lunedì 11 agosto 2014

Dio salvi i senatori a vita!

Da sinistra: Renzo Piano, Elena Cattaneo,
 il Presidente del Senato Pietro Grasso e Carlo Rubbia.
Palazzo Madama, Roma, 4 settembre 2013.
Della riforma costituzionale approvata in prima lettura al Senato – che al pari di tutti gli sgangherati pacchetti di riforme «istituzionali» o «strutturali» visti finora avrà come principale funzione quella di riempire le scalette dei talk show per i prossimi quindici anni – all’opinione pubblica italiana non potrebbe importare di meno. Lo ha scritto Scalfari su Repubblica, lo si sente dire in ogni bar di ogni provincia d’Italia. E riguardo allo stesso disegno di legge, non c’è stato quasi nessuno che abbia avuto lo slancio di criticare l’abolizione dell’istituto dei senatori a vita. Persino sul sito web del Fatto Quotidiano si poteva leggere lo stucchevole tweet: «Riforme, aboliti i senatori a vita. Finalmente una misura che allevia l’esistenza a milioni di disoccupati». Insomma: ci sono tutti gli elementi perché sia io a occuparmi dell’argomento.
Se la riforma del Senato dovesse uscire immutata dal lungo iter parlamentare che la attende, i cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica resterebbero in carica sette anni. Una scelta deliberata il 4 agosto, lo stesso giorno in cui si è votato il mantenimento dell’immunità parlamentare: «Per rispetto ai nostri padri costituenti non possiamo distruggere qualcosa che è stato immaginato come corollario della nostra Costituzione», ha detto il capogruppo del Pd Luigi Zanda… E con ragione! Benché i maligni possano covare il sospetto che la sua deferenza fosse rivolta più a Berlusconi che ai «padri costituenti», non è dato vedere alcun valido motivo per riservare ai 100 membri del futuro Senato un trattamento di sfavore rispetto ai ben 630 deputati che dell’immunità continuerebbero a beneficiare!
Ora, anche alla luce della spiccata sensibilità istituzionale del senatore Zanda, sarebbe forse scandaloso voler sapere come mai ai senatori a vita sia toccata una sorte diversa? Credo sia giusto chiederselo, anche rischiando di porsi al di fuori di un comune sentire che li irrideva ormai da anni. Stiamo parlando di figure a cui sono molto affezionato, lo ammetto. Addirittura resto fermamente convinto che nessun altro istituto dell’Italia repubblicana sia stato all’altezza delle proprie funzioni quanto quello dei senatori a vita, anche nei casi di persone nominate per chiare ragioni di opportunità politica.
Da sinistra: Oscar Luigi Scalfaro, Giorgio Napolitano,
Rita Levi-Montalcini, Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Rubbia.
Palazzo del Quirinale, Roma, 20 aprile 2009.
La sola voce levatasi in loro difesa, per quanto ne so, è stata quella di Elena Cattaneo, che peraltro si è limitata a sottolineare come «una buona parte della politica voglia effettivamente fare a meno di molte competenze per decidere in autonomia». In autonomia dai «parrucconi», certo, ma anche dal resto della cittadinanza, e col beffardo pretesto di «tagliare le spese». Anzi, se c’è un elemento di coerenza nelle ultime riforme istituzionali è proprio la sistematica riduzione degli spazi della democrazia e della rappresentanza. Quali benefici potranno mai scaturire da un Senato non elettivo, composto di persone nominate dai sindaci e dai consiglieri regionali? Una situazione surreale, ridicola. Soprattutto alla luce del consenso di cui le stesse riforme sembrano godere in Parlamento e nel Paese, e dell’insofferenza con cui sono guardati i «dissidenti».
Ecco, l’abolizione dei senatori a vita non è che un piccolo segnale di questa deriva “barbarica”, nel senso neutro della parola: l’ostentata ignoranza del linguaggio della politica, il dilettantesco disprezzo per i suoi meccanismi, per le sue incastellature formali, per i suoi simboli. Davvero si può gioire di fronte all’abolizione di un istituto che dal 1948 ad oggi ha annoverato tra i propri dignitari personalità come don Luigi Sturzo, Ferruccio Parri, Eugenio Montale, Pietro Nenni, Eduardo De Filippo, Norberto Bobbio, Mario Luzi, Rita Levi-Montalcini, Giulio Andreotti, Claudio Abbado? Se non è barbarie questa… Eppure sarebbe ingiusto addebitare ogni responsabilità al governo Renzi: i Cinquestelle avevano perfino proposto l’abolizione totale del Senato, con l'ovvia conseguenza che anche le leggi di revisione costituzionale avrebbero dovuto essere approvate dalla sola Camera!
Non c’è dubbio: i protagonisti della nuova politica italiana, tutti imbevuti di un berlusconismo peggiore dell’originale, stanno liquidando una storia più grande di loro. Con quale criterio logico lo stiano facendo, poi, rimane un mistero. Perché assegnare al Capo dello Stato la prerogativa di nominare cinque senatori «per meriti illustri» precisando poi che gli effetti di tali meriti si estingueranno dopo sette anni, senza possibilità di un secondo mandato? La mia è un’obiezione più di forma che di merito, una riserva quasi estetica: che senso ha tutto questo?
Al di là dell’irrisoria riduzione dei costi prevista dall’operazione, l’unico valido motivo che potrebbe animarla sarebbe l’intima certezza che non esistano né esisteranno più eccellenze pari a quelle del passato, insieme a un’incrollabile convinzione nell’idea che non possano esservi meriti tanto alti da implicare l’assegnazione di una qualsiasi carica pubblica «a vita».
Ebbene, io intendo combattere l’una e l’altra idea: per tenere viva la gratitudine e il senso di meraviglia nei confronti di chi, nel presente, illustra «la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Chi meglio potrebbe occupare gli scranni di Palazzo Madama tra Dario Fo, Umberto Eco, il già citato Eugenio Scalfari, Stefano Rodotà, Pietro Citati, Giorgio Albertazzi, Marco Pannella, Gino Strada, Francesco Guccini, Ennio Morricone, Carla Fracci, Renzo Arbore? Quanti nomi dovremmo ancora aggiungere!
Lo scranno di Giulio Andreotti
Alcuni di loro onorerebbero l’investitura regalandoci grandi interventi e indimenticabili furori, altri vi rinuncerebbero il giorno stesso della nomina, come già fecero Arturo Toscanini e Indro Montanelli. Quest’ultimo, in particolare, era convinto che il potere andasse tenuto «a debita distanza»: «In questo mondo in cui tutti si scannano per ficcarsi in, io sono nato out, e out devo restare», scrisse al presidente Cossiga. È il caso di dire che sbagliò, se si considera quello che avrebbe potuto dare. Ed era anche clamorosamente sbagliata la famosa battuta sul berlusconismo in cui affermava: «Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L’immunità che si ottiene col vaccino». L’ultimo decennio gli ha dato torto, e oggi Berlusconi è più in che mai: detta l’agenda politica al governo e alle opposizioni, è entrato a far parte del loro stesso codice genetico. Solo il futuro dirà se Montanelli avesse invece ragione quando emetteva un altro lapidario verdetto, tremendamente rinunciatario ma mai smentito dai fatti: «In Italia si può cambiare soltanto la Costituzione. Il resto rimane com’è».