venerdì 29 giugno 2012

2 a 1

Cercavo una poesia con cui salutare il mese di giugno, e raggiungere ancora una volta il miserrimo risultato di due post ogni trenta giorni (i lettori non me ne vorranno). Nell’optare banalmente per il tema calcistico, soprattutto per celebrare la perpetuazione del mito che ci vede vittoriosi contro la cupa Germania, la mia attenzione si è immediatamente focalizzata sulle «cinque poesie sul gioco del calcio» di Umberto Saba.
Nel leggere Goal ho pensato di essere colto da deja vu. Salvo poi scoprire di essere ritornato al momento realmente vissuto in cui, alle scuole elementari, cercavo di imparare a memoria questa poesia. Ma era solo la prima sorpesa, viste le incredibili sovrapposizioni con l’esperienza appena vissuta durante la semifinale dei campionati europei…  Non solo l’«unita ebbrezza» della folla (che ieri era un’unica ebbrezza, appunto, con smargiassate che forse al tempo di Saba non erano così diffuse…), ma anche il «vincitore» al cui «collo si gettanno i fratelli», un italiano nero di pelle e di carattere, a cui i compagni di squadra sono proprio saltati addosso.
Che dire? Con tutte queste corrispondenze (che in verità potrebbero presentarsi ad ogni partita di calcio, ma fa niente...) è quasi inevitabile che il significato ultimo del componimento venga messo da parte. E in quanto alla strofa finale... Beh, mai avrei immaginato che alla figura di Gigi Buffon potesse affiancarsi una qualsiasi immagine poetica!


Goal

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
 - l’altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch’io son parte.

Umberto Saba

Manuel Lambertini

venerdì 22 giugno 2012

Werner Herzog on Death Row

Werner Herzog sul set di Death Row
La posizione di Werner Herzog sulla pena di morte è di «rispettoso dissenso». Ma i quattro episodi della serie Death Row, presentati a Berlino lo scorso febbraio, trasmessi negli Stati Uniti da Investigation Discovery (come già Into the Abyss) e mostrati in anteprima italiana al Biografilm Festival di Bologna (8-18 giugno 2012), hanno il merito involontario di far venire meno quel rispetto, di consumarlo fino all’insostenibilità, di seppellirlo sotto una valanga di dubbi.
Quattro storie, cinque condannati a morte. Chi conosce la filmografia del leggendario cineasta bavarese sa di non potersi aspettare uno sguardo «turbato dalla tematica politicoradicale (diciamolo: debordiana) dello spettacolo», per riprendere le inimitabili parole di Enrico Ghezzi, né si arrischierebbe ad addebitargli una tardiva, estemporanea incursione nel cinema di denucia sociale. Tuttavia, l’inafferabile complessità dell’umano – il vero, grande leitmotiv dell’opera di Herzog – riemerge qui con rinnovata forza, e lo stile asciutto della regia non può che perdere il lucido distacco dei propositi iniziali per rendersi partecipe della condizione dei «colpevoli», dei loro sentimenti, delle loro emozioni.
James Barnes
Di estrema, inquietante efferatezza le gesta di James Barnes, pluriomicida reo confesso, attualmente detenuto in Florida. Arrestato per l’assassinio della moglie, in carcere si è convertito all’Islam e ha confessato un precedente omicidio a sfondo sessuale, che gli è valso la pena di morte. Durante le riprese del film, forse per ritardare o per accelerare i tempi dell’esecuzione, rivela di essersi macchiato di altri due omicidi in età giovanile. «Simpatizzo con la sua ricerca di giustizia procedurale, ma questo non significa che lei mi piaccia», gli dice Herzog all’inizio del loro primo colloquio. Poi il racconto della vita dell’uomo, anche attraverso la testimonianza della sorella gemella Jeannice, torna alle violenze subite in famiglia, alle crudeltà cui sottoponeva gli animali fin dall’età infantile, all’insana attrazione per il fuoco, ai numerosi reati di droga… La sua lucida, onesta consapevolezza stupisce e impressiona. Ha però un attimo di smarrimento quando Herzog gli comunica un messaggio dell’anziano padre, che non ha voluto prendere parte al documentario: «Gli dica due cose: uno, gli voglio bene; due, odio i crimini che ha commesso».
Linda Carty
Linda Carty è l’unica donna di colore e con cittadinanza britannica che si trovi rinchiusa nel braccio della morte. È stata condannata alla pena capitale per l’omicidio di Joana Rodrigues, una giovane donna messicana rapita insieme al figlioletto di appena quattro giorni e trovata senza vita nel bagagliaio di un’automobile. Dopo la nascita della prima figlia Jouvelle – presente qui con una commossa testimonianza – Linda cercava disperatamente di dare un altro figlio al marito. Secondo l’accusa, la donna si sarebbe introdotta nell’abitazione della giovane coppia grazie all’aiuto di alcuni malviventi a cui aveva promesso il ritrovamento di una grande quantità di marijuana: era sua intenzione appropriarsi del bambino. Sempre secondo questa versione, confermata dalle dichiarazioni dei tre spacciatori coinvolti, Linda avrebbe poi organizzato il rapimento del neonato e della giovane mamma, soffocando quest’ultima in assenza dei complici. Lei non ha mai smesso di proclamarsi innocente. E Jouvelle avanza il sospetto di una macchinazione ai danni della madre orchestrata dalla criminalità locale, essendo Linda un’attiva informatrice della DEA, l’agenzia antidroga statunitense. Restano l’inadeguatezza della sua difesa durante tutta la durata del processo e il mancato coinvolgimento delle autorità britanniche, che avrebbero potuto risparmiarle la condanna a morte.
Joseph C. Garcia e George Rivas
L’episodio di Joseph C. Garcìa e George Rivas presenta alcune peculiarità. Non solo ha due uomini per protagonisti, e non solo i fatti che li riguardano vengono raccontati con un taglio più marcatamente documentaristico: la loro vicenda, tra i casi esaminati, è anche quella in cui i tradizionali argomenti a favore della pena-di-morte-come-deterrente giocano il ruolo più importante... Rivas e Garcìa sono due membri del gruppo dei «sette del Texas», una banda di detenuti evasa dal supercarcere di Connally nel dicembre 2000. George Rivas, la mente della fuga, e Joseph Garcìa erano stati precedentemente condannati a trent’anni di carcere, l’uno per una serie di rapine con presa di ostaggi e l’altro per omicidio. Con Herzog, entrambi ripercorrono le loro vite e parlano dell’atto che li ha condotti al patibolo: una rapina compiuta la vigilia di Natale del 2000, dieci giorni dopo l’evasione, e finita con la morte di un poliziotto. Rivas, responsabile materaile dell’accaduto, è onesto, dignitoso, obiettivo. Da professionista della «rapina senza spargimenti di sangue», dice di partecipare al dolore della famiglia della vittima. Benchè del tutto estraneo alla sparatoria, neppure Garcìa tenta di autoassolversi. Ma racconta di aver sognato se stesso, quasi centenario, durante una futura festa di compleanno. E continua a sperare che la premonizione possa essere di buon auspicio... Invece George Rivas non sembra avere il minimo dubbio sul destino che lo aspetta. La sua condanna a morte è stata eseguita il 29 febbraio 2012.
Hank Skinner
Hank Skinner, al momento dell’intervista, ha trascorso più di diciassette anni nel braccio della morte. Condannato alla pena capitale per l’omicidio della fidanzata e dei suoi due figli, si è sempre dichiarato innocente. Su di lui non è mai stato effettuato il test del Dna, e le perizie medico-legali lasciano aperti alcuni interrogativi. Per due volte la Corte Suprema ha rinviato l’applicazione della sentenza. Nel 2010 la notizia della provvisoria sospensione della pena gli arrivò venti minuti prima dell’orario previsto per l’esecuzione: è quindi lo stesso Skinner a poter raccontare l’ultimo viaggio del condannato a morte... Una carovana di auto blindate che in cinque ore attraversa il Texas, con vista su laghi e pianure. Un protocollo curato nei minimi particolari. E infine un ultimo, abbondante pasto. Davanti alle telecamere Hank è garbato, cordiale, facile alla battuta. Talvolta, perfino esplosivo. Parla del bellissimo rapporto con la figlia. E dell’ultima moglie, un’attivista per i diritti umani conosciuta durante la detenzione. Non fa mistero della propria superstizione, anzi sfoggia una certa cultura storico-esoterica. Gli ultimi anni sembrano avergli riacceso qualche speranza.
Se si volesse ricercare un filo conduttore tra queste storie, sarebbe più che opportuno concentrarsi sulla sommessa ma inevitabile deplorazione con cui Herzog guarda alla macchina burocratica e giudiziaria americana, del cui funzionamento – quello sì, disumano – sembra aver acquisito un’ottima conoscenza. Ne è massima espressione, nell’episodio di Linda Carty, uno scambio di battute con l’assistente della procura distrettuale Conney Spence, che durante il processo ha rappresentato l’accusa. Di fronte ai ripetuti ammonimenti della pubblico ministero circa un’eccessiva «umanizzazione» dell’imputata, Herzog risponde con un inappellabile verdetto: «Io non sto facendo un tentativo di umanizzarla. Lei è un essere umano. Punto».

Manuel Lambertini