sabato 31 dicembre 2011

2011


Quello che volge al termine è stato un anno intenso. Ed è difficile dire per quale avvenimento in particolare sarà ricordato. La Primavera Araba? Il matrimonio di William e Kate? L’assassinio di Osama bin Laden? La morte di Steve Jobs? L’acuirsi della crisi finanziaria, con l’Italia a rischio default? La fine dell’era Berlusconi? O il profilarsi di una nuova guerra globale contro l’Iran di Ahmadinejad, passando per il vacillare del brutale regime siriano? Forse, anzi sicuramente, per tutte queste cose insieme. Alle quali vanno ad aggiungersi gli ultimi colpi di coda di un anno che, come molti dei suoi protagonisti, sembra non avere nessuna voglia di cedere il passo... La morte, a metà dicembre, del Caro Leader nordcoreano Kim Jong-Il potrà dare luogo a conseguenze non indifferenti sullo scacchiere internazionale, oppure risolversi sotto il segno della più piatta continuità. E le pressioni di Angela Merkel sul presidente Napolitano a sostegno del cambio di governo, rese note solo poche ore fa dal Wall Street Journal, forse apriranno nuovi interrogativi circa la sopravvivenza della sovranità degli Stati e della volontà popolare. Ma senza troppa riprovazione, né grossi rimpianti…
Avrete notato come molti degli eventi sopraelencati non siano stati minimamente sfiorati da questo blog, che domani festeggerà, oltre all’arrivo del 2012, anche il suo primo compleanno. Nell’impegnarmi per un drastico cambio di rotta – più come auspicio che come promessa – porgo ai miei tenaci lettori i migliori auguri di un felice anno nuovo!

Manuel Lambertini

martedì 27 dicembre 2011

Giorgio Bocca

Da circa un mese, la sua rubrica non compariva più sull’Espresso. Al suo posto, poche parole su sfondo rosso: «La rubrica L’antitaliano è momentaneamente sospesa. Giorgio Bocca si è preso infatti un breve periodo di riposo». Solo il giorno di Natale abbiamo saputo che quel riposo durerà per sempre.
Non si è persa l’occasione di ricordare che Giorgio Bocca aveva 91 anni e un carattere difficile. Che era un uomo complesso, un montanaro solitario, un bastian contrario per vocazione. E l’implacabile inclinazione ad andare controcorrente, quella sì, l’aveva davvero. Tra giudizi sommari e battute fulminanti. Detestava qualsiasi partito, casta, gruppo corporativo. Antifascista e anticomunista: è rimasto, per tutta la vita, una spina nel fianco di ogni potere costituito. Molte le antipatie, pochi gli amori e alcuni punti fermi. Su tutti, la Resistenza. Parentesi eroica e generosa della miserrima storia d’Italia. Esperienza vissuta da protagonista, in Val Grana e in Val Maira, nei boschi attorno alla sua Cuneo. Bussola irrinunciabile di tutta una vita, al punto di insegnargli a distinguere il bene dal male, per dirla con il suo direttore Ezio Mauro. Di qui la violenta polemica con l’ex allievo Giampaolo Pansa, capofila di un inaccettabile revisionismo.
Partigiano, dunque; non «fazioso». Ma soprattutto cronista di inarrivabile inventiva, oltreché ottimo e puntuale commentatore. Senza nulla togliere ad altri giganti della sua generazione di giornalisti – anche viventi e in piena attività, Sergio Zavoli, Arrigo Levi e il nemico fraterno Eugenio Scalfari in testa – con Bocca è scomparso un fuoriclasse. Forse non il migliore, ma certamente il più spregiudicato giornalista del dopoguerra. Colui che prima di chiunque altro, e con una veemenza paragonabile solo a quella di Montanelli, vide nel raccontare i fatti l’ultimo baluardo di libertà che fosse degno di essere difeso. Abbandonata ogni ideologia, anzi sempre in bilico sull’orlo del nichilismo, vivisezionò la realtà italiana con un sarcasmo e una franchezza imbarazzanti. A differenza di molti altri, non cedette mai alla tentazione di compromettersi con quell’establishment che da giornalista doveva monitorare, fedele al significato ultimo della sua professione. Memoria della lotta partigiana e difesa della democrazia: questi gli unici imperativi che non hanno mai smesso di sorreggerlo. E nel definirsi social-democratico faceva riferimento a un orizzonte ideale, non certo politico. Il suo disincanto era totale. Le sue cronache e i suoi editoriali trasudavano scetticismo, non vendevano speranze.
Giorgio Bocca con Eugenio Scalfari
Ma Giorgio Bocca era anche un formidabile artigiano dell’invettiva. Un artista dello sproloquio. L’ultimo rimasto, dopo la morte di Oriana Fallaci. Della grande collega, ad esempio, disse che «era tutta letteratura e niente cronaca. Tutta la cronaca era inventata». Ricordò anche di averle prestato cinquanta dollari e di non averli mai più rivisti... La pubblicazione di un'ormai celebre biografia di Palmiro Togliatti, assai poco generosa nei confronti del Migliore, gli valse la permanente ostilità del Pci. Che andò a sommarsi con quella di tutti gli altri partiti e di molti colleghi, subito ricambiati senza troppi complimenti. Pasolini? «È morto perché, la rigirino pure come vogliono, era di una violenza spaventosa nei confronti di questi suoi amici puttaneschi». Cesare Pavese? «Come scrittore a me sembrava pessimo». Gianni Brera? «Un fetente, una carogna paracadutista. Sai, uno nasce carogna. Lui come giornalista ha fatto carriera facendo la carogna». Ancor più spiazzante il suo giudizio sul presidente Pertini, un politico «modesto» che però «poteva apparire come un personaggio che restituiva fiducia al sistema, che lo faceva sembrare affidabile, che con la sua sola presenza, la sua faccia da onest’uomo, la sua bella voce pareva dire: vedete com’è democratica questa repubblica? Vedete che alle più alte cariche possono arrivare anche dei galantuomini come me? E questa sua immagine curata quotidianamente con telefonate ai direttori di giornale e ai giornalisti copriva e metteva al riparo da ogni critica l’altro Pertini, il Pertini presuntuoso».
Proprio a Sandro Pertini, al partigiano Pertini, sembrò imputare tutto ciò che detestava dell’Italia: «il culto dei figli di mamma defunti, il cordoglio generale, il funerale continuo con lacrime da coccodrillo; il “siamo tutti buoni” ma con qualche brutto neo da estirpare, la vicenda sociale concepita come patologia incolpevole, i siciliani brava gente, peccato che ci sia la Mafia, i calabresi tutto cuore, peccato che ci sia la n’drangheta, i partiti tutti democratici, peccato che ci siano nelle loro file alcuni ladroni». Già, i ladroni. Niente scatenava le sue ire come la clemenza generalizzata per il furto. Non ha mai ritrattato neanche il sostegno offerto alla Lega Nord nei primi anni ’90 – «per la riconoscenza di aver mandato fuori dai piedi Craxi e la Democrazia Cristiana» –  salvo poi scaricarla e liquidarla, in tempi più recenti, come «l'ignoranza al governo». Per Berlusconi aveva avuto un’iniziale attrazione, anch’essa tramutatasi in un disprezzo viscerale: «Mi stupisce che Berlusconi non mi ami. Io scrivo sui giornali che è un maiale e dentro di me penso che lui dica: beh, in fondo ha ragione».
Nutriva un gusto irrefrenabile per la provocazione, e avvertiva una soddisfazione intensa nel risultare sgradevole. Eccessive, tuttavia, molte delle accuse di cui fu bersaglio, in particolare quelle che lo volevano razzista, omofobo, antisemita. Giorgio Bocca, antifascista educato nel fascismo, era un giornalista anti-sistema, avvezzo ad oltrepassare le linee del politically correct e dell’ordinaria ipocrisia: la sua capacità corrosiva non era neanche lontanamente alleviata dal fatto di figurare tra i fondatori di Repubblica, il giornale dell’ingegner De Benedetti e di tanti altri poteri forti… Eppure ci sono buone ragioni per credere che con la Resistenza rimpiangesse soprattutto la propria giovinezza, e che nell’indignarsi provasse lo stesso piacere che sempre attraversa certi critici cinematografici, abituati a stroncare film tutto sommato divertenti. Perché anche i grandi uomini, i migliori uomini – alla cui schiera, caro Bocca, non hai mai cessato di appartenere – hanno tutti  «qualche brutto neo da estirpare».

Manuel Lambertini

venerdì 23 dicembre 2011

La «ragazzina mostro»

Monika Simonovic Ilic non dimostra neanche oggi i suoi 36 anni. Le fotografie che ne documentano l’arresto mostrano, tra due agenti di polizia, un’esile donna bionda infastidita dalla luce del sole. Immagini che rimandano ad un’altra immagine, la foto in bianco e nero di una ragazza curata e dallo sguardo impassibile, e finiscono col richiamare alla memoria – più per una suggestione vagamente sensazionalistica che per un’effettiva somiglianza fisica – la criminale nazista Ilse Koch, nota come «la cagna di Buchenwald». Moglie di Karl Otto Koch, comandante del campo di concentramento di Buchenwald dal 1937 al 1941, è ricordata per le indicibili atrocità che infliggeva ai prigionieri del lager. Processata a Norimberga e condannata all’ergastolo, si impiccò in cella nel 1967.
Anche Monika Simonovic, la «ragazzina mostro», era sentimentalmente legata al comandante di un lager: a diciotto anni aveva sposato Goran Jelisić, l’«Adolf serbo», tenente dell’esercito serbo-bosniaco in servizio nel campo di Luka. «Sembrava una bambina, ma tutto quello che aveva di femminile era il nome», ha detto di lei il sopravvissuto Dzafer Deronjic. «Lei non era una donna, era un mostro». Tra le peggiori efferatezze attribuitegli, l’abitudine di cavare gli occhi ai prigionieri con un uncino.
Nel campo di Luka, a Brcko, furono sterminati centinaia di musulmani bosniaci e croati. Arrestato nel 1998, Jelisić venne condannato dal Tribunale dell’Aja a 40 anni di carcere per crimini contro l’umanità e per violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra. Sta scontando la pena in Italia, e pochi anni fa è convolato a nozze con l’avvocatessa Patrizia Trapella. Una vita familiare violenta, quella di Monika. La madre, Vera Simonovic, gestiva la casa di appuntamenti “Westfalia”, dove venivano sistematicamente stuprate donne musulmane. E il fratello, Konstantin Simonovic, ha anch’egli subito una condanna a sei anni di reclusione per aver partecipato ai massacri di Luka.
È stata trovata a Prijedor, a nord della Bosnia, dove si nascondeva sotto falso nome dopo aver vissuto per anni nella città serba di Novi Sad. Sui media italiani, la notizia della sua cattura non ha avuto il giusto risalto. Altrimenti non troverebbe spiegazione l’inaspettato silenzio dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio, che solo pochi mesi fa esaltava le gesta del generale Ratko Mladić: «un patriota» che ha «interpretato con grande coraggio e determinazione quel senso di responsabilità che i serbi hanno avuto nel bloccare la penetrazione islamica in Europa»… Farneticazioni aberranti, inserite nel solco delle 4.000 fosse comuni disseminate in ogni parte della Bosnia, e avallate dall’oblio a cui l’opininone pubblica mondiale ha condannato quella terra martoriata.

Manuel Lambertini