Fotogallery

 
«Linda Lee è uscita dall’acqua e ha preso la macchina fotografica di Serena.
“Ve ne faccio una,” ha detto.
“Hank,” ha detto Serena, “credo di avere le gambe un po’ in mostra. Pensi che abbia le gambe in mostra?”
“Falle vedere un pochino, solo un poco, ma non troppo.”
“Va bene.”
Poi mi sono alzato e ne ho fatta una a madre e figlia. Poi si è alzata la madre e ne ha fatta una alla figlia e al vecchio. Alla gente piace fare foto. A me non dispiace. Sento che coglie solo il processo del morire, che lo tiene sospeso un momento, e sì, può essere divertente.»

(Charles Bukowski, Shakespeare non lo ha mai fatto, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 28-29)


Giulio Andreotti
Rimini, 23 agosto 2007
Anche procedendo in ordine alfabetico, il nome di Giulio Andreotti non è secondo a quello di nessun altro. So che questo susciterà un certo malumore, ma nelle righe che seguono mi sarà difficile celare il rispetto e il timore reverenziale che ho sempre nutrito per lui.
Negli ultimi anni, quasi ogni giorno mi sono dovuto confrontare con commenti, aneddoti, ricostruzioni storiche o articoli riguardanti la sua persona. Benché, già da molti mesi prima di morire, si fosse allontanato dalla vita politica, a me era rimasta l’abitudine di digitarne il nome sui vari motori di ricerca di Internet, in cerca di novità dell'ultima ora. Se fosse venuto a saperlo, si sarebbe certamente abbandonato ad una reazione più o meno scaramantica, invitandomi ad interrompere al più presto questo infausto rituale: quando l’oggetto della ricerca ha superato i novant’anni, è meglio sperare che di notizie fresche non ve ne siano…
Non so se sia da considerare uno statista, né se la sua visione della politica sia mai andata oltre il «tirare a campare». Ma resto un andreottiano di sinistra: un andreottiano laico e occasionalmente anticlericale, imbevuto di cultura cristiana, semita, terzomondista e comunista (senza affiliazioni privilegiate, né definitive professioni di fede). Avrete capito quanto sia difficile uscire da una situazione simile. Paradossalmente, a venirmi in aiuto è stato il fortunato film di Paolo Sorrentino. Durante una seduta in Parlamento, Andreotti-Servillo conversa con un deputato e dice che gli andreottiani sono dappertutto, in ogni partito e in ogni schieramento. Poco dopo, però, il Divo vede sfumare per sempre il sogno di essere eletto Capo dello Stato: dovrà accontentarsi di veder associati il proprio volto e la propria silhouette al puro e semplice Potere.
Vidi quest’uomo per la prima volta nell’agosto 2006. Quell’anno trascinai i miei genitori e mia cugina Simona al Meeting di Rimini, per assistere ad un incontro sul lavoro nelle carceri in cui il senatore a vita si sarebbe confrontato con l’allora Guardasigilli Clemente Mastella. Accolto affettuosamente dal pubblico, esordì alla sua maniera: «Ringrazio… Dio! Per avermi fatto venire anche quest’anno da voi…». Risate. Applausi. Del suo breve discorso ricordo soprattutto quanto disse a proposito degli extracomunitari: «Chi condanna l’immigrazione va a giorni alterni. Un giorno denuncia l’aumento della criminalità, il giorno dopo è costretto ad ammettere che l’economia italiana non andrebbe avanti senza gli immigrati». Anche questa presa di posizione venne lungamente applaudita, e fui preso da un piacevole stupore nel vedere acclamate parole che nemmeno alla Festa dell’Unità avrebbero riscosso tanto successo. Del resto, mi verrebbe da dire oggi, Giulio Andreotti era l’unico «relativista pratico» a cui venissero tributati gli onori di Comunione e Liberazione… Quella volta, dribblando il doppio cordone di sicurezza che proteggeva i due relatori eccellenti, riuscii nel miracolo di fargli firmare un libro per me prezioso, Il potere logora… Ma è meglio non perderlo! (BUR, 1990).
Questa fotografia risale invece al 23 agosto dell’anno successivo. Nel 2007 Andreotti fu una presenza fissa, al Meeting. Assistette ad un gran numero di dibattiti, senza parteciparvi direttamente e senza annunciare la propria presenza. Quel giorno, in Sala Neri, erano di scena l’ambasciatore americano Ronald Spogli e Luigi Nicolais. Al termine dell’incontro riuscii ad avvicinarmi senza fatica alle prime file. Il Divo Giulio era ancora lì, impegnato a conversare con alcune persone. Non lo avevo mai visto da così vicino: mi colpirono la sua reale statura – era più alto di quanto pensassi – e la grandezza delle sue mani. Dopo aver ceduto la macchina fotografica ad un’amabile hostess, che accettò di aiutarmi, gli chiesi se potevo fare una foto con lui. Mi guardò. Ci mise qualche secondo a rispondermi. Poi, sgranando gli occhi e muovendo il capo di scatto, esclamò: «Volentieri!». Ma subito dopo si schiarì la voce, forse per farsi sentire anche dall’entourage. E arrivò la stoccata: «Lei è incensurato?!?». L’anno successivo, grazie alla biografia di Massimo Franco, Andreotti (Rizzoli, 2008), avrei scoperto che le stesse parole erano già state rivolte all’ambasciatore italiano in Cina Riccardo Sessa, e a chissà quante altre persone... Ma in quel momento tutti scoppiammo a ridere; e lui, quasi per scusarsi, balbettò frasi del tipo: «No, perché… Pure al Meeting…». In quel momento venne scattata questa foto, che ancora oggi svetta sulla mia scrivania. Ricordo il guizzo che ebbero i suoi occhi quando lo ringraziai. Mi salutò con uno sguardo sfuggente, vispo, lucido come le sue battute.
Lo rividi, sempre al Meeting, anche nei due anni successivi. Ma non tentai più di avvicinarlo: la storia che avete appena letto mi sembrava perfetta, e non ho voluto rovinarla con altri finali. Nell’agosto 2008, però, fui testimone di un episodio che vale la pena di raccontare. Andreotti e Tremonti erano stati invitati a celebrare i sessant’anni della Costituzione. Prima di loro intervenne il giurista Paolo Grossi, oggi membro della Corte costituzionale. Benché avesse promesso che il suo discorso sarebbe stato breve, finì col perdersi in una lunga e concitata dissertazione sul diritto naturale… Il pubblico aveva già dato i primi segni di insofferenza quando la telecamera collegata al maxischermo inquadrò uno alla volta tutti i relatori presenti. In primo piano, ci venne mostrato un Andreotti con gli occhi sbarrati e una mano appoggiata alla guancia, a sostenere il peso della testa. Qualcuno rise, e nel diffuso brusio la gente cominciò ad applaudire. Il professor Grossi decise allora di tagliare corto: «Siete molto gentili…Ma capisco che questo applauso ha un solo significato!». Dal maxischermo, tuttavia, trapelò anche lo stupore del senatore a vita, che non capì il motivo di un’interruzione tanto brusca. Un potere, il suo, fatalmente votato a superare ogni umana intenzione.


Asia Argento
Parma, 11 agosto 2010
Questa foto ci è stata scattata al Barilla Center di Parma l'11 agosto 2010, durante le riprese di Baciato dalla fortuna. Quel giorno, erano presenti sul set anche il protagonista Vincenzo Salemme e Pippo Santonastaso. Un amico, il buon Luigi Finetti, doveva partecipare al film come comparsa («come figurante», preciserebbe lui per darsi importanza…) ed io avevo insistito per accompagnarlo.
Mi era capitato di incontrare Asia Argento già nell’aprile 2007. Quella volta, si era fermata a Bologna per ben due giorni: prima tenne un incontro in Cineteca, dove presentò un ciclo di film che lei stessa aveva selezionato; poi, il giorno successivo, vide uno spettacolo teatrale che Giorgio Comaschi aveva tratto da un suo testo. L’ultima sera c’erano anche mio padre e mio zio Fausto. Alla fine dello spettacolo dette prova di una gentilezza disarmante: rimase a chiacchierare tra il pubblico per più di un'ora, e a fare disegni sulle mani e sulle braccia degli ammiratori. Come il personaggio di Viola nel film di Giovanni Veronesi, baciava tutti. Anch’io le feci autografare una fotografia del giorno prima;ma al momento dei saluti, intimorito, mi limitai a tenderle la mano. Lei me la strinse. Poi, per prendermi in giro, si lanciò in un plateale inchino.
Ma non dovetti aspettare molto per prendermi la rivincita. Meno di un mese dopo, infatti, venne presentato a Cannes il film Go Go Tales di Abel Ferrara, del quale tutti ricordano la scena in cui la Argento «slingua con trasporto il suo rottweiler», come puntualmente scrisse Mauro Gervasini su Film Tv. E sempre sulla stessa rivista, alla notizia dell’improvvisa morte del cane, comparve un titolo che suonava più o meno così: «Non vorremmo che Asia ci baciasse».


Corrado Augias
Bologna, 9 gennaio 2009
Per un momento mi pentii di essere andato a trovarlo in camerino. Eravamo al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, alla fine del suo spettacolo su Giordano Bruno, Le fiamme e la ragione. Con me c’erano all'incirca quindici persone, tra cui molte donne sopra i cinquant’anni. A un certo punto una signora disse ad Augias che lo spettacolo era poco accessibile a chi non avesse già un'adeguata conoscenza dell'argomento. Lui, cordiale ma un po’ contrariato, volle sentire altri pareri. Rivolse una rapida occhiata al piccolo gruppo di persone, e non ci mise molto a individuare il più giovane... «E tu? Cosa ne pensi?». Io un’idea chiara ce l’avevo. Ero convinto che nessuna critica potesse essere più ingenerosa, visto che gran parte dello spettacolo si concentrava proprio sul contesto storico nel quale Giordano Bruno era vissuto. Semmai c’era qualche divagazione di troppo, col rischio di far passare in secondo piano la figura dell’eretico di Nola: ma questo, per l’appunto, nasceva dalla volontà di dare una precisa collocazione storica al personaggio. Tentai comunque di non urtare nessuno. «Beh, a me è piaciuto… Lo sforzo di divulgazione si nota…». Pensavo di essermela cavata, avevo dato il meglio di me. Macchè! «Sì, d'accordo... Ma è andato a buon fine, questo sforzo? O no?». Augias insisteva. E io ero in trappola. Dovevo decidere se dare dell’ignorante alla signora o criticare uno spettacolo che tutto sommato mi era piaciuto. Naturalmente scelsi la prima opzione. Senza tentennamenti, stavolta. «Secondo me, sì». La nostra amica se ne andò con una mezza smorfia. Io, con questa fotografia.


Mohammed Bakri
Bologna, 1° febbraio 2008
In Italia lo si conosce grazie al film d’esordio di Saverio Costanzo, Private (2004), nel ruolo di un integerrimo padre di famiglia la cui abitazione viene occupata dai soldati israeliani. Aveva peraltro già partecipato a film come Hanna K. di Costa-Gavras (1983) e Esther di Amos Gitai (1986). Ma nel mondo arabo e in Israele deve la propria fama all’adattamento teatrale di un celebre romanzo di Emile Habibi, Il Pessottimista. Con questo appellativo viene identificato il personaggio di Sa‘īd Abū Nahhās, un arabo-israeliano dal carattere ambivalente: «Il mio nome, Felice Sventura, combacia alla perfezione con il mio aspetto e il mio carattere. […] Il mattino mi sveglio ringraziando Iddio che non mi ha portato via l’anima nel sonno. Se durante il giorno mi capita qualcosa di spiacevole, ringrazio sempre Iddio di avermi risparmiato il peggio…».
Mohammed Bakri, come lo stesso Habibi, è un palestinese con cittadinanza israeliana: al grande scrittore ha dedicato il suo terzo film come regista, Da quando te ne sei andato (2005). Prima di rendere omaggio all’amico e maestro, aveva realizzato 1948 (1998) e Jenin Jenin (2002), dicendosi «costretto» a difendere un «racconto vietato», poiché «Israele da 60 anni diffonde la sua narrazione che smentisce e contraddice la mia narrazione».
Nonostante la lunga militanza pacifista dell’autore (o forse proprio in ragione di essa), Jenin Jenin fu all’origine di aspre polemiche e persino di un caso giudiziario. L’intento di mostrare i crimini perpetrati dallo Tzahal nel campo profughi di Jenin, durante l’Operazione Scudo Difensivo dell’aprile 2002, si scontrò con la censura israeliana. Il produttore esecutivo Iyad Samoudi, a cui Bakri ha dedicato il film, venne addirittura ucciso per aver tentato la fuga durante un rastrellamento. Fonti dell’esercito, secondo una prassi mistificatrice ormai collaudata, sostennero che si trattava di un membro armato delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa… Benché Human Rights Watch – in piena sintonia con l’inviato dell’ONU in Medio Oriente Trje Roed-Larsen – avesse documentato l'utilizzo di scudi umani da parte dell’Israel Defense Forces e l’uccisione a sangue freddo di uomini già ammanettati, cinque riservisti israeliani trascinarono Bakri in tribunale per diffamazione e chiesero un risarcimento pari a 500.000 €. In questa sede, il regista riconobbe l’inattendibilità di alcune delle testimonianze raccolte, nella convinzione che nulla avrebbe potuto scalfire la gravità del massacro. In Israele nacque immediatamente un Comitato per la Difesa di Mohammed Bakri, guidato dal noto avvocato Avidgor Feldman. L’appello promosso in suo favore ebbe l’adesione di decine di intellettuali anche in Italia: lo sottoscrissero, tra gli altri, Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Giuseppe Bertolucci, Marco Tullio Giordana, Daniele Lucchetti, Mimmo Calopresti e Mario Martone. Nel luglio 2008 la richiesta dei soldati venne respinta, perché nessuno di loro era stato direttamente oggetto di denigrazione.


Silvia Baraldini
Bologna, 29 ottobre 2008

















Ho conosciuto la storia di questa donna coraggiosa grazie a Francesco Guccini e alla sua Canzone per Silvia:

«L’America è una statua che ti accoglie e simboleggia, bianca e pura,
la liberta, e dall’alto fiera abbraccia tutta quanta la nazione
per Silvia questa statua simboleggia solamente la prigione
perché di questa piccola italiana ora l’America ha paura.
Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare
Paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera;
nazione di bigotti, ora vi chiedo di lasciarla ritornare
perché non è possibile rinchiudere le idee in una galera…»

Militante delle Pantere Nere, Silvia Baraldini fu arrestata nel 1983 e condannata a 43 anni di carcere. Capi d’accusa: l’appartenenza al gruppo sovversivo «19 maggio», il rifiuto di deporre contro altri militanti, la partecipazione ai preparativi di due rapine mai realizzate e l’aver fatto parte del commando che fece evadere Assata Shakur, celebre attivista del Black Liberation Army condannata per omicidio senza un convincente quadro probatorio. Su Silvia si abbatté la furia di un pubblico ministero in rapida ascesa, che per lei chiese e ottenne il massimo della pena: Rudolph Giuliani. Più volte le venne proposto di denunciare gli altri combattenti, in cambio di denaro e persino della libertà. Più volte rifiutò. Quando si ammalò di cancro, le autorità statunitensi ignorarono i ripetuti appelli che ne chiedevano l’estradizione in Italia per motivi umanitari. Fu invece trasferita in un carcere di massima sicurezza della Florida, perché ritenuta altamente pericolosa. Il rimpatrio avvenne solo nel 1999, a patto che non le fossero concessi sconti di pena. Il 20 gennaio 2001, tuttavia, il Presidente Clinton concesse la grazia alla sua compagna di lotta Susan Rosenberg: quest’ultima si era vista infliggere una condanna di 58 anni di carcere, ma ne aveva scontati 16. Per la liberazione di Silvia Baraldini, si dovette invece attendere il 26 settembre 2006, quando intervenne l’indulto del Governo Prodi.
Ma la notizia non passò sotto silenzio. Qualcuno, tra le file del centrodestra, colse questa opportunità per ostentare indignazione… Ignazio La Russa, allora capogruppo di Alleanza Nazionale e di lì a poco Ministro della Difesa, la definì «il peggio della criminalità, del terrorismo e del paraterrorismo». A fargli eco, il leghista Roberto Calderoli, poi Ministro per la Semplificazione Normativa: «Da noi i terroristi escono e quelli che li hanno arrestati vengono arrestati». L’avvocato di Berlusconi, on. Gaetano Pecorella, non si lasciò sfuggire l'occasione di criticare i giudici: «E' evidente che l'indulto non poteva essere concesso in relazione a condanne inflitte da uno Stato straniero, anche se l'esecuzione avviene in Italia, e che comunque tra i reati esclusi dal beneficio vi sono quelli di terrorismo per i quali la Baraldini è stata condannata». Il meglio di sè, dulcis in fundo, lo dette però Maurizio Gasparri: «Lei è il simbolo di questa Italia governata dalla sinistra. Ricordo ancora il suo arrivo trionfale in Italia quando era ministro Diliberto. Lei poi fu consulente di Walter Veltroni e ora, grazie all'indulto di Clemente Mastella, è tornata libera. E' proprio il simbolo di questa Italia».
Fossi in voi lettori, tornerei a guardare la fotografia. Cheese! Il nostro sorriso è tutto per loro.


Victor Batarseh
Bologna, 20 novembre 2008
Ogni anno, il giorno di Natale, tutti i telegiornali del mondo trasmettono le immagini della messa di mezzanotte alla Basilica della Natività di Betlemme. Di fianco alle più alte cariche dell’Autorità Nazionale Palestinese, inclusi il presidente e il primo ministro, per qualche tempo c’è stato lui: Victor Batarseh, l’ex sindaco della città.
Di religione cristiana, venne eletto nel 2005 come candidato della lista Fratellanza e Sviluppo, un movimento indipendente vicino alla sinistra e al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Nel 2012 è stato sostituito da Vera Baboun, di al-Fatah.
Lo statuto della città prevede che il sindaco e la maggioranza del consiglio comunale, composto da quindici membri, siano di religione cristiana. Nelle elezioni del 2005, tuttavia, gli islamisti di Hamas e della Jihad islamica ottennero ben sei seggi, la maggioranza di quelli sciolti da vincoli.  Un avvenimento che, rivisto oggi, avrebbe potuto far presagire il successo di Hamas alle elezioni del Consiglio Legislativo Palestinese, tenutesi nel gennaio dell’anno successivo.
Dal 1947 al 1998 i cristiani hanno progressivamente ridotto la loro presenza a Betlemme, passando dal 75 al 23 % della popolazione. Intervistato alcuni anni fa da Voice of America, il sindaco Batarseh non cercò di nascondere il problema:  «Per lo stress, sia fisico che psicologico, e per la pessima situazione economica, molte persone emigrano, tra i cristiani come tra i musulmani; ma ciò è più evidente tra i cristiani, perché sono una minoranza e perché per una famiglia cristiana è più facile emigrare, presso parenti che già vivono negli Stati Uniti o in Sud America, in Australia o in Canada. Abbiamo bisogno che questa città rimanga un modello di coesistenza tra le due religioni. Più emigrazione avremo, prima questo modello si dissolverà».


Stefano Benni
Bologna, 16 aprile 2010
«La giraffa ha il cuorelontano dai pensieri
si è innamorata ieri
e ancora non lo sa» * 












*Questa l’ho rubata al libro Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano (Baldini & Castoldi, 1992), di Gino & Michele e Matteo Molinari, che a loro volta l’hanno scippata alle Ballate (Feltrinelli, 1991) di Stefano Benni, «scrittore, giornalista, umorista. Per il mondo della satira, un riferimento». Se mi azzardassi ad aggiungere altro, dovrei cominciare dalle letture di Stranalandia che la maestra Rosanna mi fece provvidenzialmente gustare alle scuole elementari. E non penso sia il caso.


Giovanni Bersani
Bologna, 4 marzo 2010
A Bologna restava per tutti «il senatore», anche se la sua quarantennale carriera politica non si era protratta oltre il 1989. Nel percorrere un cammino costellato di successi, Giovanni Bersani aveva stretto amicizia con tutti i più grandi costruttori di pace del pianeta, da Albert Schweitzer a Madre Teresa di Calcutta, da Dom Helder Camara a Nelson Mandela. Oscar Luigi Scalfaro, durante la sua ultima visita sotto le Due Torri, gli rivolse un saluto colmo di affetto. E Romano Prodi parlava di lui con una riconoscenza che sfiorava la devozione. Si è spento alla veneranda età di cento anni, illuminando una concezione della politica tanto alta da non potersi mai davvero scindere dall'etica della carità.
Deputato DC per sei legislature, dal 1948 al 1976, nel 1952 fu scelto da De Gasperi come sottosegretario al Lavoro e alla Previdenza Sociale. Trascorse la settima legislatura a Palazzo Madama, per poi candidarsi al Parlamento Europeo, del quale aveva già fatto parte in qualità di membro nominato dal governo. Eletto nel 1979, aderì al Partito Popolare Europeo e venne riconfermato nel 1984.
A distinguerlo, in quegli anni, fu soprattutto il contributo che seppe offrire all’associazionismo cattolico, superando brillantemente gli ostacoli di un terreno sfavorevole come quello… Militò nelle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (ACLI), delle quali fu vice-presidente, e poi nel più conservatore Movimento Cristiano dei Lavoratori (MCL). Nel 1972 fondò il Comitato Europeo per la Formazione e l’Agricoltura (CEFA) e avviò importanti progetti di cooperazione con la Repubblica Democratica del Congo, la Tanzania, il Kenya, la Somalia, il Cile, l’Argentina, i Paesi della ex Jugoslavia, il Marocco e il Guatemala, coinvolgendo e responsabilizzando le comunità locali. Nel 1997, infine, diede vita alla Fondazione Nord-Sud per la solidarietà internazionale, una onlus che favorisce lo sviluppo agricolo, sanitario e infrastrutturale dei Paesi poveri, operando secondo le pratiche del microcredito e del commercio equo e solidale.
Giovanni Bersani era un centenario vitale e non domato, fedele a quel pensiero sociale cristiano di cui la sua carriera politica e il suo impegno umanitario sono stati esemplare testimonianza. Negli ultimi anni, gli attestati di stima gli erano giunti da ogni parte. Nel 2004, il Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna ne aveva sollecitato la nomina a senatore a vita, attraverso una risoluzione accolta col plauso generale e sottoscritta da tutti i gruppi. Con un’adesione ancor più entusiastica e trasversale, nell'ottobre 2010, era stato accolto l’appello de Il Resto del Carlino di proporlo come candidato al Nobel per la Pace. Ma una volta di più il «senatore» Bersani si era schernito. Aveva chiesto di lasciar perdere, con l’operosità umile e schiva di chi era abituato a pensare al futuro. Senza indulgere nell'autocelebrazione.


Olga Bisera
Lido di Venezia, 3 settembre 2010
Adesso non sono in molti a conoscerla. Quando la notai, nella hall dell’Hotel Exelsior di Venezia, apparve quasi stupita, e cercò di indirizzarmi verso una Barbara Bouchet già circondata da frotte di curiosi. Ma io volevo proprio lei.
Olga Bisera è una giornalista di grande fascino. Nata nell’ex Jugoslavia, e di religione musulmana, vive da anni in Italia. Ha incontrato molti dei personaggi che hanno cambiato la storia, dal presidente egiziano Sadat al colonnello Gheddafi, da Re Hussein di Giordania al leader palestinese Yasser Arafat, passando per Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer e molti altri. Approdò al giornalismo dopo un passato di attrice, in film come Agente 007-La spia che mi amava e La Vergine, il Toro e il Capricorno, prodotto dall’ultimo compagno Luciano Martino.
Incontrandola per caso, mi dissi dispiaciuto di non avere con me il suo ultimo libro, Ho sedotto il potere (Gremese, 2009). E lei rivelò che da quell’autobiografia sarebbero stati tratti due film: uno ambientato alle Seychelles, location della sua storia d’amore con il presidente Sir James R. Mancham; l’altro sul più grande pugile di tutti i tempi, Mohammed Alì, che Olga conobbe a Baghdad pochi giorni prima della Guerra del Golfo.
I miei pensieri, in quel momento, andarono al suo più recente incontro con Muammar Gheddafi, e glielo dissi: «Ho saputo che è riuscita a regalare il libro anche a Gheddafi…». Dai giornali avevo appreso che durante la prima visita in Italia del raìs, nel giugno 2009, era riuscita a beffare le imponenti misure di sicurezza e a consegnargli una copia di Ho sedotto il potere. Confermò e aggiunse: «Se lo ha letto, deve esserci rimasto male… Pensava che lo elogiassi. Invece io ho detto la verità!».
Nel libro viene raccontato con candore un aneddoto che ha dell’incredibile. Dopo la sua prima intervista con la Guida della Rivoluzione, e in procinto di ripartire alla volta dell’Italia, Olga fu convocata in tutta fretta dai più stretti collaboratori del colonnello. Senza tanti complimenti, le venne prelevato il sangue: prima di ammetterla al cospetto del loro capo, i libici volevano verificare che non fosse malata di AIDS. Poi la segretaria personale di Gheddafi la sottopose a un minuzioso interrogatorio. Al momento del suo secondo incontro col presidente della Jamāhīriyya, le erano rimasti ben pochi dubbi sulle intenzioni del potente interlocutore. Questi doveva aver scorto nei sorrisi della giornalista una maliziosa disponibilità, e intendeva confermare la fondatezza delle voci che lo volevano seduttore instancabile e appassionato... Non deluse, infatti. Ma Olga riuscì a sottrarsi alle sue avances: scomodò l’intimo rapporto che la legava a Bettino Craxi e prospettò gravi ricadute diplomatiche nel caso in cui la sua volontà non fosse rispettata. Il leader libico fu costretto a desistere. Il rapporto privilegiato che nacque allora, tuttavia, concesse alla Bisera di intervistare Gheddafi durante tutte le fasi della sua tragica epopea. Per l’invidia dei colleghi, naturalmente.


 Aldo Busi
Bologna, 5 novembre 2010
«Una volta una femminista mi ha detto: “Non puoi difendere i diritti delle donne perché ti piacciono gli uomini”. Ma allora sei troia dentro! Dico: con tutti i cazzi che ci sono in giro, volevi anche il mio?!?». L’incontro con Aldo Busi mi resterà in mente per questa e per altre battute formidabili. Ma sia chiaro: ho citato la peggiore. Perché i suoi eccessi, nella memoria del pubblico, prevalgono sempre sulla lucidità con cui viviseziona le ipocrisie del Belpaese. In quell’occasione non poté astenersi dal commentare i fatti più recenti, dal bunga-bunga di Berlusconi al coming out di Tiziano Ferro, liquidando i dirigenti del Partito democratico come «segaioli di provincia». Propose poi di abbassare la soglia della maggiore età ai quattordici anni, più incurante che mai delle critiche ricevute per una fantomatica difesa della pedofilia, rinnovatesi anche con la sua partecipazione all’Isola dei famosi.
Chi lo ha visto ballare con tanto di parrucca al Maurizio Costanzo Show - insieme ai ragazzi che hanno saputo della sua esistenza grazie ai programmi di Maria De Filippi e di Simona Ventura - difficilmente potrà credere di aver deriso uno dei più grandi scrittori italiani viventi. Prima di abbandonare il reality show di Rai Due, replicò così a chi ne criticava il linguaggio: «Io stabilisco il linguaggio. Il linguaggio è la cosa. Le forme le decido io. Perché se io prendo le forme suggeritemi da altri, vuol dire che assumo i concetti degli altri. Perché la forma è tutto. Quindi se io non scelgo la forma, vuol dire che neppure scelgo i contenuti». E ancora, in risposta a nuove critiche: «La forma è giusta quando è sbagliata per lei, Ventura, e per la maggioranza degli italiani! Questo per me è una prova che sono nel giusto!».
Niente di più chiaro. Niente di più scandalosamente vero. Nel dare ai suoi libri titoli come Sodomie in corpo 11, Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) e Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo deve aver voluto mettere alla prova il pudore dei lettori. Magari per gioire davanti allo sguardo di cassiere attonite, o per beffarsi della vergogna di clienti costretti a scandire ad alta voce l’oggetto dell’equivoca ordinazione... Per Aldo Busi essere uno scrittore significa non scendere a compromessi con il pensiero dominante. Non adattarsi al conformismo di un’Italia che ancora sprofonda in un’epidermica omofobia di massa. E portare avanti una visione radicalmente laica e radicalmente moderna, troppo ingombrante per essere circoscritta alla sola cultura gay. Ridurre il suo personaggio a macchietta televisiva risulterà forse utile a chi spera di sminuirne la statura intellettuale, ma non può impedire a milioni di italiani di conoscere la sua verità e di incuriosirsi per le sue debordanti provocazioni. Finché il futuro non riconoscerà la propria immagine nel volto di chi oggi è diverso.


Cristiana Capotondi, Martina Pinto e  Giorgia Würt
Bologna, 3 febbraio 2009
Mentre il mio amico Giovanni stava scattando questa foto – il che richiese un po’ di tempo, visti il continuo viavai di persone davanti a noi e l’imbarazzo della macchina fotografica, intimidita da tanta bellezza – qualcuno ebbe la felice idea di chiedermi chi preferissi fra queste tre bellissime attrici. La vista, che già non era del tutto a fuoco, per un momento mi si appannò.
Io non avevo preteso di farmi fotografare con tutto il cast femminile di Ex. Accadde per caso. Una dopo l’altra, Cristiana, Martina e Giorgia stavano uscendo tutte dalla stessa porta: rivolgersi ad una di loro ignorando le altre due non sarebbe stato gentile... E ora non avevo scampo. A Cristiana Capotondi ero molto affezionato: fin da piccolo, il suo volto mi era inconsapevolmente familiare: tra qualche decennio, Notte prima degli esami verrà associato alla mia generazione più di Tre metri sopra il cielo, se i sociologi di domani vorranno essere gentili... Martina Pinto mi ricordava Santa Maria Goretti, oltre alla sagoma di cartone che, passata la mezzanotte, campeggiava al suo posto nello studio televisivo di Ballando con le stelle: a lei e al maestro di ballo Umberto Gaudino, ancora minorenni, la legge imponeva di “andare a dormire”… È nata un anno prima di me, ma sa recitare molto bene ed ha all’attivo un gran numero di fiction; al cinema, l'avevo ammirata nel secondo episodio di Grande, grosso e Verdone. Giorgia Würt, invece, la conoscevo poco: non avevo l'abitudine di guardare Un posto al sole, ma già da allora ero impaziente di vederla nei panni di Ilona Staller in Moana.
Valutai rapidamente l’ipotesi di non rispondere, di fingere di non aver sentito. Invece riuscii a dire che non lo sapevo, e mi salvai grazie ad un’espressione facciale di resa e ad un gemito imbarazzato. Ricordo che Cristiana Capotondi, la più espansiva delle tre, mi guardò incuriosita. Ed io non avevo alcuna risposta da darle. Potrei lanciare un sondaggio tra gli sfortunati lettori di questo blog, che comprensibilmente continuano a non postare commenti... 


James Ellroy
Bologna, 4 febbraio 2010
Appena entrato nella Biblioteca Renzo Renzi della Cineteca di Bologna, assestò una serie di colpi al microfono, ostentando un sadismo che subito conquistò tutti. Poi lesse in inglese la prima pagina del suo ultimo libro, Il sangue è randagio (Mondadori, 2010). Parlando con Carlo Lucarelli, si raccontò più o meno in questi termini: «Non guardo la televisione. Non leggo i giornali. Non navigo in Internet. Non frequento il Terzo Mondo, che per me inizia dove finisce Los Angeles. Non frequento altre persone. Sto solo sdraiato. Nel buio. A riflettere».
Lee Earle Ellroy, detto James, è un personaggio incredibile e straordinario. Il suo mondo è Los Angeles, come fu per l’insuperabile Charles Bukowski. E come Bukowski non ama allontanarsi dalla città in cui vive. Prima che arrivasse a Bologna, conoscevo solo i titoli dei suoi romanzi più famosi, soprattutto grazie a trasposizioni cinematografiche particolarmente autorevoli. Alcuni giorni prima dell’incontro, avevo comprato una copia di L. A. Confidential, rimandando l’acquisto di Il sangue è randagio al momento della presentazione. Ma cambiai idea quando, oltre al prezzo, vidi la sua impresentabile firma: praticamente uno scarabocchio a forma di “elle” rovesciata.
Col vecchio Bukowski, James Ellroy evidentemente condivide anche una linea di condotta molto semplice, ben espressa dalle parole che aprono Il capitano è fuori a pranzo (Feltrinelli, 2000): «Uno scrittore non ha niente da dare se non quello che scrive. Al lettore non deve nient'altro che la disponibilità della pagina stampata. E il peggio è che molti di quelli che bussano alla porta non sono nemmeno lettori. Hanno solo sentito parlare di te.  Il migliore lettore e il migliore essere umano sono quelli che mi fanno la grazia della loro assenza».


   Abel Ferrara
Bologna, 14 marzo 2007
Quando mi chiedono se sono cristiano – il che, per mia fortuna, non capita molto spesso – di solito rispondo che dipende dai giorni. Ma se me lo si chiedesse all’uscita del cinema dopo un film di Abel Ferrara, ogni dubbio si dissolverebbe nell’esaltante fremito della fede ritrovata. I suoi eroi, dal Christopher Walken di King of New York al Willem Defoe di Go Go Tales, passando per l’Harvey Keitel del Cattivo tenente, riscattano la loro condizione di dannati con atti di straordinaria grandezza. I film che portano la sua firma emanano il fetore della bassezza e il profumo dell’inatteso ravvedimento. Una conversione troppo reale per essere definitiva, incapace di rinunciare a quel corredo di gangster, prostitute e cocaina che è ormai il marchio di fabbrica del cinema di Abel Ferrara. Redenzione e santità, nelle opere di questo grande regista, scalano i bassifondi dell’anima umana e della società corrotta. Si rifugiano nei personaggi più turpi. Abitano i luoghi più violenti. E ci vengono restituite nella loro dimensione autentica, in un’irrefrenabile pulsione al sacro che non può cancellare le brutture del mondo.


Don Andrea Gallo
Bologna, 5 luglio 2007
Il fatto che si rivolgesse ai ragazzi della Comunità di San Benedetto al Porto chiamandoli «i miei drogati di merda» aveva colpito anche me. Ma mai avrei immaginato di leggere la stessa espressione nel libro di Loris Mazzetti, Sono venuto per servire (Aliberti, 2010). Don Andrea Gallo era ormai diventato un’icona movimentista: solo negli ultimi cinque anni erano stati pubblicati almeno dieci libri sulla sua figura; e a quasi ottantatre anni, con lo spettacolo Io non taccio, questo nuovo, infaticabile Savonarola aveva debuttato alla sua maniera in teatro, toccando tutte le più importanti “piazze” d’Italia. 
L’amicizia con Fabrizio De André lo aveva segnato nel profondo: «Per me c’è un quinto Vangelo, il Vangelo secondo De André», disse una volta ad un cardinale. Perché «dai diamanti non nasce niente, / dal letame nascono i fiori». Oppure, per citare altri versi che gli erano cari: «Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane / ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame». «Belin, Don Gallo, lo sai perché ti sono amico?» gli chiedeva Faber. «Perché sei l’unico prete che non mi vuole mandare in Paradiso a tutti i costi». Molti gli artisti che era riuscito a conquistare: da Vasco Rossi a Manu Chao, da Piero Pelù a Tonino Carotone. E alla fine anche la sua Genova era arrivata a ricambiarlo con inusitata generosità. Ma sono stati gli ultimi, i tanti Michè e le tante Marinella, ad accompagnarlo per tutta la vita, e a dargli conforto nei giorni che ne hanno preceduto la morte.
Fu prima cappellano al carcere di Capraia, poi viceparroco alla parrocchia del Carmine. Giunse infine a San Benedetto al Porto, dove dette vita alla famosa comunità. Nell'arcidiocesi del cardinale Siri, durante l'estate del 1970, pronunciò un'omelia "scandalosa": più dell'hashish disse di temere le droghe del linguaggio, grazie alle quali un ragazzo può passare per «inadatto agli studi» se figlio di povera gente, e i cui effetti trasformano un bombardamento di civili in «azione a difesa della libertà». Da allora proseguì sul proprio cammino con la stessa radicale coerenza, in direzione ostinata e contraria: educatore di strada, prete anarchico, antiproibizionista...  «Comunista? Eh, la Madonna! Socialista? Ultimo dei no global? Mi sono state attribuite tante etichette, ma io non ho scelto un'ideologia, a vent'anni ho scelto Gesù: ci  siamo scambiati i biglietti da visita e sul suo c'era scritto "sono venuto per servire e non per essere servito"». 


  Werner Herzog
Lido di Venezia, 3 settembre 2009
Quando, al Lido di Venezia, lo vidi camminare verso l’Hotel Exelsior in compagnia di una bella ragazza bionda (Lena Herzog?), esitai qualche secondo prima di avvicinarmi. Considerando che sul set di Aguirre era arrivato a minacciare di morte l’incontenibile Klaus Kinski, non mi sembrava inappropriato dubitare della sua giovialità... Ma sbagliavo. Mi accolse con un sorriso, accettò benevolmente di posare per questa fotografia e si congedò con altrettanta gentilezza. Avevo appena incontrato un mito del cinema mondiale. Un oltreuomo teutonico capace di imprese eccezionali e in costante confronto con l’ineluttabilità della natura. Un cineasta totale e onesto, spregiudicato nel conservare la propria umanità, sempre alla scoperta del mondo e sempre ostinatamente alieno ad ogni cornice ideologica.
Nell’unicità del suo sguardo, e grazie alla magia del cinema, la realtà diventa visione, e la barriera che separa fiction e documentario è travolta da un flusso inarrestabile di sfide, aspirazioni, tragedie. Nessuno come lui è mai riuscito ad imprimere sulla pellicola la volontà irriducibile e folle di superare i limiti dell’umano, nell’esigenza irrefrenabile di vivere fisicamente le avventure dei propri eroi. Siano melomani o conquistadores, sordociechi o nani in rivolta, campioni di volo con gli sci o alpinisti in arrampicata sul massiccio del Gasherbrum. Eroi spesso diversi tra loro, tutt’altro che prodotti in serie, eppure accomunati da una solitudine subita e insieme cercata, naturale conseguenza della loro diversità. Chi meglio incarna lo spirito dell’eroe romantico herzoghiano, a dispetto di un’idea ormai radicata nell’immaginario collettivo, non è Fitzcarraldo, ma Nosferatu. E Nosferatu il principe della notte si discosta dal capolavoro di Murnau almeno quanto Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans, molto tempo dopo, avrebbe di fatto traviato l’originaria intuizione di Abel Ferrara. Col vampiro condannato all’immortalità, che porta la peste nella Wismar di fine Ottocento e che non può condividere l’amore degli umani, si materializza un attacco di vasta portata alle fondamenta dell’Illuminismo europeo, e si perpetua la contemplazione di quel mistero dell’esistenza che nessuna scienza può risolvere.
È ben presente, nel percorso umano di Herzog e nelle sue scelte cinematografiche, l’eroico rifiuto di prendere parte ad una modernità tutta votata al profitto e alla sistematica eliminazione di qualsiasi desiderio improduttivo. La follia è l’arma che i suoi personaggi oppongono al calcolo e all’interesse imperanti, nel nome di aspirazioni che il resto del mondo non potrà che deridere. Per dirla con Enrico Ghezzi: «L’informe l’estremo il deviato l’ossesso l’animale parlante lingue sconosciute, questo il soggetto eletto, spesso fisicamente graficamente quasi geologicamente difforme, sempre mentalmente a sé e intensamente solitario, non di rado […] le due cose insieme». È l’anormalità la vera protagonista dei film di Herzog, proiettata talvolta verso l’estatica realizzazione del più inutile dei sogni, più spesso destinata ad una tragica capitolazione.
Ma il mito del film-maker bavarese si è nutrito anche di dicerie infondate e di storielle inverosimili, alimentate da una spiccata tendenza alla contraddizione. Di vero c’è la sua camminata da Monaco a Parigi, raccontata in Sentieri nel ghiaccio (Guanda, 2008), per «salvare» dalla morte l’amica Lotte Eisner, oltre alle impressionanti vicissitudini affrontate sul set di Fitzcarraldo. Di falso, quasi tutto il resto. Così scrive Paul Cronin in Incontri alla fine del mondo (minimum fax, 2009): «Ha diretto cinque film con Klaus Kinski e una volta François Truffaut l’ha definito il più importante regista vivente. Ma attenzione: non ha mai diretto Kinski stando dietro la cinepresa con un fucile. Non ha messo a repentaglio la vita di nessuno durante la lavorazione di Fitzcarraldo. Non è né pazzo né eccentrico. Il suo lavoro non si collega nell’alveo del romanticismo tedesco. E non è un megalomane».
L’esperienza cinematografica di Werner Herzog, come lui stesso non ha mancato di rilevare, si è nutrita delle suggestioni offerte da un’«epoca eroica» quale è la presente. Un’età di grandi, rivoluzionarie rotture con il passato, e tragicamente protesa verso l’autodistruzione. Bisognosa, proprio per questo, di immagini nuove: «Se si guarda bene la realtà, è evidente che ci stiamo tagliando le gambe. E non solo nel settore dell’ambiente, anche se è la punta dell’iceberg. Ho portato questo tema in diversi film ben prima che diventasse così attuale. Riguarda anche altri settori, la dignità umana è stata distrutta. Tra la gente si sono rotti legami molto forti e molto arcaici. Oppure per esempio la distruzione dei sogni... Non voglio far parte di quella gente. E penso che il cinema debba darci il coraggio di rimanere fedeli ai nostri sogni e di cercare di realizzarli».
La storia del cinema, inutile ribadirlo, gli riserverà un posto d’onore tra i più grandi registi di sempre. Ma un posto che non sarà mai centrale quanto quello che la sua vita ha riservato al cinema: «La porcheria della vita, la porcheria incredibile e meravigliosa della vita, diventa tollerabile solo se accompagnata dal cinema o dalla musica». Ed infine: «Non pretendo di rivoluzionare il mondo, ma ci sono momenti in cui mi dico: “Ecco come vorrei vivere”. Nel mio lavoro ho provato questi momenti, momenti in cui sono stato felice. Mi succede anche quando percorro distanze molto lunghe… M’immagino spesso di sparire, un giorno. Mi piacerebbe semplicemente sparire, andarmene, percorrere la strada finché non finisce. Vorrei avere dei cani da slitta con delle sacche e poi… partire o scendere per un fiume. Senza meta, prima o poi finirà. E poi continuerei ancora, fino alla fine. E non importa se anche il mondo finisce».


 Carlo Lizzani e Angelo Guglielmi
Bologna, 14 marzo 2008
Non so quante fotografie ritraggano insieme Carlo Lizzani e Angelo Guglielmi. Potete non crederci, ma il fatto di essere in mezzo a loro dà un certo fastidio anche a me! Se potessi tornare indietro, mi metterei di lato, all’esterno. E lascerei a chiunque lo desideri la possibilità di restringere il campo, di escludere la mia imbarazzante presenza da una compagnia di così alto profilo. Farei poi installare un grande specchio alle nostre spalle, per poter dare un volto alla gentile autrice della fotografia: si tratta di Cristina Bragaglia, docente universitaria e autrice di una Storia del cinema francese (Newton & Compton, 1995).
Questa foto, ad ogni modo, testimonia l’ammirazione che ho sempre nutrito per due uomini d’altri tempi. Uno, Carlo Lizzani, classe 1922, non aveva bisogno di presentazioni. Bastano i titoli di alcuni suoi film: Achtung! Banditi! (1951), Cronache di poveri amanti (1954), Il gobbo (1960), La vita agra (1964), Banditi a Milano (1968), Storie di vita e malavita (1975), Fontamara (1977), Mamma Ebe (1985), Celluloide (1996), Hotel Meina (2007)… L’altro è l’uomo a cui devo gran parte degli incontri documentati da questa Fotogallery: da assessore alla cultura della giunta Cofferati, e forse grazie ad una fitta rete di conoscenze, lo storico direttore di Rai 3 ha organizzato le migliori rassegne culturali della storia di Bologna. Non è un’esagerazione: tra il 2004 e il 2009, Bologna festeggiò con un megaconcerto in Piazza Maggiore l’assegnazione da parte dell’UNESCO del titolo di «Città Creativa della Musica», ospitò festival di prima grandezza – fra i tanti, Le parole dello schermo, incentrato sui rapporti tra letteratura, cinema ed editoria, ad apertura di uno sterminato cartellone estivo – e promosse tra le polemiche il primo festival cinematografico italiano sul mondo transessuale, Divergenti. Senza contare l’esposizione delle opere di Giorgio Morandi a New York e l’abolizione del ticket all’ingresso dei quarantadue musei di proprietà del municipio.
Come scrisse Gad Lerner nell’aprile del 2009, per festeggiare l’ottantesimo compleanno dell’amico, Angelo Guglielmi è «un tizio che ha vissuto due crolli di Wall Street e nel mezzo ci ha messo almeno due vite: quella del letterato d’avanguardia, élitario anzichenò; e quella dell’inventore di una televisione vera, popolare, immersa nella realtà. Finge per snobismo di appassionarsi solo al linguaggio (dunque tifa per il “Grande fratello”); desidera passare per cinico (altrimenti non avrebbe piazzato la Raffai a fare l’inquietante “Chi l’ha visto”); adorerebbe che lo ricordassimo come figlio di puttana (odia i buoni sentimenti e semmai gli ha preferito Giuliano Ferrara). Ma la verità che non ammetterà mai è che gli stanno a cuore robe démodé come la giustizia sociale e la decenza legale. Per questo rimane un vecchiaccio ribelle: e volevate anche pretendere che Berlusconi lo accettasse come presidente della Rai?».


Wangari Maathai
Bologna, 10 maggio 2010
Se ne è andata «il 25 settembre 2011 dopo una lunga e coraggiosa lotta contro il cancro», si leggeva sul sito internet del Green Belt Movement, l’organizzazione non governativa che ella stessa aveva fondato nel 1977 e che da allora combatte la deforestazione del continente africano. Proseguiva il comunicato: «La dipartita della Professoressa Maathai è prematura ed è una grandissima perdita per tutti coloro che la conoscevano - come madre, parente, collega, modello, e eroina; o che ammiravano la sua determinazione nel rendere il mondo un posto più pacifico, più sano e migliore».
Tra le grandi personalità africane, nessuna al pari di Wangari Maathai è riuscita a indirizzare la propria realizzazione professionale verso una così alta condivisione delle improcrastinabili battaglie a difesa dell’ambiente. Nata a Nyeri il 1° aprile 1940 in una modesta famiglia di etnia kikuyo, nel 1966 si laureò in Scienze Biologiche all’Università di Pitthsburg, grazie alla borsa di studio che il programma “Ponte aereo Kennedy” forniva agli studenti africani più meritevoli. Nel 1971 fu la prima donna dell’Africa Orientale a ricevere un dottorato di ricerca, e poi la prima a dirigere un dipartimento universitario in Kenya: al 1976 risale infatti la sua nomina a capo del dipartimento di Anatomia Veterinaria presso l’Università di Nairobi.
Il Green Belt Movement vide la luce l’anno successivo, su sollecitazione del Consiglio Nazionale delle Donne del Kenya, che la stessa Maathai avrebbe successivamente presieduto. Oggi, dopo oltre tre decenni di attività e grazie alla partecipazione di tremila donne, l’associazione può vantare una campagna di riforestazione che conta circa 30 milioni di alberi piantati con il coinvolgimento delle piccole comunità locali. Un impegno che è valso a Wangari Maathai il soprannome di Mama Miti, «mamma degli alberi». Non mancarono neanche i riconoscimenti internazionali… Nel 1984 le venne assegnato il Right Livelihood Award, noto come il Nobel alternativo, in seguito conferito ad un’altra icona ecofemminista, Vandana Shiva. E nel 2004, dopo altri vent’anni di lotte - anche contro il governo di Daniel Arap Moi, la cui polizia non esitò a picchiarla mentre stava piantando alberi nella foresta di Karura, nei pressi di Nairobi - la parlamentare e sottosegretaria al Ministero dell’Ambiente Wangari Maathai fu insignita del Premio Nobel per la Pace. Quello vero. In omaggio al «suo operato nel campo dei diritti delle donne, perché il suo lavoro ha ispirato moltissimi altri attivisti, perché ha saputo conciliare la scienza e il lavoro democratico». Per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace».
Durante la cerimonia di consegna del premio, pronunciò un discorso dall’enorme slancio profetico: «Sono passati trent’anni dall’inizio del nostro lavoro. Le attività che devastano l’ambiente e le società proseguono senza sosta. Oggi ci troviamo di fronte ad una sfida che richiede un cambiamento nel nostro modo di pensare, affinchè l’umanità smetta di minacciare il proprio sistema di supporto vitale. Siamo chiamati ad aiutare la Terra a guarire le sue ferite, e a guarire la nostra – anzi, ad abbracciare l’intera creazione in tutta la sua diversità, bellezza e meraviglia. [...] Nel corso della storia, arriva un momento in cui l’umanità è chiamata a passare ad un nuovo livello di coscienza, per raggiungere un terreno morale superiore. Un tempo in cui dobbiamo liberarci delle nostre paure e trasmetterci speranza a vicenda. Quel tempo è adesso». Da allora girò il mondo ripetendo sempre lo stesso messaggio: «In tutte le analisi dei problemi dell’Africa, c’è una risorsa che spesso non viene apprezzata: gli africani stessi». E l’immensa saggezza dell’Africa non è certo scomparsa con lei. Quell’Africa ancora dilaniata dalla povertà. Culla di un’umanità distratta. Terra insanguinata da eterni conflitti. Ma madre amorevole di una donna dolce e ostinata, capace di reggere sulle proprie spalle il peso di questo opprimente fardello. Un carico che ora grava sulle generazioni che verranno, alleggerito soltanto dalla forza del suo esempio.


Emanuele Macaluso
Bologna, 9 aprile 2010
Se esistesse, in Italia, una sinistra rigorosa e allo stesso tempo garantista, Emanuele Macaluso sarebbe il suo capofila più combattivo. L’ex senatore comunista è il miglior esempio di una cultura attenta allo Stato di diritto e insieme avversa al bisogno di impunità che l’attuale classe politica non si vergogna di rivendicare... Dopo aver animato la corrente "migliorista" del Pci, insieme a Giorgio Amendola, a Gerardo Chiaromonte e a Giorgio Napolitano, è oggi molto critico nei confronti del Partito democratico, a suo avviso colpevole di aver ripudiato la prospettiva socialista in favore di un riformismo senza identità.
In uno dei suoi ultimi libri, Leonardo Siascia e i comunisti (Feltrinelli, 2010), ripercorre i rapporti tra il grande scrittore siciliano e il maggior partito comunista d’Europa. Ma finisce col raccontare soprattutto un’amicizia personale, nella quale non mancò mai il confronto polemico. Quando il Pci siciliano entrò a far parte della giunta Milazzo insieme ai postfascisti del Msi, Sciascia cominciò a manifestare il proprio dissenso nei confronti del partito in cui militava, per poi rifiutare in linea di principio l’ipotesi del «compromesso storico» con la Democrazia Cristiana. La pubblicazione de Il contesto, nel 1971,  scatenò un acceso dibattito: nel suo romanzo, Sciascia disegnava uno scenario in cui nemmeno il Pci risultava estraneo alle connivenze della politica con il potere mafioso. Nei suoi propositi, il Partito comunista si sarebbe dovuto trasformare in un soggetto politico socialdemocratico e di ispirazione vagamente marxista, abbandonando per sempre l’illusoria attesa della rivoluzione. La rottura definitiva si consumò nel 1979, quando il «maestro di Regalpetra» accettò di candidarsi alle elezioni europee con i radicali. Macaluso, da segretario del partito in Sicilia e come membro della segreteria nazionale di Berlinguer, ebbe con lui scontri anche aspri. La loro estrema riconciliazione giunse solo pochi mesi prima della scomparsa dello scrittore, grazie alla condivisione di un’impopolare critica all’antimafia dei pentiti e delle leggi speciali.
«Né mafia né Mori», è stato per anni lo slogan del Partito comunista in Sicilia: Cesare Mori, il «prefetto di ferro», resta ancora oggi il simbolo dei metodi illegali e sommari a cui fece ricorso il fascismo per contrastare Cosa Nostra. Dal punto di vista di Leonardo Sciascia, la fedeltà a questo principio era motivata dalla stessa coerenza che gli impediva di accettare un Partito comunista al governo con la Dc: traeva cioè origine dal rifiuto di piegarsi al male per conseguire un bene superiore… «La democrazia non è impotente a combattere la mafia», scriveva in un articolo del 1987, in perfetta sintonia col pensiero di Macaluso. «O meglio: non c’è nulla nel suo sistema, nei suoi principi, che necessariamente la porti a non poter combattere la mafia. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge è uguale per tutti, la bilancia della giustizia. Se al simbolo della bilancia si sostituisce il simbolo delle manette – come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano – saremmo perduti irrimediabilmente come nemmeno il fascismo c’era riuscito».