mercoledì 30 aprile 2014

Il crimine dell’Occidente

La presente riflessione avrebbe potuto intitolarsi Il crimine della Germania, se la campagna elettorale per le imminenti elezioni europee, tra puerili proclami anti-tedeschi e reazioni perbeniste altrettanto patetiche, non avesse vanificato la possibilità di affrontare serenamente un tema così delicato; e se lo scopo principale di tale riflessione non fosse stato quello di ricordare, a un anno esatto dalla scomparsa, la grande intellettuale francese Viviane Forrester, autrice di un memorabile pamphlet intitolato, appunto, Il crimine dell’Occidente (Ponte alle Grazie, 2005).
Hamas e al-Fatah annunciano il governo di unità nazionale.
Ramallah, 23 aprile 2014.
Partiamo da alcuni semplici fatti di politica internazionale. Primo fatto: la riconciliazione di al-Fatah e Hamas nei Territori palestinesi. I due grandi partiti politici della Palestina occupata –  laico e nazionalista l’uno, islamista l’altro –  entrati in un conflitto fratricida a partire dal 2007, hanno annunciato la volontà di dare vita ad un governo di unità nazionale. Nuove elezioni dovrebbero essere convocate entro i prossimi sei mesi. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, dopo il fallimento dell’ennesima mediazione americana, sembra aver voluto anteporre l’unità del proprio popolo ad ogni altro obiettivo. Attirando a sé un maggiore consenso interno. Ma anche le ire di Israele e degli Stati Uniti. Senza appello la reazione del governo israeliano, nelle parole del primo ministro Benyamin Netanyahu: «L’accordo Olp-Hamas uccide la pace. È un enorme passo indietro. Speravamo che Abu Mazen avesse fatto sua l’idea di uno Stato ebraico e di due Stati-nazione, uno palestinese e l’altro ebraico, e invece ha concluso un patto con Hamas, organizzazione terroristica che vuole distruggerci». Gli ha fatto eco il Dipartimento di Stato americano: «Siamo delusi dall'annuncio di oggi. Questo sviluppo può danneggiare seriamente gli sforzi per la pace». Timide aperture sono invece arrivate dall’Unione Europea. Inascoltata la precisazione finale di Abu Mazen, giunta nella serata del 23 aprile: «L’accordo di oggi [con Hamas] non è in contraddizione con i colloqui di pace con Israele, né con la soluzione dei “due Stati”».
Il presidente dell'Anp Abu Mazen con Ismail Haniyeh di Hamas.
Hamas governa la Striscia di Gaza dal 2007, quando ne prese militarmente possesso dopo essere stata esclusa dal governo dell'Anp, pur avendo di fatto vinto le elezioni parlamentari contro al-Fatah. Il prezzo fu una sanguinosa guerra civile tra fazioni palestinesi che privò la causa nazionale di una effettiva rappresentanza politica: da allora la Cisgiordania è governata da Abu Mazen e da al-Fatah, Gaza si trova sotto il controllo di Hamas e in una condizione di isolamento internazionale.
Ciò che Usa e Israele stanno chiedendo al presidente palestinese Abu Mazen, in breve, è di mantenere uno status quo che vede la Palestina divisa e assoggettata alle esigenze dello Stato ebraico. Una resa senza condizioni. Nulla di diverso da ciò a cui i palestinesi erano stati abituati sin dalla metà degli anni ’90: è lo stesso stato di cose che le offerte israeliane a Camp David, nel luglio 2000, avevano tentato di imporre come base di un accordo definitivo, e che al termine della Seconda Intifada ha finito per consolidarsi con modalità ancor più drammatiche. Una posizione che oggi si colora di tinte tragicomiche. Perché dopo aver lungamente sollecitato i palestinesi a rappresentare una sola ipotesi nazionale, e non due entità territoriali divise e ostili, israeliani e americani vorrebbero costringere Abu Mazen a scegliere tra la pace con Hamas e la pace con Israele. L’Autorità nazionale palestinese, ai loro occhi, non ha ormai altra funzione all'infuori di quella di garantire la sicurezza di Israele. Costi quello che costi. Inclusa, e tutt’altro che deplorata, la prosecuzione della guerra civile con Hamas.
Il segretario di Sato Usa John Kerry tra Shimon Peres e Abu Mazen
al World Economic Forum sul Mar Morto, Giordania, 26 maggio 2013.
Secondo fatto: il 27 aprile, mentre Israele si apprestava a celebrare il giorno del ricordo dell’Olocausto, Abu Mazen ha rivolto un «messaggio speciale al popolo ebraico», definendo la Shoah «il più odioso crimine contro l’umanità avvenuto nell'era moderna». Risposta di Netanyahu: «Anziché tentare di compiacere la comunità internazionale, Abu Mazen farebbe meglio a rompere i rapporti con Hamas»… Di tenore opposto, ma non meno semplicistici, i commenti apparsi sulla stampa occidentale, a partire dal comunicato dell'Associated Press con cui è stata diffusa la notizia: le dichiarazioni del presidente palestinese, secondo l'Ap, «segnano una rara ammissione da parte di un leader arabo delle sofferenze del popolo ebraico durante il genocidio nazista». Su La Stampa Maurizio Molinari, per fare solo un esempio, ha scritto: «È la prima volta che un leader palestinese compie questo passo, rompendo un tabù nel mondo arabo». La prima volta? Anche senza ricordare la visita di Yasser Arafat alla casa di Anna Frank, nel marzo 1998, ogni commentatore dovrebbe avere la consapevolezza che dichiarazioni come quelle di Abu Mazen erano pressoché ordinarie tra i leader arabi del secolo scorso. Il negazionismo arabo è un fenomeno relativamente recente, la cui ascesa ha coinciso in buona sostanza con il riflusso fondamentalista degli ultimi decenni. E se l’insistenza con cui si condanna l’antisemitismo altrui non fosse che un tentativo, anche inconsapevole, di espiare la colpa di un crimine tutto occidentale come fu la Shoah?
È qui che Viviane Forrester ci viene in aiuto. Ebrea nata a Parigi nel 1925, fu costretta alla fuga dalle persecuzioni razziali degli anni ’30 e ’40: «L’orrore che mi prendeva di mira era europeo», avrebbe ricordato in seguito. Scrittrice, saggista, critica letteraria. Autrice di saggi di grande sucesso come L’orrore economico (1996), contro la globalizzazione neoliberista, e Il crimine dell’Occidente (2004), era considerata «la Fallaci di sinistra». Pochi meglio di lei hanno saputo descrivere l’imbarazzante, colpevole posizione del mondo occidentale rispetto al conflitto arabo-israeliano. È scomparsa il 30 aprile 2013.
Viviane Forrester (Parigi, 29 settembre 1925 - Parigi, 30 aprile 2013)
Ne Il crimine dell’Occidente, pubblicato in Francia da Fayard dieci anni fa, la Forrester scriveva: «Israeliani e palestinesi avrebbero potuto e potrebbero ancora distinguere la loro specificità comune in seno allo spazio internazionale e al suo clima paternalistico, tacitamente sprezzante, sempre direttivo, e riconoscere di essere entrambi considerati (con una certa complice preferenza per Israele) come degli ex subalterni promossi alla parità senza convinzione, per generosità, per buona creanza democratica; e i loro tragici conflitti sono visti talvolta con inquietudine, sempre con una degnazione piena di rimprovero, ma soprattutto con la preoccupazione di mantenere relegati altrove, così camuffati, i sommovimenti generati dall'inferno creato per gli ebrei in Europa che avevano determinato e che, occultamente, determinavano ancora il dramma delle due nazioni. […] Bisogna sottolineare che oggi questo Occidente non è evidentemente più quello della seconda guerra mondiale. L’Europa attuale, in particolare, non ha più nulla a che vedere con le sue ore maledette.  […] Per Israele e per la Palestina è ora di togliersi il marchio di quel passato di cui gli uni furono le prede e al quale gli altri furono estranei. Di riconoscere ciascuno la propria indipendenza di fatto e di ammettere di essere entrambi più vicini l’uno all'altro di quanto lo siano certe potenze che pretendono di ravvicinarli. Di non limitarsi più alle scene mediatiche e grandiose in cui le telecamere, ma soprattutto i grandi presidenti americani, estasiati all'idea di un lusinghiero ingresso nei libri di scuola, l’uno dopo l’altro, attraverso gli anni, puntano sui dirigenti palestinesi e israeliani riuniti presso di loro sguardi commossi, lucidi, di mamme trionfanti all'idea di aver finalmente calmato i piccoli o stizzite per non essere riuscite a far intendere ragione a quei ragazzacci. […] Oltre alle evidenti ragioni di politica internazionale, se le grandi potenze sono rimaste così legate a Israele e alla Palestina è proprio perché in Medio Oriente si svolgono ancora, a distanza, da decenni, i prolungamenti della loro peggior storia personale, da cui non riuscivano e non riescono a distaccarsi e le cui prove toccano ancora a coloro che ne furono i martiri e ad altri che ne sono innocenti. Tali potenze speravano inconsciamente di aver trasferito per sempre nel presente di quelle regioni straniere le tracce e le conseguenze del passato funebre che ossessionava le memorie e alterava le coscienze. Si dà il caso che il futuro tragico d’Israele e della Palestina, imprevisto nelle proporzioni che sta assumendo, abbia fatto molto per camuffarlo. Interporvi i propri buoni uffici, sostenervi i ruoli virtuosi di guide e arbitri garantisce le amnistie dell’oblio, assume valore di assoluzione e ristabilisce l’autorità morale di tali potenze, liberandole dai turbini di un passato ricusato».

Manuel Lambertini

giovedì 17 aprile 2014

Gabo

Gabriel Garcìa Márquez (Aracataca, 6 marzo 1927 - Città del Messico, 17 aprile 2014)
Nei maggiori siti web di informazione la notizia della scomparsa di Gabriel Garcìa Márquez ha surclassato un’altra notizia, di tutt’altro tenore: la scoperta, a 500 anni luce dalla nostra galassia, di un pianeta molto simile alla Terra, che presenterebbe tutte le condizioni necessarie alla presenza di acqua allo stato liquido.
La morte di Gabo ha interrotto queste fantasticherie. È stato come se la dipartita del più grande scrittore contemporaneo, il padre del realismo magico, ci avesse riportato coi piedi per terra, ricordandoci di quante meraviglie sia ancora capace questo mondo, e di quanta generosa nobiltà possano brillare le sue anime migliori. La sua ossessione, diceva, era la solitudine dell'uomo; ha dato il meglio del proprio genio nel raccontare la solitudine del potere, quell'ebbrezza destinata a «decomporsi in raffiche di disagio» che nelle sue narrazioni viene sempre ricondotta ad una dimensione eminentemente umana.

Da Cent’anni di solitudine (1967): «Allora entrarono nella stanza di José Arcadio Buendía, lo scossero con tutte le loro forze, gli gridarono nell’orecchio, gli misero uno specchio davanti alle narici, ma non riuscirono a svegliarlo. Poco dopo, quando il falegname gli prendeva le misure per la bara, videro attraverso la finestra che stava cadendo una pioggerella di minuscoli fiori gialli. Caddero per tutta la notte sul villaggio in una tormenta silenziosa, e coprirono i tetti e ostruirono le porte, e soffocarono gli animali che dormivano all’aperto. Tanti fiori caddero dal cielo, che al mattino le strade erano tappezzate di una coltre compatta, e dovettero sgombrarle con pale e rastrelli perché potesse passare il funerale».

La pioggia di fiori gialli, da questa parte dell'oceano, non è ancora arrivata. Ma per non smettere di guardare il cielo, continueremo ad aspettarla.

Manuel Lambertini