venerdì 23 dicembre 2011

La «ragazzina mostro»

Monika Simonovic Ilic non dimostra neanche oggi i suoi 36 anni. Le fotografie che ne documentano l’arresto mostrano, tra due agenti di polizia, un’esile donna bionda infastidita dalla luce del sole. Immagini che rimandano ad un’altra immagine, la foto in bianco e nero di una ragazza curata e dallo sguardo impassibile, e finiscono col richiamare alla memoria – più per una suggestione vagamente sensazionalistica che per un’effettiva somiglianza fisica – la criminale nazista Ilse Koch, nota come «la cagna di Buchenwald». Moglie di Karl Otto Koch, comandante del campo di concentramento di Buchenwald dal 1937 al 1941, è ricordata per le indicibili atrocità che infliggeva ai prigionieri del lager. Processata a Norimberga e condannata all’ergastolo, si impiccò in cella nel 1967.
Anche Monika Simonovic, la «ragazzina mostro», era sentimentalmente legata al comandante di un lager: a diciotto anni aveva sposato Goran Jelisić, l’«Adolf serbo», tenente dell’esercito serbo-bosniaco in servizio nel campo di Luka. «Sembrava una bambina, ma tutto quello che aveva di femminile era il nome», ha detto di lei il sopravvissuto Dzafer Deronjic. «Lei non era una donna, era un mostro». Tra le peggiori efferatezze attribuitegli, l’abitudine di cavare gli occhi ai prigionieri con un uncino.
Nel campo di Luka, a Brcko, furono sterminati centinaia di musulmani bosniaci e croati. Arrestato nel 1998, Jelisić venne condannato dal Tribunale dell’Aja a 40 anni di carcere per crimini contro l’umanità e per violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra. Sta scontando la pena in Italia, e pochi anni fa è convolato a nozze con l’avvocatessa Patrizia Trapella. Una vita familiare violenta, quella di Monika. La madre, Vera Simonovic, gestiva la casa di appuntamenti “Westfalia”, dove venivano sistematicamente stuprate donne musulmane. E il fratello, Konstantin Simonovic, ha anch’egli subito una condanna a sei anni di reclusione per aver partecipato ai massacri di Luka.
È stata trovata a Prijedor, a nord della Bosnia, dove si nascondeva sotto falso nome dopo aver vissuto per anni nella città serba di Novi Sad. Sui media italiani, la notizia della sua cattura non ha avuto il giusto risalto. Altrimenti non troverebbe spiegazione l’inaspettato silenzio dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio, che solo pochi mesi fa esaltava le gesta del generale Ratko Mladić: «un patriota» che ha «interpretato con grande coraggio e determinazione quel senso di responsabilità che i serbi hanno avuto nel bloccare la penetrazione islamica in Europa»… Farneticazioni aberranti, inserite nel solco delle 4.000 fosse comuni disseminate in ogni parte della Bosnia, e avallate dall’oblio a cui l’opininone pubblica mondiale ha condannato quella terra martoriata.

Manuel Lambertini

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