voce dei senza volto. E non poteva tollerare che Roberto Saviano scendesse in piazza dalla parte di Israele (per giunta in una manifestazione organizzata da Fiamma Nirenstein!), né che Marco Travaglio si schierasse con un governo, quello israeliano, responsabile di continue violazioni del diritto internazionale. Facile, dunque, additarlo come antisionista, come antisemita. Accuse già sperimentate con successo sullo scrittore Josè Saramago, sul compositore Mikis Theodorakis, sull’ex presidente americano Jimmy Carter, sullo storico israeliano (ed ebreo) Ilan Pappé, sull’UNRWA, sull’ONU e così via… Denunciare i crimini israeliani, di questi tempi, non paga. Anzi: il punto di forza dei sionisti acritici sta proprio nell’allarmismo con cui preconizzano un fantomatico revival antisemita, nel vittimismo con cui si ergono a minoranza sempre discriminata e sempre zittita da orde di militanti filo-palestinesi, quasi non fossero loro stessi (e il loro ignobile silenzio) a dominare i media occidentali.
Mani «amiche» hanno ucciso Vittorio Arrigoni, ripetevano maliziosamente gli opinionisti di cui sopra. Ma la sua causa non è morta. Nessuno, tra gli amici e i familiari, sembra essersi lasciato andare allo sconforto, allo scetticismo, al disincanto: nessuno si è sentito tradito dal popolo palestinese. E di lui resterà quel grido disperato e testardo, più forte di ogni schiamazzo. Ancora una volta, restiamo umani. O torniamo ad esserlo.

Manuel Lambertini

lunedì 4 aprile 2011

I sessant’anni del «Principe» De Gregori

Il sessantesimo compleanno, nella quarantennale carriera di Francesco De Gregori, coincide con un nuovo inizio. Trent’anni dopo il tour di Banana Republic, canta di nuovo insieme a Lucio Dalla in Work in Progress (2010), e torna ad infiammare i teatri di tutta Italia.
Tra indimenticabili successi e qualche momento di sconforto, il «Principe» dei cantautori italiani ha attraversato con ostinazione una straordinaria avventura artistica, oggi ripercorsa dal volume di Claudio Fabretti Francesco De Gregori. Fra le pagine chiare e le pagine scure (Arcana edizioni, 2011). Dagli esordi al Folkstudio di Roma nel 1970 al primo tour con Antonello Venditti, e all’album Theorius Campus (1972). Poi la visibilità come cantante solista grazie ad Alice, e il successo con Rimmel nel 1975. Di qui la collaborazione con Fabrizio De Andrè, che per lui sarebbe rimasto un insostituibile punto di riferimento, e il successivo album Bufalo Bill (1976), realizzato con la partecipazione di Lucio Dalla e Ivan Graziani. «Dylaniano fino al midollo», il 2 aprile 1976, durante un concerto al Palalido di Milano, De Gregori fu “processato” sul palco dai collettivi studenteschi con l’accusa di ricevere cachets troppo alti e di non destinarli alle lotte operaie. Dopo un ritiro di due anni, riapparve sulle scene accompagnato dalle note di Generale e di Ma come fanno i marinai (1978), preludio del lungo sodalizio con l’amico Dalla. Poi si susseguirono canzoni come Viva l’Italia (1979), Titanic (1982), La storia (1985), Il bandito e il campione (1993)… Fino alla più recente Vai in Africa, Celestino! (2005), che già suona come un classico.
A dispetto del pur autorevole filone narrativo-storico-politico, è nelle canzoni d’amore «virate a tinte fosche», scrive Fabretti, che si è consumata «la sua più importante rivoluzione semantica e concettuale». È sempre stato un artista libero, Francesco De Gregori. Sempre in equilibrio sul crinale delle emozioni. Sempre combattuto tra il rischio di una dolcezza forzata e i più coinvolgenti afflati narrativi. Ed è proprio per questo che al «Principe» De Gregori si deve perdonare tutto. Anche quel carattere impossibile che negli ultimi anni sembra essersi attenuato. E perfino il suo inossidabile legame con Marco Pannella!


Manuel Lambertini