venerdì 17 agosto 2012

Il viaggio di Sir Vidia

V.S.Naipaul (Chaguanas, 17 agosto 1932)
Ovunque vada, le leggende sul suo cattivo carattere lo precedono. Con lui, ogni incontro pubblico potrebbe saltare nel modo più inaspettato, ogni intervista potrebbe essere annullata di punto in bianco, alla prima «domanda stupida». Non si contano i grandi scrittori del passato e del presente che sono stati bersaglio dei suoi sferzanti attacchi, innocenti vittime di giudizi sommari o controparti attive in infuocate polemiche. E a lui non resta che compiacersi del docile, prudente ossequio che gli viene generalmente tributato, ora che è l’individuo più inoffensivo del mondo, costretto al supporto di una sedia a rotelle e amorevolmente assistito dalla moglie Nadira.
Lo scrittore premio Nobel che in tutti i paesi del Commonwealth è semplicemente noto come Sir Vidia, al secolo Vidiadhar Surajprasad Naipaul, ha finalmente tagliato il traguardo degli ottant’anni. Ne aveva ventidue quando, lasciata la natia Trinidad e laureatosi ad Oxford grazie a una borsa di studio, cominciò a lavorare come redattore per una trasmissione della BBC sulle Voci caraibiche. Era povero, e viveva in un basement della Londra popolare. Ma la chiamata della letteratura si faceva sentire già allora, nella volontà incrollabile di rendere giustizia a un genitore sfortunato. Suo padre, Seepersad Naipaul, era stato assunto come cronista al Trinidad Guardian, e aveva coltivato per tutta la vita il sogno di diventare scrittore. Indiano proveniente da una famiglia di braccianti trasferitasi nell’isola caraibica di Trinidad, e sposato a una donna di più nobile lignaggio, inseguiva un riscatto sociale che non arrivò mai. E che solo la consacrazione letteraria del più brillante dei suoi figli avrebbe idealmente realizzato.
Dopo l’esordio con Il massaggiatore mistico (1957) furono pubblicati Elezioni a Elvira (1958) e la raccolta di racconti Miguel Street (1959), fino al più famoso Una casa per Mr Biswas (1961), romanzo ambientato tra le capanne di fango di Trinidad e chiaramente ispirato alla storia del padre. Apprezzato, tra gli altri, da Elio Vittorini, fu il libro che dette un primo, importante impulso alla fortuna internazionale di Naipaul. Da un viaggio in India – la terra dei suoi progenitori, visitata per la prima volta all’età di trent’anni – nacque poi Un’area di tenebra (1964), mentre In uno Stato libero (1971) conquistò il prestigioso Booker Prize, che ne decretò la definitiva affermazione nel mondo delle lettere inglesi. Seguirono ancora opere celebri e discusse come Alla curva del fiume (1979), Tra i credenti (1981), I coccodrilli di Yamoussoukro (1984), L’enigma dell’arrivo (1987) e Una via nel mondo (1994),  nelle quali il tema caldo dell’identità razziale e culturale potè fondersi con una nuova visione della letteratura, capace di annullare ogni differenza tra narrativa, saggistica e travelougue. Il Nobel giunse nel 2001, per «avere unito narrazione percettiva e osservazione incorruttibile in opere che ci costringono a vedere la presenza di storie soppresse». Nella motivazione dell’Accademia di Svezia, Naipaul venne definito «un moderno philosophe», prosecutore di quella «tradizione che ebbe origine con  Lettere persiane e Candido»; e fu accostato ancora una volta a Jospeh Conrad, quale «analista del destino degli Imperi in senso morale: ciò che essi fanno agli esseri umani». «La sua autorità di narratore» aveva trovato il proprio fondamento, infine, «nella memoria di ciò che altri hanno dimenticato, la storia dei vinti».
Con Nadira, alla cerimonia di consegna del Nobel
Ma la stessa vita di V. S. Naipaul, raccontata con rara crudezza e senza censure nel libro The World Is What It Is (2008) di Patrick French, finisce con l’essere più coinvolgente di ogni suo romanzo, più illuminante di ogni suo saggio. È infatti con l’ambizione di presentare un’immagine obiettiva dello «scrittore» che Sir Vidia rivela al suo biografo sconcertanti episodi di vita coniugale, tutti ai danni della prima moglie, Patricia Hale. Pat, la donna che restò al suo fianco per più di quarant’anni e che gli fu anche preziosa collaboratrice letteraria, non dovette sopportare solo i furori di un uomo dal carattere notoriamente difficile. Era già malata di cancro quando, nel maggio 1994, si trovò a leggere un’intervista che il marito aveva appena rilasciato al New Yorker, e nella quale confessava la sua irresistibile attrazione per le prostitute. Raccontava anche di avere una perfetta intesa sessuale con un’amante argentina, Margaret Gooding: relazione assai diversa, disse, da quella che lo legava alla moglie, dei cui consigli sul piano lavorativo continuava però a fare tesoro… «Ne ha sofferto», avrebbe poi ammesso Naipaul. «Si potrebbe dire che l’ho uccisa. È un po’ così che ritengo siano andate le cose». La salute di Pat peggiorò, infatti. E l’insensibilità di Sir Vidia scomparve soltanto nelle ultime ore di vita della moglie, quando si fermò al suo capezzale per leggerle alcune toccanti pagine di Dickens. Lady Naipaul sprofondò nel coma e morì il mattino seguente. Ma già il giorno della sua cremazione, Sir Vidia si preparava ad accogliere a casa un’avvenente giornalista pakistana, conosciuta durante uno dei suoi ultimi viaggi, e chiedeva alla governante di comperare le olive a lei tanto gradite. Appena due mesi dopo, Nadira Alvi sarebbe diventata la sua seconda moglie.
«Si può certo leggere e amare un libro indipendentemente dalla storia dell’autore», ha scritto Bernardo Valli su Repubblica dopo la pubblicazione del libro di French. «Ma conoscere la sua intenzione poetica e le sue qualità personali aiuta anche il lettore semplice, senza l’ambizione di essere un critico, a entrare più in profondità in quel che legge. A sentire quel che c’è dietro. A stabilire un rapporto, quasi carnale, con il romanzo. Nei libri di V. S. Naipaul si avvertono le ferite inflittegli dalla vita. Le vedi sanguinare».
Milano, 6 luglio 2012 
Non stupiscono allora il crudo realismo dei suoi scritti, la sua prosa tagliente, asciutta, mai piacevole. E nemmeno lo scetticismo con cui ha sempre guardato alla sorte dei popoli del Terzo Mondo, incapaci di liberarsi dell’eredità coloniale e condannati ad imitare gli antichi padroni. Per snobismo, o per il gusto della provocazione, non ha neppure esitato a manifestare una certa insofferenza di fronte alle velleità intellettuali del genere femminile: lo scrivere delle donne sarebbe, a suo avviso, «molto diverso», e rifletterebbe il loro «sentimentalismo», la loro «visione ristretta del mondo». In Fedeli a oltranza (1998) aveva invece osservato gli effetti dell’«imperialismo islamico» sulle popolazioni convertite di Indonesia, Iran, Pakistan e Malesia, ravvisando nell’Islam il chiaro proposito, mai esistito in altri imperi, di cancellare dai popoli sottomessi ogni traccia delle tradizioni preesistenti. Edward Said, oltre a definire il libro una «catastrofe intellettuale», accusò Naipaul di avere offerto un consapevole sostegno alle «mitologie coloniali sui neri e sugli wogs» (i latini in senso spregiativo) in altre opere come The Middle Passage (1962) e Un’area di tenebra (1964). E Salman Rushdie, nel denunciare la sua vicinanza a formazioni nazionaliste indù quali RSS, WHP e BJP, lo definì «un compagno di viaggio del fascismo» che «disonora il premio Nobel».
Lui ha sempre cercato di «non essere allineato a nulla», di sfuggire ad ogni visione politico-ideologica per concentrarsi su un’osservazione il più possibile fedele alla realtà. I suoi scritti, lontani anni luce da qull’immagine caricaturale che le tante schermaglie giornalistiche hanno contribuito a diffondere, ci mostrano un civilissimo conservatore britannico, dalla braminica superbia. Uno scrittore che non ha mai smesso di inseguire l’idea di una letteratura distaccata e scevra di preconcetti, non meno illusoria delle illusioni che vorrebbe smascherare. Ma nell’infliggere questa pratica innanzitutto a se stesso, nel non lesinare nemmeno gli aspetti più scabrosi della propria esistenza, V. S. Naipaul riesce nell’impresa di riscattare la sua smodata ambizione, restituendo dignità ad un talento di irripetibile fulgore.

Manuel Lambertini

domenica 5 agosto 2012

Cinquant'anni senza Marilyn

A Truman Capote aveva confidato la volontà di essere cremata, e il desiderio di vedere le proprie ceneri disperse nell’oceano. E proprio quel geniale, autodistruttivo Capote, in Musica per camaleonti, l’avrebbe poi descritta come «una bellissima bambina», lasciando inviolate tutte le emozioni con cui la diva più famosa del mondo aveva conquistato anche gli spettatori meno impressionabili.
Ma non sono le onde del mare a custodire i resti di Norma Jeane Baker, e a cullarli nel loro eterno infrangersi contro le scogliere della West Coast. Marilyn Monroe – questo il nome con cui si fece conoscere, a partire dalla metà degli anni ’40 – riposa al Westwood Village Memorial Park Cemetery, in quella Los Angeles che il 1° giugno 1926 le aveva dato i natali. La sua vita si spegneva la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, dopo un’overdose di barbiturici che fu subito liquidata come «probabile suicidio».
Con questa tragica uscita di scena, all’età di trentasei anni, il mito di Marilyn veniva consegnato ad un’immortalità che forse era già inscritta nel suo triste destino. Lei che fin da piccola, con occhi sognanti, osservava le impronte dei divi di Hollywood stampate sul cemento dinanzi al Chinese Theatre. Lei che, orfana di padre e mai amata dalla madre, raccontava agli amichetti di essere figlia di Clark Gable, senza sapere che col Rhett Butler di Via col vento avrebbe condiviso il set dell'ultimo film, Gli spostati (1961).
Nella sua folgorante carriera, tanti successi e tante sofferenze. Numerosi amanti, anche celebri, e tre matrimoni – con James Dougherty (1942-1946), Joe Di Maggio (1954), Arthur Miller (1956-1961) –, quattro se si conta anche quello celebrato quasi per gioco a Tijuana, nell’ottobre 1952, con l’amico Robert Slatzer. Una trentina le pellicole a cui prese parte, per la regia dei più importanti cineasti dell’epoca: da John Huston a Billy Wilder, da Howard Hawks a George Cukor, passando per Jean Negulesco, Henry Hathaway, Laurence Olivier. Il ruolo di «Zucchero» nel capolavoro di Wilder, A qualcuno piace caldo (1959), le valse un Golden Globe. E titoli come Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde, Come sposare un milionario (1953), Quando la moglie è in vacanza (1955), Il principe e la ballerina (1957) segnarono la sua incontenibile, definitiva irruzione nel firmamento delle stelle di Hollywood.
Non fu infatti la prematura scomparsa a trasformarla in leggenda. Essa creò, semmai, una seconda leggenda, nella quale cominciarono ad aggirarsi – come comparse, ma niente di più – tutti i protagonisti dell’America di allora: John e Robert Kennedy, la mafia, la Cia, l’Fbi con il suo potente direttore J. Edgar Hoover, gli intellettuali di sinistra e dalle pericolose simpatie comuniste… Una leggenda dentro la leggenda, alimentata dai più inquietanti sospetti circa la fine di un’attrice instabile, che poteva essere entrata in possesso di informazioni imbarazzanti.
Marilyn ritratta da Bert Stern (1962)
Perchè Marilyn Monroe era molto più che un’attrice fra le tante, come ebbe a scrivere il grande Norman Mailer nella «biografia romanzata» che dedicò alla diva nel 1973: «Poteva anche avere la voce modesta e la carne morbida della ragazza della porta accanto, ma sullo schermo era più grande che nella vita. Già agli inizi degli anni Cinquanta, l’era di Eisenhower, Marilyn prometteva che sarebbe venuto un tempo in cui il sesso sarebbe stato facile, dolce e democratico per tutti. Il suo stomaco, libero da corpetti o guaine, sporgeva in un pieno ventre di donna, terribilmente inelegante, un’affermazione di un ventre frequentemente inumidito di seme – quel ventre che non avrebbe mai avuto un bambino – e i suoi seni puntavano boccioli e germogli di carne sulla faccia di molti sudati patiti del cinema. Era una cornucopia, dispensatrice di sogni mielati». Un abbagliante sogno erotico collettivo, dunque, inconsapevole anticipazione di una rivoluzione dei costumi che si sarebbe realizzata solo dopo la sua morte: «Al suo apogeo, l’eco della sua piccola e perfetta creazione raggiunse l’orizzonte della nostra mente. Noi la udimmo parlare con quella flebile voce tintinnante così simile a un campanellino, ed esso suonò dopo la sua morte per tutto quel decennio degli anni Sessanta che lei aveva contribuito a creare, attraverso le sue esaltazioni, i suoi spettri e il suo centro magico. [...] Nella sua ambizione, così faustiana, e nella sua ignoranza delle dimensioni della cultura, nella sua liberazione e nei suoi desideri tirannici, nelle sue nobili aspirazioni democratiche intimamente contraddette dal sempre più ampio stagno del suo narcisismo (dove ogni amico o schiavo doveva bagnarsi), possiamo vedere lo specchio ingrandito di noi stessi, la nostra generazione esagerata e ora decisamente sconfitta; sì, essa condusse una ricognizione attraverso gli anni Cinquanta, e alla sua morte ci lasciò un messaggio: “Dateci dentro, ragazzi!”. Ora è lo spettro degli anni Sessanta».
Ebbene, è trascorso mezzo secolo da quella notte d’agosto in cui Marilyn lasciò la vita. A salutare questo anniversario, insieme ad un film con un’acclamatissima Michelle Williams, si sono ammassate decine e decine di pubblicazioni – tra ristampe e opere inedite – su quella che è ancora celebrata come «la donna più bella del mondo». È stata finalmente tradotta in italiano l’opera di Mailer appena citata, Marilyn (Dalai). E oltre al libro da cui è stato tratto il recente film, La mia settimana con Marilyn (Mondadori) di Colin Clark, è d’obbligo segnalare il romanzo noir di J. I. Baker, Il diario segreto di Marilyn (Rizzoli), Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe (Rizzoli) di Keith Badman e La donna più bella del mondo (Aliberti) di Andrea Carlo Cappi, nonché i memoir fotografici di Lawrence Schiller, Andrè De Dienes e Bert Stern. Quest’ultimo, in particolare, ebbe in sorte di immortalarla solo sei settimane prima della scomparsa, in un servizio fotografico entrato nella storia. Vi è ritratta una fragile e bellissima bambina, assopitasi cinquant’anni fa. Una stella che non si spegne.

Manuel Lambertini