lunedì 25 febbraio 2013

Berluscones

Ogni volta che si confrontano i sondaggi e gli exit poll con i risultati effettivi delle elezioni, si approda sempre alla stessa conclusione, quella a cui tutti noi, fino all’ultimo minuto, ci rifiutiamo di credere: il vero elettore berlusconiano si vergogna del proprio voto. Spesso è anche consapevole di vivere in uno stato di minorità culturale, morale, politica. E se ne vergogna. Ma niente, nel segreto dell’urna, può impedirgli di votare come ha sempre votato: contro le tasse e contro i comunisti («che vogliono far votare gli immigrati per vincere le elezioni»). Spesso non ha niente in comune con l’invasato che si strappa i capelli ai comizi del Pdl, o con lo sprovveduto che crede alle più improbabili promesse elettorali. Chiede solo di poter galleggiare spensierato ancora un po’, nella speranza che lo Stato lo lasci in pace e che il potere rimanga nelle mani di qualcuno che pensi anche per lui. Salvo poi tornare a mescolarsi tra la folla, nel momento giusto, e partecipare onorevolmente al linciaggio collettivo del padrone caduto in disgrazia. Berlusconi è il prodotto di questa mentalità tutta italiana, che precedeva la sua discesa in campo e che gli sopravviverà.

Manuel Lambertini

martedì 12 febbraio 2013

Gramsci, Grillo e la «moltitudine incomposta»

Antonio Gramsci (1891-1937)
«Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano». Così scriveva Antonio Gramsci nell’aprile 1921, un anno prima della marcia su Roma.
Non dico e non penso che Beppe Grillo sia il capo di una formazione fascista, anche se si potrebbe fare facile ironia sulle sue mussoliniane performance fisiche e sulle stupefacenti affinità con i militanti di CasaPound… «Non rubare il mestiere a chi lo sa fare», dice il critico Tatti Sanguineti al produttore Silvio Orlando in una scena cult del Caimano di Nanni Moretti, dopo che Orlando aveva rievocato giovanili simpatie fasciste, e credo che per il comico genovese questo saggio ammonimento sia più che mai valido.
Non è peraltro necessario bollare il MoVimento 5 Stelle con la banale etichetta di «fascista» per constatare che chi dice di essere «oltre la sinistra e la destra» finisce sempre col favorire quest’ultima, che a tutt’oggi risponde al nome di Silvio Berlusconi. Un nome che è la quintessenza dell’antipolitica e del populismo, e che da tempo immemorabile disprezza e deride i «professionisti della politica».
Voti Beppe, aiuti Silvio: la questione, in fondo, è più semplice di quanto sembri. E a meno che non si voglia scommettere su una folle deflagrazione della democrazia italiana, non c’è un solo motivo ragionevole per desiderare uno scenario in cui il Cavaliere abbia un ruolo determinante nell’insuccesso altrui e fosse al contempo privo di responsabilità dirette. La vera vittoria di Berlusconi, in questa tornata elettorale, sarebbe quella di costringere Pd e Sel a una tormentata convivenza con Monti, per farsi beffe della conflittualità interna che ne deriverebbe e per sfruttare l’impopolarità di nuovi e inevitabili provvedimenti di austerity. Una vittoria che sembra ogni giorno più vicina, soprattutto grazie alla crescita di consensi del Movimento 5 Stelle – senza dimenticare il miope massimalismo di Ingroia nel negare il proprio sostegno al centro-sinistra nelle regioni decisive per la maggioranza al Senato.
Grillo ha in mano il timer dell’autodistruzione italiana, e sembra ben felice di utilizzarlo ai danni di Bersani: «Rispetto più il nano perché sai cos’è, un disonesto, che i finti amici come Gargamella, che fa l’imbonitore in giro». Negli ultimi mesi, del resto, gli esempi di “endorsement” tra il Cavaliere e Grillo sono stati tali e tanti da far sospettare che dietro ai sarcastici “apprezzamenti” si nasconda un inconfessabile gioco di reciproca identificazione... Il Pdl ha già il suo Grillo, come è stato detto più volte. E Grillo si è ormai rassegnato all’idea di non poter passare alla storia come il primo comico che abbia fatto irruzione sulla scena politica dell’Italia repubblicana.
Nel momento in cui assiste impotente ad un’implacabile erosione di consensi, la sinistra si trova assediata dal nemico più insidioso e subdolo, quella degenerazione della vita civile che corrisponde al fenomeno dell’antipolitica, della demagogia, del qualunquismo, e che spesso prelude al collasso dell’intero sistema democratico. È ora di dire ad alta voce che, per la situazione attuale, la sinistra ha molte meno responsabilità di quelle che le vengono solitamente attribuite, e perfino di quelle che essa stessa accetta di attribuirsi. Gravissima e innegabile la sua incapacità di proporsi come alternativa al berlusconismo dilagante. Ma mai, nella storia italiana, il centro-sinistra si è trovato nelle condizioni di poter veramente governare il Paese – non si vorrà far risalire tale occasione all’esperienza dell’ultimo governo Prodi, con una coalizione più che mai eterogenea e una risicatissima maggioranza parlamentare? – e mai si è dovuto confrontare con un centro-destra che condividesse con i suoi omologhi europei anche un solo elemento di civiltà politica.
In perfetta antitesi al facile populismo di Grillo, vi sono infinite ragioni per ritenere che la storica divisione tra destra e sinistra sia ancora valida, e che essa trovi ancora una volta il proprio fondamento in questioni di natura squisitamente morale. Redistribuzione della ricchezza, lotta alle disuguaglianze sociali, uguaglianza nelle posizioni di partenza, fedeltà fiscale, misure a beneficio dei consumatori e delle piccole imprese, estensione dei diritti civili e politici: nel momento in cui due leader come Bersani e Vendola, dopo molte incertezze, decidono di imboccare insieme l’unica via percorribile per una sinistra moderna, tradirli nel nome del grillismo e del tanto-sono-tutti-uguali sarebbe l’ennesima occasione perduta. Se la «moltitudine incomposta» di cui scriveva Gramsci assecondasse anche stavolta lo «straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri», compirebbe l’ultimo, colpevole rifiuto di scommettere sulla ragionevolezza.

Manuel Lambertini