domenica 27 settembre 2015

Pietro Ingrao

Pietro Ingrao (Lenola, 30 marzo 1915 - Roma, 27 settembre 2015)
Non solo i pochi compagni rimasti, ma tutto il mondo politico e i più alti vertici delle istituzioni si attiveranno nelle prossime ore per rendere il giusto tributo alla vita straordinaria di Pietro Ingrao. «Eretico senza scisma», lo aveva puntualmente definito Fausto Bertinotti nel giorno dei suoi cento anni, in riferimento al rapporto conflittuale che sempre lo legò al Partito Comunista Italiano. Per l’amico Andrea Camilleri era invece un «eroe del dubbio», per altri ancora «messaggero di futuro», «acchiappanuvole», «perdente di successo», persino «coniglio mannaro». Ma prima che un amatissimo esponente politico, Ingrao è stato un uomo malato di libertà, un democratico animato dal sogno di dare concretezza a forme di vita nuove. Un poeta in lotta per un mondo diverso.


Eppure

Per gli incolori
che non hanno canto
neppure il grido,
per chi solo transita
senza nemmeno raccontare il suo respiro,
per i dispersi nelle tane, nei meandri
dove non c’è segno, né nido,
per gli oscurati dal sole altrui,
per la polvere
di cui non si può dire la storia,
per i non nati mai
perché non furono riconosciuti,
per le parole perdute nell’ansia
per gli inni che nessuno canta
essendo solo desiderio spento,
per le grandi solitudini che si affollano
i sentieri persi
gli occhi chiusi
i reclusi nelle carceri d’ombra
per gli innominati,
i semplici deserti:
fiume senza bandiere senza sponde
eppure eterno fiume dell’esistere.
                                             
                                                Pietro Ingrao, L'alta febbre del fare, Mondadori, Milano, 1994.

sabato 11 luglio 2015

Giacomo Biffi

Giacomo Biffi
(Milano, 13 giugno 1928 - Bologna, 11 luglio 2015)
Da arcivescovo di una città come Bologna, dove ogni frizione finisce sempre per smorzarsi in una bonarietà avvelenata di rancore, dove tutte le fratture si ricompongono all'insegna di un politicamente corretto venato di ipocrisia, il cardinale Giacomo Biffi interpretò il proprio ruolo di pastore con una franchezza strepitosa. Pungolava senza tregua la cittadinanza bolognese, randellava senza grazia le amministrazioni locali e i governi nazionali. Ravvivava l'ortodossia cattolica con un gusto per la provocazione che, insieme al suo profilo da irriducibile, doveva aver mutuato dalle umili origini familiari.
Ero molto piccolo, ma ricordo benissimo gli ultimi anni del suo mandato. Avevo meno di dieci anni quando, durante un raduno di Estate Ragazzi ai Giardini Margherita, ricevetti l’Eucarestia dalle sue mani. 
Una volta, alle scuole elementari, scrissi un tema di cui la maestra Rosanna disse: “Questo piacerebbe molto al cardinale Biffi!”. Ne fui fierissimo. Di quel tema ricordo solo che mi era stato chiesto dove avrei voluto far nascere Gesù in epoca contemporanea, ed io avevo scelto il Vietnam.
Un’altra volta lo vidi in una strada di montagna a Lizzano in Belvedere, mentre ero impegnato in una faticosissima passeggiata con mio nonno Gerardo: la sua auto blu ci sfilò lentamente accanto, e i commenti del nonno mi aiutarono a capire che alcuni hanno Dio dalla loro parte, altri no.
Con Biffi penso di aver condiviso solo il segno zodiacale, perché compivamo gli anni lo stesso giorno: il 13 giugno 2008 io raggiunsi la maggiore età, lui festeggiò gli 80 anni con una celebrazione solenne al Santuario della Madonna di San Luca. Mi sarei precipitato lì, se avessi saputo la notizia in tempo.
Insomma, è molto quello che resta del cardinale Biffi. Perché era un pastore che non aveva dimenticato la funzione primaria del bastone. Dio solo sapeva quanta fatica gli costasse lasciare l’ultima parola al perdono. Eppure ci è sempre riuscito. Di questo, davvero, sono sicuro.

domenica 5 luglio 2015

Le colline del Peloponneso


«[...] Nella stessa misura in cui non capisco il potere, io capisco chi avversa il potere, chi censura il potere, chi contesta il potere, soprattutto chi si rivolta al potere imposto con la brutalità. Alla disubbidienza verso i prepotenti ho sempre guardato come all'unico modo di usare il miracolo d’essere nati. Al silenzio di chi non reagisce e anzi applaude ho sempre guardato come alla vera morte di una donna o di un uomo. E ascolta: il più bel monumento alla dignità umana per me resta quello che vidi su una collina del Peloponneso, insieme al mio compagno Alessandro Panagulis, il giorno in cui egli mi condusse da alcuni resistenti, ed era l’estate del 1973, Papadopulos era ancora al potere. Non si trattava di un simulacro, e nemmeno di una bandiera, ma di tre lettere, OXI, che in greco significan NO. Uomini assetati di libertà le avevano scritte tra gli alberi durante l’occupazione nazifascista e, per trent’anni, quel NO era rimasto lì: senza sbiadirsi alla pioggia ed al sole. Poi i colonnelli lo avevan fatto cancellare con una mano di calce. Ma subito, quasi per sortilegio, la pioggia e il sole avevan sciolto la calce. Sicché giorno per giorno le tre lettere riaffioravano testarde, disperate, indelebili».

Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 1977.


domenica 31 maggio 2015

Il ritorno di Sorrentino

La locandina del film
A due anni esatti dalla prima proiezione de La grande bellezza, presentato alla 66esima edizione del Festival di Cannes, Paolo Sorrentino è tornato al cinema con un film dal respiro internazionale: Youth - La giovinezza, che vede sfilare un cast di stelle, dal protagonista Michael Caine a Harvey Keitel, da Rachel Weisz a Jane Fonda.
Il tocco sicuro e l’apparente autoreferenzialità del regista non devono ingannare: il film che segue la vittoria di un Oscar è il più difficile per tutti. Lo fu per Giuseppe Tornatore, che con Stanno tutti bene restò lontano anni luce dal folgorante successo di Nuovo Cinema Paradiso. Andò allo stesso modo a Gabriele Salvatores, tuttora costretto a confrontarsi con i fasti di Mediterraneo: l’aver indicato fin dall’inizio Lanterne Rosse di Zhang Yimou quale vincitore morale dell’Oscar non bastò ad attirargli l’indulgenza della critica nei riguardi dei film successivi. Per non parlare dello scherno che accolse il Pinocchio di Benigni, insignito nel 2002 del Razzie Award al peggior attore protagonista.
Di Youth è stato detto che non aggiunge nulla al dibattito accesosi negli ultimi anni intorno al cinema di Sorrentino: agli ammiratori il buon gioco di esaltarne l’estetica e la potenza visiva, ai detrattori il facile esercizio di stigmatizzare la frammentarietà della sceneggiatura e la debolezza della storia. Niente di nuovo, insomma. Anche gli aggettivi, dall’uno e dall’altro punto di vista, restano gli stessi: emozionante, inconsistente, anticonvenzionale, kitsch, felliniano.
Michael Caine e Harvey Keitel in Youth (2015)
Le principali riserve su Youth sono a loro volta riconducibili ai due grandi filoni critici già consolidatisi a proposito degli altri film. Il primo filone, più popolare, non avrebbe potuto trovare esemplificazione migliore di quella offerta anni fa da Paolo Cirino Pomicino in un dibattito tv su Il divo: «Durante il film mi stavo addormentando». È il rischio di annoiare gli spettatori il più grande nemico di chi fa cinema come Sorrentino. Ma il fatto che questo giudizio metta d’accordo una buona parte di pubblico dovrebbe far riflettere più il pubblico stesso che il regista: sulla generale incapacità di discostarsi dai modelli mainstream, di cogliere la grandiosità del mezzo cinematografico e il suo valore in sé; sulla perdita dell’abitudine a contemplare la forma, i dettagli, i caratteri di personaggi curati fin nei minimi particolari. Dal Tony Pisapia de L’uomo in più al Cheyenne di This Must Be The Place, fino all’ormai citatissimo Jep Gambardella de La grande bellezza: non c’è regista italiano dell’ultima generazione la cui filmografia possa vantare personaggi tanto originali e memorabili.
L’altro filone di critiche al cinema di Sorrentino – e a Youth – si concentra invece sul fronte logoro ma incandescente del contenuto. Qui riscuotono indiscusso apprezzamento la fotografia di Luca Bigazzi e le musiche di Lele Marchitelli o David Lang, ma ciò che non viene perdonato è l’assenza di un messaggio forte. In altre parole, la lentezza nel ritmo e la raffinatezza del linguaggio sarebbero state tollerate (e persino celebrate) se poste al servizio di grandi temi a sfondo sociale. Ed ecco che su Sorrentino si abbatte l’inappellabile accusa di «fellinismo», con l’aggravante di una così autocompiaciuta magniloquenza a fare da cornice al peggior «cinema del nulla».
Il cast di Youth al Festival di Cannes (20 maggio 2015)
Malgrado i toni eccessivi e stupidamente zelanti di certe critiche, non si allontanerebbe molto dalla verità chi considerasse Youth come un nuovo capitolo, quasi un’appendice, de La grande bellezza. Non c’è la sfavillante indifferenza di Roma, ma un albergo di lusso sulle Alpi svizzere, meta di villeggiatura di una schiera di artisti, attori, celebrità decadute e agiati intellettuali in età senile. Ritorna invece Federico Fellini, il Fellini di 8 ½, che insieme a La montagna incantata di Thomas Mann si accredita coma la principale fonte d’ispirazione del film. Al posto di Jep, Roman, Ramona e Dadina abbiamo il direttore d’orchestra in pensione Fred Ballinger (Michael Caine), insidiato da un emissario della Regina d’Inghilterra che intende fargli dirigere un ultimo concerto per il Principe Filippo, e il regista Mick Boyle (Harvey Keitel), alle prese con la stesura del suo film-testamento; poi la figlia di Ballinger, Lena (Rachel Weisz), con un divorzio in vista, l’attore hollywoodiano Jimmy Tree (Paul Dano), l'ultima Miss Universo (Madalina Ghenea) e un Diego Armando Maradona (Roly Serrano) ormai attaccato alla bombola d’ossigeno.
La sceneggiatura, anche qui, punta più sulle battute fulminanti e sul solenne distacco dei suoi nobili interpreti – e l’ironia leggera di alcuni critici non ha risparmiato nemmeno Sir Michael Caine, «truccato da Toni Servillo» – che sulla costruzione narrativa o su particolari articolazioni nell'intreccio. Fred e Mick, giunti alla fine di una vita che li ha portati alla gloria, sono legati da un’amicizia strana: parlano solo di cose belle, restano complici soprattutto per quello che non si dicono. Ma il Fred Ballinger che libera dalla polvere dell’apatia il suo antico amore per la moglie, tra le lacrime di commozione di Lena, non è molto diverso dal Jep Gambardella che ricomincia a scrivere, a vivere. Perché a volerlo trovare per forza, il senso del cinema di Sorrentino è nello sguardo saggio e amoroso con cui illumina i suoi personaggi. Nessuno di loro va incontro a condanne definitive, anche i più miserabili vengono sfiorati da lievi folate di grazia.
Si potrà allora sostenere che questo regista appena quarantacinquenne abbia fatto sempre lo stesso film, a patto di riconoscerlo come un film su esseri umani che hanno – o non hanno – il coraggio di deporre maschera e armatura, di aprirsi a nuovi rischi. Persone che comunque si rivelano essere qualcosa di più della loro indifferenza. «Le emozioni sono tutto quello che abbiamo»: è questo l'unico, vero testamento che Mick riesce ad affidare a Fred. A fare il paio con un'altra grande lezione, impartita in altri tempi da Alfred Hitchcock: «Il cinema è il come, non il cosa».

lunedì 13 aprile 2015

Eduardo Galeano


Celebrazione del nascere incessante

Eduardo Galeano
 (Montevideo, 3 settembre 1940 - Montevideo, 13 aprile 2015)
Ritratto di Erin Currier.
Miguel Mármol servì un altro giro di rum Matusalemme e mi disse che era una commemorazione: la memoria brindava ai cinquantacinque anni della sua fucilazione. Nel 1932, un plotone di esecuzione l’aveva annientato per ordine del dittatore Martínez.
«Ho già sulle spalle ottantadue anni», disse Miguelito, «ma non me accorgo nemmeno. Ho molte fidanzate. Me le ha ordinate il dottore.»
Mi raccontò che aveva l’abitudine di destarsi prima dell’alba, e che non appena apriva gli occhi si metteva a cantare, a ballare e a ciabattare, e la cosa non piaceva punto ai vicini del piano di sotto.
Ero andato da lui per portargli l’ultimo volume di Memoria del fuoco. La storia di Miguelito è il cardine sul quale ruota il libro: la storia delle sue undici morti e delle sue undici resurrezioni, lungo tutta la sua vita recidiva. Fin dalla sua nascita a Ilopango, in Salvador, Miguelito è la più calzante metafora dell’America Latina. Come lui, l’America Latina è morta e rinata tante volte. Come lui, continua a nascere.
«Ma di questo», mi disse, «non è il caso di parlare. I cattolici mi dicono che è tutto merito della Provvidenza. E i comunisti, i miei compagni, mi dicono che è tutto merito della coincidenza.»
Gli proposi di fondare insieme a me il marxismo magico: metà ragione, metà passione. E la terza metà, mistero.
«L’idea non sarebbe malvagia», mi disse.

Eduardo Galeano, Il libro degli abbracci,  2005.



Oggi ci hanno lasciato Gunter Grass e Eduardo Galeano, due autori il cui passaggio influenzò profondamente la visione che intere collettività - la Germania del dopoguerra per il primo, l'America Latina per il secondo - avevano di se stesse.
La vita e l’opera di  Galeano sono un canto di lotta, liberazione, fratellanza, amicizia, speranza. In una parola, un canto di felicità. Perché felicità è lottare.
Ciao Eduardo.
Grazie.

sabato 11 aprile 2015

Judith Malina

Judith Malina (Kiel, 4 giugno 1926 - Englewood, New Jersey, 10 aprile 2015)
Con la scomparsa di Judith Malina la controcultura americana del ‘900 ha perso una delle sue icone più tenaci e appassionate. Impossibile renderle un giusto tributo senza rievocare l’intensa stagione in cui, con il marito Julian Beck, animò il rivoluzionario progetto del Living Theatre: più che una compagnia teatrale, una comune di attori e artisti, insediatasi nella New York del secondo dopoguerra e decisa ad estendere gli orizzonti dell’avanguardia espressionista al mondo della vita quotidiana.
Nata a Kiel nel 1926, in una famiglia ebraico-tedesca, Judith Malina era emigrata negli Stati Uniti con i genitori; aveva poi frequentato la scuola del grande drammaturgo Erwin Piscator: di qui l’incontro con Beck e la nascita, nel 1947, del nucleo storico del Living Theatre. 
Poco più che ventenni, Julian e Judith dettero vita ad un teatro lontanissimo dai lustrini di Broadway. Il teatro di poesia dei primi anni ’50 cedette presto il passo ad una forma di metateatro che – anche con la rivisitazione dell’opera di Pirandello – puntava al diretto coinvolgimento del pubblico. Riscoprirono poi l’eredità di Antonin Artaud e il teatro della crudeltà, in cui la violenza del mondo reale veniva esorcizzata e condannata attraverso la sua rappresentazione. Se The Connection (1959) raccontava la giornata di un eroinomane, in The Brig (1963) i membri della compagnia accettarono di sottoporsi ad autentiche vessazioni, frustati e umiliati dalla stessa Malina, per lo sconcerto e la pietà degli spettatori.
Dopo un processo politico e alcune settimane di detenzione, nel 1964 i fondatori del Living Theatre intrapresero un viaggio in Europa che si sarebbe protratto fino al 1970: gli spettacoli realizzati in quel periodo – Mysteries and Smaller Pieces (1964), Frankenstein (1965), Antigone (1967) e Paradise Now (1967) – furono un’imprescindibile fonte di ispirazione per le contestazioni giovanili del Sessantotto. Nel 1969 Beck e Malina presero anche parte al film collettivo Amore e rabbia, nell’episodio Agonia, diretto da Bernardo Bertolucci. Tra le pellicole a cui Judith Malina avrebbe partecipato nel corso degli anni, da ricordare Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) di Sidney Lumet – al fianco dell’adorante amico Al Pacino –, China Girl (1987) di Abel Ferrara, Radio Days (1987) di Woody Allen, Risvegli (1990) di Penny Marshall e soprattutto La famiglia Addams (1991) di Barry Sonnenfeld.
Judith Malina e Julian Beck in carcere in Brasile (1971)
Rimandato il ritorno negli Usa, e dopo numerose defezioni in seno alla compagnia, i coniugi Beck si trasferirono nel Brasile oppresso dalla dittatura militare. Con l’intento di realizzare un «teatro da guerriglia» rivolto al sottoproletariato delle periferie, cominciarono la lavorazione dell’ambizioso ciclo L’eredità di Caino, che sarebbe proseguita per tutto il decennio successivo senza essere mai portata a compimento. Arrestati nel ‘71 con l’accusa di possesso di droga, furono espulsi dal Paese dopo due mesi di carcere.
Ma per Judith Malina la prova più difficile si presentò all'inizio degli anni ’80, quando al marito fu diagnosticato un cancro allo stomaco: Julian Beck morì il 14 settembre 1985, all'età di sessant'anni, lasciando a Judith la pesante responsabilità di portare avanti il grande progetto del Living. Le si affiancò Hanon Reznikov, che nel 1988 divenne il suo secondo marito. Anche a lui si dovette l’ancor più febbrile attività degli anni successivi: stabilitosi sulla Terza Strada di Manhattan, il Living realizzò nuovi spettacoli di denuncia sociale come Humanity, Rules of Civilty, Echoes of Justice e The Zero Method.
Dopo un altro periodo itinerante, tra il 1999 e il 2003 la compagnia si stabilì in Italia, nella provincia di Alessandria, dove videro la luce Anarchia, Utopia, Capital Changes e Not in my name, feroci atti d’accusa contro la guerra, lo sfruttamento del sistema capitalistico e la pena di morte. Durante i giorni del G8 di Genova andò poi in scena Resist Now!, a sostegno della protesta no global. Neanche l’improvvisa morte di Reznikov, nel maggio 2008, abbatté l’impegno dell’infaticabile Judith: da sola terminò la realizzazione di Eureka! e nel 2010 scrisse Red Noir, coltivando ancora nuovi piani di lavoro.
Bologna, 8 luglio 2013
Prima che le condizioni di salute e l’indigenza la costringessero a ritirarsi presso la Lillian Booth Home, una casa di riposo per artisti del New Jersey, era tornata in Italia un’ultima volta nel 2013. A Bologna, dove aveva assistito a una proiezione dell’Edipo re di Pasolini – con l’amato Julian Beck nei panni dell’indovino cieco Tiresia – e ricordato le vittime della strage di Ustica con uno spettacolo recitato insieme a Silvia Calderoni della compagnia riminese Motus, The plot is the revolution. Dalla sua piccola sedia a rotelle, anche in quell’occasione, dette prova di uno spirito sempre battagliero, mai piegato dagli anni e dagli eventi. A chi le chiese di definire il Living Theatre rispose che era sempre stato una «lotta per l’azione, per dare potere agli spettatori»: «Ora li chiamiamo partecipanti, sempre di più il nostro teatro diventa esperienza in cui i partecipanti possono far sentire il loro potere di cambiare, con la speranza che quando finisce lo spettacolo portino fuori il bisogno di opporsi a ciò che è contro il loro sentimento e il loro desiderio».

sabato 28 febbraio 2015

Tra fracasso e silenzio

Leggere oggi questi versi di Wisława Szymborska – a oltre tre anni dalla morte della grande poetessa polacca, di cui La fine e l’inizio (1993) fu l’ultima opera data alle stampe prima dell’assegnazione del Premio Nobel, nel 1996 – significa vedersi scorrere davanti agli occhi le immagini degli sgozzamenti dell'Isis, raffinatissime nella tecnica, o le colonne di carri armati ucraini schierate lungo il Donbass, dove torna a farsi vivo il «contrasto tra sangue rosso e neve bianca». Perché più di ogni altro sentimento l’odio sa scaldare il cuore dell’uomo, «sa creare bellezza». Riempie le piazze e gli stadi. Scrive pagine di storia. Si serve della giustizia e ha l’ultima parola sulla fratellanza, sulla compassione, sul dubbio.


L’odio
di Wisława Szymborska

Guardate com'è sempre efficiente,
come si mantiene in forma
nel nostro secolo l’odio.
Con quanta facilità supera gli ostacoli.
Come gli è facile avventarsi, agguantare.

Non è come gli altri sentimenti.
Insieme più vecchio e più giovane di loro.
Da solo genera le cause
che lo fanno nascere.
Se si addormenta, il suo non è mai un sonno eterno.
L’insonnia non lo indebolisce, ma lo rafforza.

Religione o non religione –
purché ci si inginocchi per il via.
Patria o no –
purché si scatti alla partenza.
Anche la giustizia va bene all'inizio.
Poi corre tutto solo.
L’odio. L’odio.
Una smorfia di estasi amorosa
gli deforma il viso.

Oh, quegli altri sentimenti –
malaticci e fiacchi.
Da quando la fratellanza
può contare sulle folle?
La compassione è mai
giunta prima al traguardo?
Il dubbio quanti volenterosi trascina?
Lui solo trascina, che sa il fatto suo.

Capace, sveglio, molto laborioso.
Occorre dire quante canzoni ha composto?
Quante pagine ha scritto nei libri di storia?
Quanti tappeti umani ha disteso
su quante piazze, stadi?

Diciamoci la verità:
sa creare bellezza.
Splendidi i suoi bagliori nella notte nera.
Magnifiche le nubi degli scoppi nell'alba rosata.
Innegabile è il pathos delle rovine
e l’umorismo grasso
della colonna che vigorosa le sovrasta.

È un maestro del contrasto
tra fracasso e silenzio,
tra sangue rosso e neve bianca.
E soprattutto non lo annoia mai
il motivo del lindo carnefice
sopra la vittima insozzata.

In ogni istante è pronto a nuovi compiti.
Se deve aspettare, aspetterà.
Lo dicono cieco. Cieco?
Ha la vista acuta del cecchino
e guarda risoluto al futuro
 – lui solo.

Wisława Szymborska, La fine e l’inizio, 1993.

lunedì 5 gennaio 2015

Pino Daniele


A chi gli chiedeva se avesse paura della morte, a fronte di condizioni di salute già precarie, Pino Daniele opponeva un nettissimo diniego: «La morte? È la più grande bugia della vita».
La sua voce limpida e il suo cuore schietto, da artista allergico ai bluff dei professionisti dello spettacolo, erano entrati da decenni nel linguaggio quotidiano del popolo partenopeo, e le sue canzoni risuoneranno ora più forti che mai nei vicoli di una Napoli dalla bellezza sempre amara e struggente.
Terra mia, scritta oltre trent'anni fa, più di ogni altra potrebbe accogliere tutti i Sud del mondo in un abbraccio fraterno: dal Mediterraneo arabo all’Africa nera, alle impietose periferie delle metropoli latinoamericane. Una perla di poesia e sofferenza, un grido di dolore e di speranza in cui la «vita che se ne va» e la nera mestizia delle preghiere sembrano ricongiungere mare e cielo fino a sciogliersi in un eterno profumo di libertà.