mercoledì 22 maggio 2013

Don Andrea Gallo

Bologna, 5 luglio 2007
Il fatto che si rivolgesse ai ragazzi della Comunità di San Benedetto al Porto chiamandoli «i miei drogati di merda» aveva colpito anche me. Ma mai avrei immaginato di leggere la stessa espressione nel libro di Loris Mazzetti, Sono venuto per servire (Aliberti, 2010). Don Andrea Gallo era ormai diventato un’icona movimentista: solo negli ultimi cinque anni erano stati pubblicati almeno dieci libri sulla sua figura; e a quasi ottantatre anni, con lo spettacolo Io non taccio, questo nuovo, infaticabile Savonarola aveva debuttato alla sua maniera in teatro, toccando tutte le più importanti “piazze” d’Italia.
L’amicizia con Fabrizio De André lo aveva segnato nel profondo: «Per me c’è un quinto Vangelo, il Vangelo secondo De André», disse una volta ad un cardinale. Perché «dai diamanti non nasce niente, / dal letame nascono i fiori». Oppure, per citare altri versi che gli erano cari: «Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane / ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame». «Belin, Don Gallo, lo sai perché ti sono amico?» gli chiedeva Faber. «Perché sei l’unico prete che non mi vuole mandare in Paradiso a tutti i costi». Molti gli artisti che era riuscito a conquistare: da Vasco Rossi a Manu Chao, da Celentano a Tonino Carotone. E alla fine anche la sua Genova era arrivata a ricambiarlo con inusitata generosità. Ma sono stati gli ultimi, i tanti Michè e le tante Marinella, ad accompagnarlo per tutta la vita, e a dargli conforto nelle difficili ore che ne hanno preceduto la morte.
Fu prima cappellano al carcere di Capraia, poi viceparroco alla parrocchia del Carmine. Giunto a San Benedetto al Porto, dette vita alla famosa comunità. Nell’arcidiocesi del cardinale Siri, durante l’estate del 1970, pronunciò un’omelia “scandalosa”: più dell’hashish, disse di temere le droghe del linguaggio, grazie alle quali un ragazzo può passare per «inadatto agli studi» se figlio di povera gente, e i cui effetti trasformano un bombardamento di civili in «azione a difesa della libertà». Da allora proseguì sul proprio cammino con la stessa radicale coerenza, in direzione ostinata e contraria: partigiano, educatore di strada, prete anarchico, antiproibizionista… «Comunista? Eh, la Madonna! Socialista? Ultimo dei no global? Mi sono state attribuite tante etichette, ma io non ho scelto un’ideologia, a vent’anni ho scelto Gesù: ci siamo scambiati i biglietti da visita e sul suo c’era scritto “sono venuto per servire e non per essere servito”».

Manuel Lambertini

lunedì 6 maggio 2013

Giulio Andreotti

Giulio Andreotti
(Roma, 14 gennaio 1919 - Roma, 6 maggio 2013)
Correva l’anno 1966. Il presidente del Soviet Supremo Nikolaj Podgornyj, in visita ufficiale in Italia, si era recato negli stabilimenti Fiat di Torino, accolto da Gianni Agnelli e da una folta delegazione del Partito comunista italiano e delle organizzazioni sindacali. In rappresentanza del terzo governo Moro, lo accompagnò il neo-ministro dell’Industria, il quarantasettenne Giulio Andreotti.
Durante la colazione che seguì alla visita, questi sedette alla destra di Podgornyj, sotto lo sguardo incuriosito del comunista Giancarlo Pajetta. Riferendo l’episodio nel libro L’Urss vista da vicino (Rizzoli, 1988), Andreotti immaginò quest’ultimo intento a riflettere sulle «bizzarrie della storia»: «A ricevere per il governo italiano il numero uno dell’Urss non era lui, che in carcere aveva sacrificato la sua gioventù vedendo in Mosca il perno della riscossa contro il fascismo, ma un democristiano».
Lo stesso Pajetta, molti anni più tardi, avrebbe redarguito in pubblico un altro importante dirigente russo, il presidente del Soviet delle Nazionalità Vitalij Ruben: l'esponente del Pcus, nel tenere un discorso dinanzi alla commissione Esteri presieduta da Andreotti, usò due volte l’espressione: «Per grazia di Dio…». Pajetta gli gridò: «Dici “grazia di Dio” per far piacere ad Andreotti!»; ottenne in risposta: «Io non sono un senza Dio come te: sono luterano». E il segretario del Pci Alessandro Natta, nel novembre 1984, restò attonito di fronte a una domanda dell’ambasciatore sovietico Lunkov: «Perché il Pci attacca Andreotti anche a rischio di eliminare dalla scena uno dei pochi diplomatici occidentali che vuole e sa parlare con i sovietici?».
Romano Prodi, Sandro Pertini e Giulio Andreotti (1978)
Andreotti e Podgornyj, in quel lontano 1966, ebbero un lungo e proficuo scambio, nel quale il presidente del Soviet Supremo toccò gli argomenti più diversi: dall’andamento dell’annata agraria all’età di pensionamento degli operai, dal sistema universitario al campionato di calcio. Ma quando il dialogo sfiorò il tema dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, cominciarono ad affiorare i primi imbarazzi. Quindi Podgornyj pose quella che definì «una domanda molto confidenziale e riservata»: nei giorni successivi avrebbe dovuto recarsi in udienza dal Papa, e voleva sapere se all’ospite fosse concesso fumare. Senza una sigaretta tra le mani, confessò, nei colloqui importanti si sentiva confuso e gli sembrava di impazzire. Il suo ambasciatore a Roma lo aveva pregato di trattenersi, e Andreotti confermò che di norma il fumo era escluso durante le udienze. Ma per lui intravide buone possibilità di scavalcare il protocollo… «Quando Paolo VI era monsignor Montini, qualche sigaretta alla fine dei pasti l’accendeva», disse riferendosi ai tempi in cui il futuro Pontefice assisteva gli universitari cattolici. «Se sedendosi troverà un portacenere, vuol dire che il messaggio è stato raccolto».
Il giorno dell’udienza, Podgornyj trovò il portacenere sul tavolino.
Anche questo – soprattutto questo – era Giulio Andreotti.

P. S.
Per i cultori degli aneddoti e dei retroscena, il Divo Giulio non è stato un uomo politico come tanti. È stato un mito. E non per la logora vulgata che lo vuole più legato di chiunque altro ai mille misteri italiani, ma per essere stato il solo a rendere pubblica la parte più "innocua" e folcloristica della vita politica nazionale e internazionale, con una ventina di libri divenuti best seller e innumerevoli scritti, appunti d'archivio e interviste. Elegante, freddo, inafferrabile. Nulla della sua vicenda politica sarà mai comprensibile se non ci si chiederà quale sia stato, per l'Italia degli anni di piombo, il prezzo della democrazia. «Un grande statista? Sì, ma del Vaticano», chiosava un suo inguaribile estimatore, il presidente emerito Cossiga. «Sono nato sotto un Benedetto e morirò, spero non prestissimo, sotto un altro Benedetto», aveva dichiarato lui dopo l’elezione di Joseph Ratzinger al soglio di Pietro. Solo una eccezionale, imprevedibile «bizzarria della storia» ha impedito alla sua profezia di avverarsi.

Manuel Lambertini