venerdì 13 dicembre 2013

Sempre Compagno, Jack Hirschman

Jack Hirschman (New York, 13 dicembre 1933)





Io non faccio schiavi
e la mia schiavitù è un respiro

sono una cosa del nulla
sono meno che, e più

io con zero
dieci
E in tale felicità
resisto a ogni cosa tranne
che al tuo saccheggiarmi
il tuo arrivare e frugare
la mia risata di stracci
il mio caos d’immondizia
sono un bidone della spazzatura
sono spazzaturaincantesimo
che trema e si contorce
sono la colla di un dio morto
spalmata su tutto
il tuo corpo
dove i manifesti
per la manifestazione di domani
sono incollati
e i graffiti
sono scarabocchiati
con sangue e sperma.





Jack Hirschman è fatto così. Ogni sua poesia – come questa, Io non faccio schiavi (1997) – nasce da un irriducibile bisogno di cambiare il mondo. Ed oggi che compie ottant’anni, mi torna alla mente ciò che disse il suo amico Alberto Masala durante un incontro pubblico di alcuni anni fa: dopo i Cantos di Ezra Pound, se non ci fosse stato Jack Hirschman con i suoi Arcani il XX secolo si sarebbe chiuso con un pericoloso sbilanciamento a favore delle destre.
In Volevo che voi lo sapeste (Multimedia edizioni, 2004), una selezione di poesie scritte tra il 1952 e il 2004, l’universo di Hirschman si rivela attraverso un susseguirsi di immagini forti, a volte gioiose e a volte dolenti, come la vita. Dapprima un linguaggio sperimentale, tra Joyce e la Beat Generation. Poi gli omaggi a tanti amici, vicini e lontani. Quindi la passione per la cabala. E la Rivoluzione. L’indignazione che si fa poesia. La scrittura come affronto allo squallore della società dei consumi, come semplice e sfrontata ricerca dell’immateriale. I muri del Bronx, bucherellati dai proiettili dei gangster. Sigourney Weaver, uccisa e gettata in un fosso dai nazisti. Una madre che tiene per mano suo figlio, e che con lui attraversa la vita fino alla morte, sfidando lo scherno della folla con il suo amore. E il Washington Square Garden, dove un uomo sdraiato sull’erba piscia in aria «formando un cerchio dorato». Con lui, tantissimi altri uomini, intenti a rovistare nei bidoni dell’immondizia, senza casa e senza cibo, ma ancora ricchi di forza poetica.
Basta guardarlo, questo brigante in bretelle, con i capelli e i baffi grigi, per capire dove trovi gli ultimi residui di umanità. Nei sobborghi della Grande Mela e di San Francisco, Hirschman è un emarginato tra gli emarginati. Poeta in una società profittatrice. Comunista nella pancia del capitalismo. Ma sognatore incontrollabile. Nei suoi versi, il ladro continua a rapinare le banche gridando: «Buon compleanno, Stalin!». Tina Modotti rivive nella lotta. Fratelli sconosciuti ne approvano le idee rivoluzionarie, toccando la sensibilità del suo animo con imprevedibili gesti di solidarietà. E la sua palla nera continua a scagliarsi contro finestre e muri, mentre la calce sgretolata riesuma una vecchia scritta: SOLLEVATI, NUOVA CLASSE, SOLLEVATI!



Manuel Lambertini

mercoledì 11 dicembre 2013

Il maestro di Porto

Voci sempre più insistenti insinuano che abbia stretto un patto col Diavolo, per prolungare oltre i limiti dell’umano una vita incredibile e prodigiosa. Accade qualcosa di simile in uno dei suoi film più famosi, I misteri del convento (1995), dove l’equilibrio di una coppia di coniugi giunta nel monastero di Arrabida viene infranto dalla presenza di un mefistofelico custode (Luís Miguel Cintra), che seduce lei (Catherine Deneuve) e offre irresistibili tentazioni a lui (John Malkovich).
A Manoel de Oliveira, invece, la tentazione di riporre la macchina da presa non è mai venuta: «Mi chiedono perché faccio cinema. Non lo so: è come chiedermi perché respiro». Oggi compie 105 anni, ed è il regista più longevo e prolifico del mondo. «Questo de Oliveira, non vedo l’ora che muoia!», diceva scherzosamente Monicelli, lamentando l’oscuramento che il collega portoghese infliggeva a chiunque fosse un po’ meno vecchio di lui.
Manoel de Oliveira
(Porto, 11 dicembre 1908)
Nato nel 1908 in una famiglia agiata di Porto, studiò presso un collegio gesuita a La Guardia, in Galizia. Nella sua prima vita condivise con il fratello maggiore Casimiro una forte passione sportiva, distinguendosi nel salto con l’asta, nel ballo e soprattutto nelle corse automobilistiche. Accantonata l’idea di intraprendere la vita circense, approdò al cinema all'età di vent'anni, nel 1928, come interprete di un piccolo ruolo secondario in Fátima milagrosa, del regista italiano Rino Lupo. In seguito recitò anche in uno dei primissimi film sonori portoghesi, A Cancao de Lisboa (1933) di José Cottinelli Telmo. La visione di Berlino - Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttman ispirò il suo primo documentario da regista, Douro, Faina Fluvial (1933), accolto negativamente dal pubblico ma elogiato da una parte della critica e da Luigi Pirandello. Tra le sue influenze cinematografiche, Chaplin, Eric von Stroheim, Dreyer, Eisenstein. E il surrealista Luis Bunuel.
Manoel de Oliveira con la moglie Maria Isabel
Passarono quasi dieci anni prima che potesse realizzare il suo primo lungometraggio di finzione, Aniki-Bóbó (1942), un film dalle forti tinte neorealiste su due ragazzini di Porto che si contendono le attenzioni di una loro coetanea. Successivamente fu la sua avversione al regime fascista di Salazar ad allontanarlo dal cinema. Una dopo l’altra, tutte le sue sceneggiature vennero bocciate dal Segretariato Nazionale per l’Informazione, il ministero della propaganda dell'Estado Novo. In quegli anni di silenzio si occupò dell’azienda vinicola di famiglia. Nel 1940 aveva sposato Maria Isabel Brandão de Meneses de Almeida Carvalhais, classe 1918, madre dei suoi quattro figli.
Dopo essersi recato in Germania per studiare l’uso del colore nel cinema, nel 1956 realizzò il primo film a colori portoghese, Il pittore e la citta, un documentario ancora una volta ambientato a Porto. Ai cortometraggi Il pane (1959) e I quadri di mio fratello Julio (1959) seguì Atto della primavera (1963), che il critico Henrique Costa definì «il primo film politico del Portogallo»: è la rappresentazione della Passione di Cristo in un piccolo villaggio di contadini, un’opera nella quale la Resurrezione di Gesù arriva dopo un crudo alternarsi di immagini di guerra e di morte. Il cattolicesimo, ebbe a dire Oliveira, «è una religione che permette il peccato. Io non ho mai detto di essere cattolico, perché essere cattolici è molto difficile. Preferisco pensarmi come un grande peccatore».
Nell’ottobre 1963, mentre Atto della primavera veniva proiettato nelle sale di Parigi, il regista fu arrestato dalla PIDE, la polizia politica portoghese, e interrogato per dieci giorni: a liberarlo fu l’interessamento dell’amico Manuel Meneres, un influente sostenitore del regime.
La censura si abbatté anche sul cortometraggio La caccia (1964): l’ultima scena del film, un uomo che sprofonda nelle sabbie mobili mentre i presenti litigano tra loro, dimenticando di prestare soccorso, gli fu fatta sostituire con un finale edificante.
Con l’uscita di scena di Salazar, nel 1968, e soprattutto dopo la Rivoluzione dei Garofani, perse gran parte della propria ricchezza personale, ma acquisì una totale libertà artistica. «Ad un’età in cui molti uomini pensano alla pensione, Oliveira è emerso dall’oscurità come uno dei principali modernisti degli anni ’70, alla pari di Straub, Syberberg e Duras», scrisse il critico statunitense J. Hoberman.
La caccia (1964)
I quattro film realizzati nel decennio compreso tra il 1971 e il 1981 sono stati classificati dalla critica sotto la denominazione di «tetralogia degli amori frustrati». Il passato e il presente (1971), Benilde o la Vergine Madre (1975), Amore di perdizione (1978) e Francisca (1981): quattro storie accomunate dalla presenza di amanti che soffrono, e che sembrano votate a dimostrare l’impossibilità di raggiungere l’amore assoluto nella vita terrena; in ciascuno di questi film la vita di coppia viene turbata da un elemento esterno – sia esso un altro uomo, un’altra donna o un’entità soprannaturale – che partecipa al lento sprofondare degli amanti negli abissi della disperazione.
Dopo Francisca si dedicò nuovamente al documentario, per poi dare corpo al titanico progetto de La scarpina di raso (1985), un’opera della durata di sette ore tratta dall’omonimo testo teatrale di Paul Claudel, lo struggente racconto di un amore impossibile ai tempi del colonialismo. Nel ruolo del protagonista maschile, Luís Miguel Cintra. Il film non uscì nelle sale, ma fu proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove Manoel de Oliviera ricevette un Leone d’oro speciale. Il premio aprì la strada ad una lunghissima sequela di riconoscimenti internazionali; una consacrazione a cui il maestro di Porto reagì intensificando i propri ritmi di lavoro.
Fu così la volta del film sperimentale Il mio caso (1986) e de I cannibali (1988) – tratto da un racconto di Álvaro de Carvalhal e in linea con la tradizione satirica di Bunuel – che segnò l’esordio di Leonor Silveira. Le tappe più significative della storia del Portogallo vennero ripercorse in No, o la folle gloria del comando (1990), in una riflessione di più ampio respiro sul tempo, la memoria, la morte. Le più grandi opere letterarie della storia umana – dalla Bibbia a Dostoevskij, a Nietzsche – trovarono un’originale rappresentazione ne La divina commedia (1991); e gli ultimi momenti della vita del grande scrittore romantico Camilo Castelo Branco, il «Balzac portoghese» morto suicida nel 1890, furono raccontati ne Il giorno della disperazione (1992).
Michel Piccoli in Ritorno a casa (2001) di Manoel de Oliveira
Dopo aver rinunciato a un’ambiziosa trasposizione di Madame Bovary, giudicata troppo costosa dal produttore Paulo Branco, si avventurò in una profonda esplorazione dell’animo femminile in La valle del peccato (1993), tratto da un testo ispirato a Flaubert della grande scrittrice Augustina Bessa-Luís. Con La cassetta (1994) offrì poi un esempio di «teatro vitale» in cui alcune maschere senza nome – un oste, una prostituta, un cieco che chiede l’elemosina, sua figlia, suo genero – mettono in scena la vita quotidiana di un quartiere povero di Lisbona, in un apologo universale sugli anacronismi e le differenze sociali.
Venne infine il tempo delle collaborazioni con i grandi nomi del cinema europeo e mondiale, per quelli che sarebbero diventati i suoi titoli più noti. Da I misteri del convento (1995) con Catherine Deneuve e John Malkovich, a Party (1996) con Michel Piccoli, da Viaggio all’inizio del mondo (1997), l’ultimo film con Marcello Mastroianni, a Ritorno a casa (2001), ancora con Malkovich, Deneuve e un acclamatissimo Piccoli nel ruolo del protagonista. Fino ai più recenti Un film parlato (2003), Specchio magico (2005), Bella sempre (2006), che rivisita Bella di giorno di Bunuel con Bulle Ogier al posto di Catherine Deneuve, O Estranho Caso de Angelica (2010), con protagonisti il nipote Ricardo Trêpa e Pilar López de Ayala, e Gebo e l’ombra (2012) con Michael Lonsdale, Claudia Cardinale e Jeanne Moreau, presentato alla 69esima Mostra di Venezia.
Manoel de Oliveira a Porto nel marzo 2013
Raccontare il cinema di Manoel de Oliveira è estremamente difficile. E non solo perché la sua filmografia, così ricca di riferimenti letterari e filosofici, si snoda in un arco di tempo lungo ottant’anni. Ma anche perché ogni sua storia trasforma la razionalità in mistero, operando un’inscindibile fusione di fantastico e reale: «Il fantastico ci accompagna, è accanto a noi, sempre. Il fantastico è a fianco della realtà. Come spiegarlo? Il fantastico, è l’ombra del reale». Restano dunque tante domande, e un’insaziabile voglia di raccontare storie. Fermare in un fotogramma la vita che sfugge, preservare memoria di ciò che è stato, immortalare esperienze, emozioni; questo il significato più profondo del cinema di Oliveira: «Un film non è la realtà. Che cos’è un film? Un film è un fantasma, non è la vita. D’altra parte, la vita non esiste, è anch’essa un fantasma. Senza i libri, senza gli storici, senza la memoria non resterebbe alcuna traccia. L’istante è fugace. Per lottare contro l’oblio, l’uomo ha una specie di bisogno di rifare ciò che lo ha colpito, la volontà di conservare ciò che è degno di nota. Si può rappresentare ciò che è successo: è il teatro; si può rappresentare ciò che si è visto per strada, in un qualsiasi dramma. Ma queste rappresentazioni teatrali sono altrettanto fugaci, come la vita stessa: il cinema apporta un elemento molto importante, la fissazione. Il cinema fissa le cose».

Manuel Lambertini

giovedì 5 dicembre 2013

Nelson Mandela

La meditazione

Nelson Mandela (Mvezo, 18 luglio 1918 - Johannesburg, 5 dicembre 2013)

La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.

La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.

È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.

Ci domandiamo: “Chi sono io per essere brillante,
pieno di talento, favoloso?”

In realtà chi sei tu per NON esserlo?

Siamo figli di Dio.

Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.

Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicché gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.

Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.

Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.

Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.

E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.

E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.

                                                                               Nelson Mandela