giovedì 17 luglio 2014

Johnny Winter

John Dawson Winter III
(Beaumont, Texas, 23 febbraio 1944 - Zurigo, 16 luglio 2014)
Un cappellaccio da texano da cui spiovevano lunghi capelli bianchi, che sotto le luci dei riflettori diventavano fosforescenti; braccia magrissime ma vigorose, disseminate di tatuaggi. Johnny Winter, settant'anni compiuti a febbraio, si è spento improvvisamente in un hotel di Zurigo, a pochi giorni dal suo ultimo concerto in Austria.
Albino come il fratello Edgar, che per tutta la vita lo ha accompagnato in giro per il mondo, era considerato uno dei più grandi chitarristi blues in attività; talento e carisma gli avevano però fatto oltrepassare i confini del genere, e il suo virtuosismo con la chitarra slide poté arricchire di interpretazioni memorabili alcuni tra i più grandi classici rock, da Johnny B. Goode di Chuck Berry a Highway 61 Revisited di Dylan.
Calcava le scene dall’età di quindici anni, con dedizione e disciplina, tra abusi di alcol e droghe e collaborazioni straordinarie. Appena diciassettenne, si dice avesse convinto il già celebre B.B. King a cedergli palco e chitarra, entusiasmando un pubblico di soli neri. Al suo primo album, The Progressive Blues Experiment (1968), avevano partecipato musicisti del calibro di Willie Dixon e Little Walter. Nel 1969 si era esibito all’ultima giornata del Festival di Woodstock, un’esperienza che fin da allora parve segnare in modo indelebile tutta la sua carriera. Aveva poi condiviso il palcoscenico con Jimi Hendrix e gli era stata attribuita una breve relazione con Janis Joplin. Il suo nome, non solo tra i cultori dell’electric blues, sarebbe entrato nello stesso Pantheon di John Lee Hooker, Jimmy Page, Eric Clapton, Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd.
Johnny Winter al Festival di Woodstock nel 1979
Nelle vesti di produttore gli si deve la rinascita musicale del suo mito di gioventù, Muddy Waters, di cui ha prodotto dischi come Hard Again (1977), I’m Ready (1978) e King Bee (1981): Waters lo avrebbe definito «il mio figlio adottivo».
Tra gli album di maggior successo, Saints & Sinners (1974), Nothin’ But The Blues (1977), l'amatissimo Guitar Slinger (1984) e Let Me In (1991), oltre a un numero sterminato di registrazioni live. Premiato con il Grammy Award nel 2004 per I’m a Bluesman, la rivista «Rolling Stone» lo ha collocato al 63esimo posto tra i 100 migliori chitarristi di tutti i tempi. Sono infine freschi di realizzazione il documentario Johnny Winter: Down and Dirty (2014), presentato in occasione del suo settantesimo compleanno, e l'album Step Back, che sarà pubblicato postumo.
Reduce di un’esistenza vissuta sulla strada, Winter era stato in Italia solo poche settimane fa, alla fine di maggio, per esibirsi in un mini tour di tre date a Roma, Udine e Mezzago. Nel febbraio 2012 aveva invece fatto tappa al Teatro Novelli di Rimini, con la tournée dell’album Roots. Ebbi il privilegio di incontrarlo lì. Insieme alle poche persone che si erano radunate davanti al teatro qualche ora prima del concerto, vidi parcheggiare il camper sul quale riposava. Erano appena arrivati dall'Est Europa, ci disse una sua giovane assistente, ma se avessimo aspettato qualche minuto saremmo stati ricevuti uno alla volta. Quando arrivò il mio turno, fui accompagnato al suo tavolo. Mi trovai davanti una creatura nobile, esile, fragilissima; i capelli mi sembrarono più radi, forse perché raccolti dietro a un grande cappello da cowboy. Capii subito che era diventato quasi cieco; ricordo l’impegno e la fatica con cui autografò la piccola fotografia che gli avevo portato, chinando il capo quasi fino a sfiorarla col viso.
Rimini, 25 febbraio 2012
Forse per una suggestione legata al luogo dell’incontro, mi venne in mente l’oracolo ermafrodita di Fellini Satyricon, gallina dalle uova d’oro di una corte dei miracoli decisa a sfruttarne fino in fondo le doti e la fama. Prima di andare via volli stringergli la mano, e per attirarne l’attenzione dovetti toccargli le dite: restai stupito dalla risolutezza della sua presa, da quanta forza avesse conservato; e scacciai ogni pensiero cinico. Johnny Winter sapeva che ad affollare i suoi concerti erano persone legate a una leggenda del passato, già appagate e spesso incapaci di pretendere alcunché dalle nuove performance di un così grande sopravvissuto. Ma non poteva vivere in modo diverso. Era scritto che il suo cammino dovesse interrompersi senza attese, nella frugalità di un luogo senza importanza, come in una sublime e dolente improvvisazione blues.
Sempre su un palco, sempre sulla strada. Gli sia lieto il prossimo viaggio.

Manuel Lambertini