martedì 31 luglio 2012

«Non dite a mia madre che sono cieco…»

Mohammad Brash
Il testo che segue potrebbe essere stato scritto da uno dei tanti poeti che una «nazione fatta di parole» come quella palestinese ha prodotto nel corso della sua lunga storia... Da Mahmoud Darwish, forse, che aveva eletto la poesia a suprema dimora della propria patria: «Potete legarmi mani e piedi, / togliermi il quaderno e le sigarette, / riempirmi la bocca di terra. / La poesia è sangue del mio cuore vivo, / sale del mio pane, / luce dei miei occhi, / sarà scritta con le unghie, / lo sguardo / e il ferro. / La canterò nella cella della mia prigione / nella stalla / sotto la sferza / tra i ceppi / nello spasimo delle catene. / Ho dentro di me un milione di usignoli / per cantare la mia canzone di lotta». O da Samih al-Qasim, altro celebre poeta e massimo cantore della resistenza. Oppure da quell’Ibrahim Tuqan che proprio nella poesia La mia patria (Mawtini), il futuro inno nazionale, cantava: «la spada e la penna sono i nostri simboli…». Invece lo ha scritto un prigioniero palestinese di trentadue anni, Mohammad Brash. Nel 2000 i cecchini dello Tzahal uccisero suo fratello, appena quindicenne. E nel 2001 un’esplosione gli danneggiò gravemente la vista. Arrestato nel 2003, è attualmente detenuto nel carcere israeliano di Aishel.


«Non dite a mia madre che sono diventato cieco. Quando viene a trovarmi, lei non sa che sono diventato cieco, dopo che i miei occhi si sono ammalati e il buio ha invaso il mio corpo. Lei mi vede ma io non la vedo. Le sorrido da dietro la rete di ferro e faccio finta di vederla, quando mi mostra le fotografie dei miei fratelli, dei miei amici e dei nostri vicini.

Non ditele che sono anni che aspetto un'operazione per avere una cornea nuova e che sono anni che la direzione del carcere rimanda, rimanda e poi rimanda ancora, dando ai miei occhi tutte le ragioni per dimenticare la luce del giorno.

Non raccontatele del mio corpo segnato da ricami di schegge di piombo, né che il mio piede sinistro è stato amputato e sostituito da uno posticcio mentre quello destro è già ammuffito e si sta distaccando dalla vita.

Non raccontatele come un prigioniero perde la cognizione dei sentimenti più elementari, condannato a vedere soltanto ferri e cenere e mai il bianco radioso e i cavalli sellati dal silenzio che guidano verso la speranza.

Ditele che sono vivo, che sono sano, che i miei occhi vedono, che cammino, corro, gioco, salto, scrivo e leggo... Trascino il mio dolore su queste stampelle e sono con mio fratello martire, ora in cielo, e lo sento chiamarmi con la forza del tuono e del fulmine...

Non ditele che non conosco più il sonno, che mi nutro di sedativi per intorpidire le mie membra... che quando mi muovo per cercare le mie cose sbatto contro le sbarre o il corpo di un altro prigioniero, che dorme accanto a me e si alza per aiutarmi ad andare in bagno...

Stare sveglio mi addolora e il sonno mi ha abbandonato. Non dite a mia madre della polvere da sparo che mi è entrata negli occhi riempiendoli di sangue, sulla strada del campo in quel pomeriggio feroce, quando i cecchini mi hanno scelto come bersaglio facendo volare il mio piede lontano.

Prima che il buio mi inghiottisse, si è impressa nei miei occhi l'immagine di un bambino che mi correva incontro, portando una bandiera, e gridava: “Martire! Martire!”

Ditele che non mi basta sognarla, che sono straziato dalla nostalgia di lei, che incido segni sul muro per ricordarla e dimenticare i miei dolori e l’oscurità che mi avvolge.

Ditele che seguo l’ascesa della sua preghiera fino a toccare il cielo, mi fermo e poi a malincuore ritorno per non ferirla con la mia morte, ma rimango sulla porta come se avessi già scelto il mio domani.

Non dite a mia madre che Israele del ventunesimo secolo ha trasformato le carceri in laboratori sperimentali dove coltivare malattie che consumano i nostri corpi lentamente come si strugge la cera delle candele.

Non ditele che ho già imparato i nomi di tutte le malattie più strane e delle medicine più bizzarre e che conosco il sapore di tutti gli anestetici che sono costretto a inghiottire mentre osservo il corpo di Zakarya Issa, amico e fratello, scivolare prima di me nella vita senza vita di un lungo coma.

Non raccontate a mia madre dei malati e delle malattie che accendono nei loro corpi guerre e follia: Ahmad Abu Il-Rub, Khaled Al-Shawish, Ahmad Al-Najjar, Mansour Mauqadeh, Akram Mansour, Ahmad Samarah, Wafa' Il-Bis, Rima Daragmeh, Tareq Asy, Motasem Raddad, Ryad Il-O'mor, Yasser Nazzal, Ashraf Abu Dree, Jihad Abu Hanyeh, tutti massacrati dal carcere e dalla malattia, che uno stato arrogante capace soltanto a dispensare morte e funerali, ci infligge.

Ditele che solo trenta porte mi separano dalla porta di casa e che avanzo di un passo ogni volta che vola un uccello, ditele che il fuoco mi avvampa gli occhi, il filo spinato mi trafigge il petto e che mi rifugio nel suo cuore e nelle sue preghiere».
Mohammad Brash


Poco dopo la diffusione di questa lettera, nell’aprile 2012, l’associazione umanitaria Ad-Dameer ha rilevato la presenza nelle carceri israeliane di ben 4653 detenuti politici palestinesi, tra cui 308 in detenzione amministrativa (un regime carcerario che prevede periodi di detenzione fino a sei mesi senza imputazione né condanna),  218 minori e 7 donne. Lo sciopero della fame indetto da 1600 di loro, protrattosi fino a metà maggio e conclusosi con un lieve, impercettibile miglioramento delle condizioni di detenzione, non ha avuto particolare eco presso i media occidentali, nonostante il negoziato tra i prigionieri e le autorità israeliane abbia visto un forte coinvolgimento dell’Egitto del dopo-Mubarak.

Manuel Lambertini

giovedì 26 luglio 2012

A proposito di Schmitt

Chi volesse accostarsi al pensiero di una delle figure più eminenti e controverse della filosofia politica contemporanea – a quasi trent’anni dalla morte, Carl Schmitt continua ad essere oggetto di vivaci reinterpretazioni – troverà di grande interesse un piccolo libro pubblicato pochi mesi fa da Adelphi, Dialogo sul potere. Di dialoghi, in realtà, il volumetto ne contiene due: il Dialogo sul potere e sull’acceso al potente e il Dialogo sul nuovo spazio, entrambi concepiti per un pubblico vasto e animati da un chiaro intento divulgativo.
Rispettivamente nel giugno 1954 e nell’aprile 1955, i due testi furono recitati e trasmessi da un’emittente radiofonica di Francoforte, con un successo di pubblico che sfidò la pessima fama dell’autore, escluso dal mondo accademico perché compromesso con il regime nazista. E in entrambi i dialoghi, scrive il curatore Giovanni Gurisatti nella postfazione, si può leggere in controluce la difficile condizione vissuta a quel tempo dallo stesso Schmitt, sottrattosi al processo di Norimberga dopo un lungo periodo di internamento. Benché il suo distacco dal Führer e dal nazionalsocialismo avesse preceduto di molti anni il crollo del regime, il giurista di Plettenberg fu chiamato a rispondere di pesanti accuse: «partecipazione diretta o indiretta alla pianificazione di guerre di aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità».
Se, tuttavia, il Dialogo sul nuovo spazio prende solo indirettamente le mosse dalle memorie difensive scritte in quella circostanza – per scindere la propria elaborazione «prettamente scientifica» dall’espansionismo hitleriano e dalle teorie dello «spazio vitale» sviluppate da Alfred Rosenberg –, il Dialogo sul potere risulta più chiaramente influenzato dalle traversie personali dell’autore. Vi si legge, infatti, dell’«inevitabile dialettica interna di potere e impotenza in cui qualsiasi potente umano è destinato ad incappare», dell’«anticamera del potere» (camarilla o antichambre, che dir si voglia) e del problema dell’«accesso al vertice».
Dopo essersi interrogato sull’origine del potere – affermando, con Hobbes, che esso non deriva né da Dio né dalla natura, ma dagli uomini, dal loro stato di «generale debolezza», e da un’obbedienza dettata dal comune bisogno di protezione –, Schmitt si preoccupa di identificarne i veri detentori. Ed è qui che le sue riflessioni mostrano i segni degli interrogatori di Norimberga, durante i quali l’autore dei Dialoghi, pur non avendo svolto alcun ruolo di responsabilità all’interno del passato regime, si trovò a difendere «la posizione del Ministro del Reich e Capo della Cancelleria del Reich», nella fattispecie il giurista Hans Heinrich Lammers. A partire allo specifico problema del rapporto tra ministro e dittatore, nel quadro di un regime che conferiva a quest’ultimo poteri discrezionali pressoché illimitati, prendono però forma analisi tuttora inedite e sorprendenti.
Pochi, semplici passaggi, resi ancor più immediati dalla forma dialogica del testo, si strutturano attorno ad una chiarissima premessa: «L’individuo umano nelle cui mani stanno per un momento le grandi decisioni politiche può realizzare la sua volontà solo a determinate condizioni e con determinati mezzi. Anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri. [...] Chi è chiamato a riferire di fronte al potente, o gli fornisce informazioni, è già partecipe del potere, non importa se si tratti di un ministro responsabile della controfirma o di qualcuno che per via indiretta sappia cattivarsi l’attenzione del potente. È sufficiente che egli procuri impressioni e motivazioni all’individuo umano nelle cui mani, per un momento, sta la decisione». Detto in altri termini: «davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima». E con tutte le varianti del caso: «Qui stanno l’uno accanto all’altro il vecchio Fredersdorff, cameriere personale di Federico il Grande, e la nobile imperatrice Augusta, Rasputin e il cardinale Richelieu, un’eminenza grigia e una Messalina. [...] A volte l’anticamera coincide con l’effettiva sala di Stato ufficiale, in cui i dignitari chiamati a riferire si riuniscono in attesa di essere ricevuti. Spesso però si tratta solo di un gabinetto privato». Molte, tuttavia, le peculiarità del totalitarismo nazista: «Quanto più il potere si concentra in un determinato punto, in un determinato uomo o gruppo di uomini come in un vertice, [...] tanto più violenta, accanita e sotterranea diventa anche la lotta tra coloro che occupano l’anticamera e controllano il corridoio. [...] Il potente diventa sempre più isolato quanto più il potere diretto si concentra nella sua persona individuale. Il corridoio lo sradica dal terreno comune e lo innalza in una sorta di stratosfera in cui egli mantiene contatti soltanto con coloro che indirettamente lo dominano, mentre perde i contatti con tutti gli altri uomini su cui esercita il potere, che a loro volta perdono contatto con lui. In casi estremi spesso tutto questo balza agli occhi in modo grottesco».
Che la figura di Hitler rientri in tale casistica è fuor di dubbio. Il Führer, scrive Gurisatti, «si pretendeva non solo onnipotente ma anche onnisciente», con «l’inaccessibilità di un dittatore per il quale un autista o un semplice Gauleiter potevano essere più importanti di un ministro o di un generale». È quanto scrive lo stesso Schmitt, in una memoria difensiva poi pubblicata nelle Risposte a Norimberga: «Hitler emanava disposizioni di contenuto generale e particolare di tutti i tipi; poteva emanare leggi, sciogliere matrimoni, infliggere pene, revocare la patria potestà, a suo piacimento, e poteva farlo pubblicamente o in segreto, a voce o per iscritto, a quattr’occhi o in qualsiasi altra occasione gli andasse bene, con il risultato che il richiamo a un ‘comando del Führer’ alla fine non poteva essere verificato da nessuno…». Ed è così che Schmitt finisce col condannare proprio quell’esercizio arbitrario del potere di cui, tra il 1933 e il 1936, aveva subito il fascino, e sul quale si era retto il mostruoso «soggettivismo» del regime hitleriano. Egli dunque invoca la necessità di impedire gli abusi dell’anticamera «tramite misure razionali e norme costituzionali», pur nella consapevolezza che «nessuna istituzione, per quanto saggia, nessuna organizzazione, per quanto sofisticata, possono eliminare l’anticamera come tale».
Ma le sue analisi si spingono molto oltre, ad una conclusione di più ampio respiro che non esita ad affermarsi come «risultato incontestabile»: il potere è più forte della volontà umana, sia essa buona o cattiva, ed il singolo potente è costretto a muoversi in «una situazione derivante da un sistema di divisione del lavoro cresciuta oltre ogni limite». Il tema caldo è ovviamente quello della tecnica, della bomba atomica, della «potenza dei moderni mezzi di produzione» che «supera la forza degli individui umani che li inventano e li impiegano», così come «le possibilità delle macchine e dei procedimenti tecnici moderni superano la forza dei muscoli e dei cervelli umani». O meglio: «Ciò che produce tutto questo non è più l’uomo in quanto uomo, bensì una reazione a catena da lui provocata. Nella misura in cui oltrepassa i limiti della physis umana, essa trascende anche qualsiasi dimensione interumana di ogni possibile potere di uomini su uomini. Anche la relazione tra potere e obbedienza viene travolta. Assai più della tecnica, è proprio il potere a essere sfuggito di mano agli uomini, e coloro che, con l’aiuto di siffatti mezzi tecnici, esercitano il potere su altri non sono più “tra di loro” con quelli che sono soggetti a tale potere». (Come non intravedere in queste parole un inquietante spaccato del mondo di oggi, assai lontano da quello della Guerra Fredda e tuttavia attanagliato dall’incontrollabile complessità del capitalismo finanziario?).
È proprio in questa constatazione, del resto, che il Dialogo sul potere e il Dialogo sul nuovo spazio trovano il loro principale punto di contatto. Ed è un Carl Schmitt «sobrio e posato» quello che nei due Dialoghi condanna l’arbitrio illimitato del potere, che svela l’eterna relazione dialettica tra potere e impotenza, che disapprova ogni conquista territoriale e che infine ammonisce l’umanità dai rischi di una tecnica «disumana». Egli ormai sembra aver trovato nel «ritorno alla terra» il vero banco di prova del presente: «Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla e a inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla Luna o su Marte». In definitiva: «Non c’è bisogno che mi auguriate niente di “nuovo”. Avrete certo notato [...] che io rimango presso la terra e sulla terra. Per me l’uomo è un figlio della terra, e lo resterà fintanto che resterà uomo. Saprete sicuramente come inizia la seconda parte del Faust di Goethe: Faust si risveglia da una notte popolata di incubi terrificanti e prova la gioia di una nuova aurora della terra, che lo consola e gli infonde nuova forza. Allora egli saluta il nuovo mondo che gli si sta aprendo con lo splendido verso: Tu sei rimasta, terra, salda anche questa notte».

Manuel Lambertini