mercoledì 21 marzo 2012

Tonino Guerra

Vicino al fuoco
Tonino Guerra (16 marzo 1920 - 21 marzo 2012)
Un tale aveva deciso di smetterla con le donne e infatti visse per lungo tempo solo. Passeggiava, guardava gli alberi e andava al caffè senza voltarsi verso una bella ragazza.
Ma un giorno una giovane donna gli si mise accanto e gli disse che lo amava. Quel tale la rifiutò per tanti giorni e così la donna non venne più al caffè e scomparve chissà dove.
Solo adesso quel tale fu scosso da tanto amore che percorse a piedi la città finchè si fermò a parlare con una di quelle donne che stanno vicino ai fuochi in periferia. E non si accorse che era la stessa ragazza che lo amava.
Tonino Guerra, Il Polverone, 1978.

Se n’è andato «il 21 a primavera». Lo stesso giorno che ottantuno anni fa dette alla luce un’altra grande poetessa di questo secolo, Alda Merini. E che ora l’Unesco, neanche a farlo apposta, celebra come giornata mondiale della poesia. Da «comunista zen», il nostro caro Tonino non avrebbe voluto che pensassimo ad una coincidenza... E da romagnolo, sarebbe stato molto più felice se nessuno gliela avesse fatta notare!

Manuel Lambertini

venerdì 2 marzo 2012

Lucio Dalla


Con Lucio Dalla, 18 novembre 2007.
«Oh no, dai no… non ci posso credere dai…davvero non posso crederci». Come Jovanotti, e per un lasso di tempo che non so quantificare, anch’io non ho voluto crederci. Ed ora perdonatemi se per una volta lascio da parte lo stile compassato e formale che finora ha scandito i tanti, troppi addii officiati su questo deprimente blog. La morte a Montreaux di Lucio Dalla, stroncato da un infarto tre giorni prima di comipere 69 anni, ha pietrificato l’Italia. Ma abituarsi alla sua assenza sarà una prova ancor più triste e difficile. A testimonianza di quanto fosse presente nella mia vita, il caso ha voluto che proprio il giorno prima della scomparsa pubblicassi qui un recente componimento del poeta Roberto Roversi, autore di canzoni come Il coyote, Anidride solforosa, Le parole incrociate e Nuvolari. 
Camminare per Bologna dopo la sua dipartita mi ha fatto ripensare agli innumerevoli incontri, talvolta casuali, avuti con lui negli ultimi cinque anni, e ad aneddoti e ricordi che d’ora in poi permeeranno tutti i luoghi che frequento di più. Non solo la centralissima Via D’Azeglio, dove abitava, o la Libreria Feltrinelli della vicina Piazza Galvani, che ospitava le presentazioni di ogni suo nuovo album. Penso anche alla quasi totalità dei teatri cittadini (al Teatro Comunale aveva accolto il presidente Napolitano appena un mese fa). Alle anteprime cinematografiche cui abitualmente presenziava. A Piazza Santo Stefano, suggestiva cornice dello spettacolo Enzo Re, scritto da Roversi e interpretato insieme a Piera Degli Esposti e all’inseparabile Marco Alemanno. E ovviamente a Piazza Maggiore, la sua Piazza Grande, dove all’età di sedici anni lo vidi per la prima volta.
Lascio ad altri il piacere di ripercorrerne la carriera e i successi, ormai scolpiti nella storia della canzone italiana e impressi indelebilmente nell’immaginario collettivo. Un percorso artistico comunque singolare, il suo, che toccò l’apice con Lucio Dalla del 1979 (l’album di L’ultima luna, Anna e Marco, Cosa sarà, L’anno che verrà…), dopo capolavori degli anni precedenti quali 4/3/1943 del ’71, Nuvolari del ’76, Com’è profondo il mare e Disperato erotico stomp del ’77, e molto prima del successo planetario di Caruso, che a partire dal 1986 vendette oltre otto milioni di copie in tutto il mondo. Moltissimi gli artisti che poterono fregiarsi della sua collaborazione, altrettanti i talenti che il suo estro portò alla luce. Nessuno come lui seppe unire l’altissimo valore poetico delle canzoni ad una popolarità tanto vasta. Perché popolari erano le sue passioni – il calcio, la pallacanestro, i motori… – nonché le sue origini, fonte di una generosità e di una modestia che non lo abbandonarono mai. Ed il tributo resogli da tutti i più importanti canali d’informazione – questa volta sorprendentemente all’altezza delle aspettative – testimonia come anche i più maligni risolini di scherno nascondessero un sincero affetto.
Era originale, umile, autoironico. Sapeva alternare le bizzarrie più improbabili a guizzi di inarrivabile genialità. Era anche un credente autentico, e cercava Dio tra «i ladri e le puttane»: nei pezzenti e negli esclusi non smise mai di riconoscere se stesso. La caducità dell’esistenza era molto presente nei suoi testi, ma la strepitosa, debordante umanità dell’autore ce lo aveva fatto dimenticare. «Ma sì, è la vita che finisce». E lui non ha avuto nemmeno il tempo di pensarci. «Con tutto il rispetto per l’infarto – diceva – la vera malattia del cuore è l’abbandono». È morto felice, entuasiasta di una tournée europea che lo avrebbe riportato all’Olympia di Parigi. Neanche fosse quel «signore che con la morte vicino giocava a biliardino»… Ed è confortante ricordare, in un momento nel quale non deve essere la malinconia ad averla vinta, con quanta commossa serenità il «caro amico» Lucio commemorò un altro grande emiliano, Luciano Pavarotti. «Perché la vita – ripetè anche in quell'occasione – è solo il primo tempo».

Manuel Lambertini