mercoledì 24 dicembre 2014

Giovanni Bersani

Per tutti restava «il senatore», anche se la sua quarantennale carriera politica non si era protratta oltre il 1989. Nel percorrere un cammino costellato di successi, Giovanni Bersani aveva stretto amicizia con tutti i più grandi costruttori di pace del pianeta, da Albert Schweitzer a Madre Teresa di Calcutta, da Dom Helder Camara a Nelson Mandela. Oscar Luigi Scalfaro, durante la sua ultima visita sotto le Due Torri, gli rivolse un saluto colmo di affetto. E Romano Prodi parlava di lui con una riconoscenza che sfiorava la devozione. Si è spento serenamente oggi, alla veneranda età di cento anni, illuminando per un momento una concezione della politica tanto alta da non potersi mai davvero scindere dall'etica della carità.
Deputato DC per sei legislature, dal 1948 al 1976, nel 1952 fu scelto da De Gasperi come sottosegretario al Lavoro e alla Previdenza Sociale. Trascorse la settima legislatura a Palazzo Madama, per poi candidarsi al Parlamento Europeo, del quale aveva già fatto parte in qualità di membro nominato dal governo. Eletto nel 1979, aderì al Partito Popolare Europeo e venne riconfermato nel 1984.
A distinguerlo, in quegli anni, fu soprattutto il contributo che seppe offrire all’associazionismo cattolico, superando brillantemente gli ostacoli che un terreno sfavorevole come quello emiliano deve avergli riservato... Militò nelle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (ACLI), delle quali fu vice-presidente, e poi nel più conservatore Movimento Cristiano dei Lavoratori (MCL). Nel 1972 fondò il Comitato Europeo per la Formazione e l’Agricoltura (CEFA) e avviò importanti progetti di cooperazione con la Repubblica Democratica del Congo, la Tanzania, il Kenya, la Somalia, il Cile, l’Argentina, i Paesi della ex Jugoslavia, il Marocco e il Guatemala, coinvolgendo e responsabilizzando le comunità locali. Nel 1997, infine, diede vita alla Fondazione Nord-Sud per la solidarietà internazionale, una onlus che favorisce lo sviluppo agricolo, sanitario e infrastrutturale dei Paesi poveri, operando secondo le pratiche del microcredito e del commercio equo e solidale.
Giovanni Bersani era un centenario vitale e non domato, fedele a quel pensiero sociale cristiano di cui la sua carriera politica e il suo impegno umanitario sono stati esemplare testimonianza. Nell'ultimo decennio gli attestati di stima gli erano piovuti da ogni parte. Nel 2004 il Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna ne aveva sollecitato la nomina a senatore a vita, attraverso una risoluzione accolta col plauso generale e sottoscritta da tutti i gruppi. Con un’adesione ancor più entusiastica e trasversale, nell'ottobre 2010, era stato accolto l’appello de Il Resto del Carlino di proporlo come candidato al Nobel per la Pace. Ma una volta di più il «senatore» Bersani si era schernito. Aveva chiesto di tagliare corto, di lasciar perdere, con l’operosità umile e schiva dell'uomo abituato a pensare al futuro. Senza concedersi autocelebrazioni di sorta.


Manuel Lambertini

domenica 21 settembre 2014

Il miracolo di Leonard Cohen

Leonard Cohen (Montreal, 21 settembre 1934)
C’è tutto Leonard Cohen nel duplice proposito di festeggiare l’ottantesimo compleanno con l’uscita di un nuovo album e con la vagheggiata riscoperta, dopo molti anni, del vizio della sigaretta. Ci sono il suo innato senso della disciplina e un fondo di radicalismo mai tradito, la fremente esaltazione e l’autodenigrazione. Nei prossimi giorni forse sapremo se la promessa di riprendere a fumare sia stata onorata; il nuovo disco è invece realtà: Popular Problems, in uscita il 23 settembre, si annuncia come il più "politico" dei suoi tredici album – nel cupissimo scenario di un’umanità disorientata da tragedie come l’11 settembre o l’uragano Katrina – e sembra preannunciare un’altra attesissima tournée.
«Viviamo prigionieri di un senso di paura e di sconfitta, minacciati da forze oscure che modificano le nostre vite», ha detto anche di recente, ribadendo quello che è sempre stato un punto fermo della sua poetica. «Tutti soffriamo, tutti siamo impegnati in una lotta per il reciproco rispetto. Dobbiamo cominciare a riconoscere che il nostro dolore è uguale a quello degli altri, che la nostra battaglia è legittima quanto quella dei nostri nemici».
Leonard Cohen e il maestro Roshi,
scomparso il 27 luglio 2014 a 107 anni.
Elementari necessità economiche ne avevano costretto il ritorno sulle scene, nel 2008, a seguito di una frode commessa ai suoi danni dalla manager Kelley Lynch: dopo essersi ritirato per circa sei anni nel monastero zen di Mount Baldy, a Los Angeles, ospite dell’amico e maestro Kyozan Joshu Sasaki Roshi, Cohen aveva scoperto che il suo conto in banca era stato prosciugato e i diritti d’autore delle  canzoni venduti. Rimessosi in pista, sarebbe incredibilmente riuscito a sconfiggere il fantasma del massacrante tour dell’album The Future (1992), che lo aveva fatto risprofondare negli abissi della depressione, e a regalarsi una volta per tutte il piacere del confronto col pubblico.
Se si potesse ripercorrere con uno sguardo il romanzo della sua vita, lo si vedrebbe studiare il Talmud e l’arte dell’ipnosi nella Montreal degli anni ’40, e imbattersi con incontenibile meraviglia nelle poesie di Federico García Lorca. Lo si ritroverebbe nell’isola di Idra, in Grecia, insieme all’amata Marianne e all’amico poeta Irving Layton; oppure all’Avana, in attesa di poter difendere la Revolución da un eventuale attacco americano; o ancora nel deserto del Sinai, a cantare per le truppe israeliane schierate nella guerra del Kippur e a scrivere il testo di Lover, lover, lover, poi dedicata «agli eserciti di entrambe le parti».
È attraverso la sua opera, le sue poesie in musica, che ciascuna di queste pagine viene illuminata con rigore ed eleganza, in un miracoloso vortice di fede, amore, perdizione, misericordia. Vi si ritrovano, tutte insieme, le donne della sua vita: Suzanne Verdal, la ballerina «mezza matta» della casa «vicino al fiume», che gli offre «tè ed arance venute dalla Cina»; Marianne Ihlen, la musa di So Long, Marianne; ma anche Joni Mitchell, l’algida Nico – protagonista della disperata One Of Us Cannot Be Wrong – e Janis Joplin, ricordata nella struggente Chelsea Hotel; poi Suzanne Elrod, madre dei suoi due figli, Adam e Lorca, la fotografa Dominique Issermann, l’attrice Rebecca de Mornay, la pianista Anjani Thomas e altre ancora.
Leonard Cohen e il chitarrista Javier Mas
È un universo, quello di Cohen, dove l’amore carnale e la fede sembrano concorrere in egual misura ad alleviare le sofferenze umane e a riempirle di senso, come nel brano che lo ha reso immortale, quell’Hallelujah scritta in cinque lunghi anni, e nell'ancor più intensa If It Be Your Will: «Lascia che la tua misericordia si riversi / su tutti questi cuori che bruciano all'inferno / se è tua volontà / di farci stare bene». Quando, in un’intervista del 1994, gli fu chiesto quale canzone avrebbe voluto scrivere, la sua risposta fu: «If It Be Your Will. E l’ho scritta io».
«Se conoscessi il luogo in cui abitano le canzoni lo visiterei più spesso», è una delle sue battute più frequenti. E oggi che ha dichiarato di aver prodotto Popular Problems sotto l’influsso di un’ispirazione torrenziale, sembrano trovare conferma le parole della sua biografa Sylvie Simmons, secondo cui il tour del 2008 e l’album Old Ideas del 2012 gli avrebbero fatto raggiungere quella condizione di leggerezza e serenità che aveva sempre cercato. Sono stati invece smentiti coloro che avevano visto Old Ideas come un congedo, per quanto ancora incisivo e disinvolto: Leonard Norman Cohen, ebreo osservante «nato con l’abito» e monaco zen dal sorriso obliquo, non ha in programma alcun commiato.


Manuel Lambertini

lunedì 11 agosto 2014

Dio salvi i senatori a vita!

Da sinistra: Renzo Piano, Elena Cattaneo,
 il Presidente del Senato Pietro Grasso e Carlo Rubbia.
Palazzo Madama, Roma, 4 settembre 2013.
Della riforma costituzionale approvata in prima lettura al Senato – che al pari di tutti gli sgangherati pacchetti di riforme «istituzionali» o «strutturali» visti finora avrà come principale funzione quella di riempire le scalette dei talk show per i prossimi quindici anni – all’opinione pubblica italiana non potrebbe importare di meno. Lo ha scritto Scalfari su Repubblica, lo si sente dire in ogni bar di ogni provincia d’Italia. E riguardo allo stesso disegno di legge, non c’è stato quasi nessuno che abbia avuto lo slancio di criticare l’abolizione dell’istituto dei senatori a vita. Persino sul sito web del Fatto Quotidiano si poteva leggere lo stucchevole tweet: «Riforme, aboliti i senatori a vita. Finalmente una misura che allevia l’esistenza a milioni di disoccupati». Insomma: ci sono tutti gli elementi perché sia io a occuparmi dell’argomento.
Se la riforma del Senato dovesse uscire immutata dal lungo iter parlamentare che la attende, i cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica resterebbero in carica sette anni. Una scelta deliberata il 4 agosto, lo stesso giorno in cui si è votato il mantenimento dell’immunità parlamentare: «Per rispetto ai nostri padri costituenti non possiamo distruggere qualcosa che è stato immaginato come corollario della nostra Costituzione», ha detto il capogruppo del Pd Luigi Zanda… E con ragione! Benché i maligni possano covare il sospetto che la sua deferenza fosse rivolta più a Berlusconi che ai «padri costituenti», non è dato vedere alcun valido motivo per riservare ai 100 membri del futuro Senato un trattamento di sfavore rispetto ai ben 630 deputati che dell’immunità continuerebbero a beneficiare!
Ora, anche alla luce della spiccata sensibilità istituzionale del senatore Zanda, sarebbe forse scandaloso voler sapere come mai ai senatori a vita sia toccata una sorte diversa? Credo sia giusto chiederselo, anche rischiando di porsi al di fuori di un comune sentire che li irrideva ormai da anni. Stiamo parlando di figure a cui sono molto affezionato, lo ammetto. Addirittura resto fermamente convinto che nessun altro istituto dell’Italia repubblicana sia stato all’altezza delle proprie funzioni quanto quello dei senatori a vita, anche nei casi di persone nominate per chiare ragioni di opportunità politica.
Da sinistra: Oscar Luigi Scalfaro, Giorgio Napolitano,
Rita Levi-Montalcini, Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Rubbia.
Palazzo del Quirinale, Roma, 20 aprile 2009.
La sola voce levatasi in loro difesa, per quanto ne so, è stata quella di Elena Cattaneo, che peraltro si è limitata a sottolineare come «una buona parte della politica voglia effettivamente fare a meno di molte competenze per decidere in autonomia». In autonomia dai «parrucconi», certo, ma anche dal resto della cittadinanza, e col beffardo pretesto di «tagliare le spese». Anzi, se c’è un elemento di coerenza nelle ultime riforme istituzionali è proprio la sistematica riduzione degli spazi della democrazia e della rappresentanza. Quali benefici potranno mai scaturire da un Senato non elettivo, composto di persone nominate dai sindaci e dai consiglieri regionali? Una situazione surreale, ridicola. Soprattutto alla luce del consenso di cui le stesse riforme sembrano godere in Parlamento e nel Paese, e dell’insofferenza con cui sono guardati i «dissidenti».
Ecco, l’abolizione dei senatori a vita non è che un piccolo segnale di questa deriva “barbarica”, nel senso neutro della parola: l’ostentata ignoranza del linguaggio della politica, il dilettantesco disprezzo per i suoi meccanismi, per le sue incastellature formali, per i suoi simboli. Davvero si può gioire di fronte all’abolizione di un istituto che dal 1948 ad oggi ha annoverato tra i propri dignitari personalità come don Luigi Sturzo, Ferruccio Parri, Eugenio Montale, Pietro Nenni, Eduardo De Filippo, Norberto Bobbio, Mario Luzi, Rita Levi-Montalcini, Giulio Andreotti, Claudio Abbado? Se non è barbarie questa… Eppure sarebbe ingiusto addebitare ogni responsabilità al governo Renzi: i Cinquestelle avevano perfino proposto l’abolizione totale del Senato, con l'ovvia conseguenza che anche le leggi di revisione costituzionale avrebbero dovuto essere approvate dalla sola Camera!
Non c’è dubbio: i protagonisti della nuova politica italiana, tutti imbevuti di un berlusconismo peggiore dell’originale, stanno liquidando una storia più grande di loro. Con quale criterio logico lo stiano facendo, poi, rimane un mistero. Perché assegnare al Capo dello Stato la prerogativa di nominare cinque senatori «per meriti illustri» precisando poi che gli effetti di tali meriti si estingueranno dopo sette anni, senza possibilità di un secondo mandato? La mia è un’obiezione più di forma che di merito, una riserva quasi estetica: che senso ha tutto questo?
Al di là dell’irrisoria riduzione dei costi prevista dall’operazione, l’unico valido motivo che potrebbe animarla sarebbe l’intima certezza che non esistano né esisteranno più eccellenze pari a quelle del passato, insieme a un’incrollabile convinzione nell’idea che non possano esservi meriti tanto alti da implicare l’assegnazione di una qualsiasi carica pubblica «a vita».
Ebbene, io intendo combattere l’una e l’altra idea: per tenere viva la gratitudine e il senso di meraviglia nei confronti di chi, nel presente, illustra «la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Chi meglio potrebbe occupare gli scranni di Palazzo Madama tra Dario Fo, Umberto Eco, il già citato Eugenio Scalfari, Stefano Rodotà, Pietro Citati, Giorgio Albertazzi, Marco Pannella, Gino Strada, Francesco Guccini, Ennio Morricone, Carla Fracci, Renzo Arbore? Quanti nomi dovremmo ancora aggiungere!
Lo scranno di Giulio Andreotti
Alcuni di loro onorerebbero l’investitura regalandoci grandi interventi e indimenticabili furori, altri vi rinuncerebbero il giorno stesso della nomina, come già fecero Arturo Toscanini e Indro Montanelli. Quest’ultimo, in particolare, era convinto che il potere andasse tenuto «a debita distanza»: «In questo mondo in cui tutti si scannano per ficcarsi in, io sono nato out, e out devo restare», scrisse al presidente Cossiga. È il caso di dire che sbagliò, se si considera quello che avrebbe potuto dare. Ed era anche clamorosamente sbagliata la famosa battuta sul berlusconismo in cui affermava: «Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L’immunità che si ottiene col vaccino». L’ultimo decennio gli ha dato torto, e oggi Berlusconi è più in che mai: detta l’agenda politica al governo e alle opposizioni, è entrato a far parte del loro stesso codice genetico. Solo il futuro dirà se Montanelli avesse invece ragione quando emetteva un altro lapidario verdetto, tremendamente rinunciatario ma mai smentito dai fatti: «In Italia si può cambiare soltanto la Costituzione. Il resto rimane com’è».

giovedì 17 luglio 2014

Johnny Winter

John Dawson Winter III
(Beaumont, Texas, 23 febbraio 1944 - Zurigo, 16 luglio 2014)
Un cappellaccio da texano da cui spiovevano lunghi capelli bianchi, che sotto le luci dei riflettori diventavano fosforescenti; braccia magrissime ma vigorose, disseminate di tatuaggi. Johnny Winter, settant'anni compiuti a febbraio, si è spento improvvisamente in un hotel di Zurigo, a pochi giorni dal suo ultimo concerto in Austria.
Albino come il fratello Edgar, che per tutta la vita lo ha accompagnato in giro per il mondo, era considerato uno dei più grandi chitarristi blues in attività; talento e carisma gli avevano però fatto oltrepassare i confini del genere, e il suo virtuosismo con la chitarra slide poté arricchire di interpretazioni memorabili alcuni tra i più grandi classici rock, da Johnny B. Goode di Chuck Berry a Highway 61 Revisited di Dylan.
Calcava le scene dall’età di quindici anni, con dedizione e disciplina, tra abusi di alcol e droghe e collaborazioni straordinarie. Appena diciassettenne, si dice avesse convinto il già celebre B.B. King a cedergli palco e chitarra, entusiasmando un pubblico di soli neri. Al suo primo album, The Progressive Blues Experiment (1968), avevano partecipato musicisti del calibro di Willie Dixon e Little Walter. Nel 1969 si era esibito all’ultima giornata del Festival di Woodstock, un’esperienza che fin da allora parve segnare in modo indelebile tutta la sua carriera. Aveva poi condiviso il palcoscenico con Jimi Hendrix e gli era stata attribuita una breve relazione con Janis Joplin. Il suo nome, non solo tra i cultori dell’electric blues, sarebbe entrato nello stesso Pantheon di John Lee Hooker, Jimmy Page, Eric Clapton, Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd.
Johnny Winter al Festival di Woodstock nel 1979
Nelle vesti di produttore gli si deve la rinascita musicale del suo mito di gioventù, Muddy Waters, di cui ha prodotto dischi come Hard Again (1977), I’m Ready (1978) e King Bee (1981): Waters lo avrebbe definito «il mio figlio adottivo».
Tra gli album di maggior successo, Saints & Sinners (1974), Nothin’ But The Blues (1977), l'amatissimo Guitar Slinger (1984) e Let Me In (1991), oltre a un numero sterminato di registrazioni live. Premiato con il Grammy Award nel 2004 per I’m a Bluesman, la rivista «Rolling Stone» lo ha collocato al 63esimo posto tra i 100 migliori chitarristi di tutti i tempi. Sono infine freschi di realizzazione il documentario Johnny Winter: Down and Dirty (2014), presentato in occasione del suo settantesimo compleanno, e l'album Step Back, che sarà pubblicato postumo.
Reduce di un’esistenza vissuta sulla strada, Winter era stato in Italia solo poche settimane fa, alla fine di maggio, per esibirsi in un mini tour di tre date a Roma, Udine e Mezzago. Nel febbraio 2012 aveva invece fatto tappa al Teatro Novelli di Rimini, con la tournée dell’album Roots. Ebbi il privilegio di incontrarlo lì. Insieme alle poche persone che si erano radunate davanti al teatro qualche ora prima del concerto, vidi parcheggiare il camper sul quale riposava. Erano appena arrivati dall'Est Europa, ci disse una sua giovane assistente, ma se avessimo aspettato qualche minuto saremmo stati ricevuti uno alla volta. Quando arrivò il mio turno, fui accompagnato al suo tavolo. Mi trovai davanti una creatura nobile, esile, fragilissima; i capelli mi sembrarono più radi, forse perché raccolti dietro a un grande cappello da cowboy. Capii subito che era diventato quasi cieco; ricordo l’impegno e la fatica con cui autografò la piccola fotografia che gli avevo portato, chinando il capo quasi fino a sfiorarla col viso.
Rimini, 25 febbraio 2012
Forse per una suggestione legata al luogo dell’incontro, mi venne in mente l’oracolo ermafrodita di Fellini Satyricon, gallina dalle uova d’oro di una corte dei miracoli decisa a sfruttarne fino in fondo le doti e la fama. Prima di andare via volli stringergli la mano, e per attirarne l’attenzione dovetti toccargli le dite: restai stupito dalla risolutezza della sua presa, da quanta forza avesse conservato; e scacciai ogni pensiero cinico. Johnny Winter sapeva che ad affollare i suoi concerti erano persone legate a una leggenda del passato, già appagate e spesso incapaci di pretendere alcunché dalle nuove performance di un così grande sopravvissuto. Ma non poteva vivere in modo diverso. Era scritto che il suo cammino dovesse interrompersi senza attese, nella frugalità di un luogo senza importanza, come in una sublime e dolente improvvisazione blues.
Sempre su un palco, sempre sulla strada. Gli sia lieto il prossimo viaggio.

Manuel Lambertini

sabato 10 maggio 2014

Dove siete, femministe?

Con l’arresto di Riccardo Viti, responsabile della morte di Andreea Cristina Zamfir e di indicibili violenze ai danni di un numero imprecisato di prostitute nella provincia di Firenze, il caso del "mostro di Ugnano" è da considerarsi chiuso. Eppure a me resta un interrogativo che covava ormai da tanto tempo. Dove sono le attiviste per i diritti delle donne, in particolare quelle di orientamento progressista, ogni volta che a subire violenza è una prostituta?
La tragedia di Andreea ha suscitato molta compassione, perché la sua storia non poteva lasciare indifferenti: era molto giovane, aveva un marito e due figli; e pare stesse vivendo una condizione di povertà, sfruttamento, violenza domestica, tossicodipendenza.
Ma se la vittima avesse avuto un profilo biografico appena diverso, meno tormentato, e se la scelta di prostituirsi fosse stata del tutto volontaria e consapevole, che differenza avrebbe fatto in relazione alla gravità del delitto? Qualcuno può forse credere che una violenza carnale – se non la morte più atroce – debba essere compresa tra le normali conseguenze del vendere il proprio corpo?
Eccoci al punto. Dove siete, femministe? Dove siete quando le vittime della violenza di genere violano i vostri dogmi con una condotta "irregolare", quando non corrispondono al vostro cliché di donna/moglie/madre stalkizzata, umiliata tra le mura di casa o ridotta al silenzio da uomini intimamene consapevoli di aver perso il loro dominio sociale?
Non mi risulta che per casi come quello di Andreea, così scandalosamente frequenti, vi siate mai prodigate in particolari manifestazioni di solidarietà. Non mi risulta che siate scese in strada a organizzare fiaccolate o che abbiate espresso la vostra vicinanza alle vittime attraverso un qualche tentativo di sensibilizzazione pubblica. E non mi pare nemmeno che abbiate tentato di contrastare culturalmente quel tipo di approccio al problema della prostituzione che obbedisce solo a logiche di ordine pubblico e di decoro urbano, senza prestare la minima attenzione alla necessità di tutelare le prostitute stesse, la loro dignità di persone, il loro diritto di non essere sfruttate e violentate.
Eravate forse troppo impegnate a promuovere le quote rosa ad ogni livello della società? A protestare per la bocciatura della "parità di genere" in Parlamento? A criticare la "satira sessista" e a difendere Laura Boldrini e le deputate Pd dagli insulti "a sfondo sessuale" del Movimento 5 Stelle? Non è che anche per voi, care femministe, la vita di certe donne valga meno di quella di altre?
È di scottante attualità, in Francia, una polemica che vede la maggioranza delle militanti femministe dileggiare e insultare le prostituite organizzate in associazioni volontarie, escludendole da battaglie cui vorrebbero prendere parte al fianco di tutto il genere femminile. Non credo che la posizione delle femministe italiane sia diversa. Non credo, insomma, che abbiano mai messo in discussione l’autoreferenzialità di ideologismi grotteschi e esasperati, lontani anni luce dalle sacrosante lotte di emancipazione del passato; preconcetti che rivelano tutta la loro infausta portata nel momento in cui arrivano a respingere un’umanità a volte sofferente e a volte allegramente disinvolta, ma sempre ferita ed emarginata.
«Nel mondo esiste la bellezza ed esistono gli oppressi», diceva Albert Camus. «Per quanto difficile possa essere, voglio restare fedele ad entrambi».

Manuel Lambertini

mercoledì 30 aprile 2014

Il crimine dell’Occidente

La presente riflessione avrebbe potuto intitolarsi Il crimine della Germania, se la campagna elettorale per le imminenti elezioni europee, tra puerili proclami anti-tedeschi e reazioni perbeniste altrettanto patetiche, non avesse vanificato la possibilità di affrontare serenamente un tema così delicato; e se lo scopo principale di tale riflessione non fosse stato quello di ricordare, a un anno esatto dalla scomparsa, la grande intellettuale francese Viviane Forrester, autrice di un memorabile pamphlet intitolato, appunto, Il crimine dell’Occidente (Ponte alle Grazie, 2005).
Hamas e al-Fatah annunciano il governo di unità nazionale.
Ramallah, 23 aprile 2014.
Partiamo da alcuni semplici fatti di politica internazionale. Primo fatto: la riconciliazione di al-Fatah e Hamas nei Territori palestinesi. I due grandi partiti politici della Palestina occupata –  laico e nazionalista l’uno, islamista l’altro –  entrati in un conflitto fratricida a partire dal 2007, hanno annunciato la volontà di dare vita ad un governo di unità nazionale. Nuove elezioni dovrebbero essere convocate entro i prossimi sei mesi. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, dopo il fallimento dell’ennesima mediazione americana, sembra aver voluto anteporre l’unità del proprio popolo ad ogni altro obiettivo. Attirando a sé un maggiore consenso interno. Ma anche le ire di Israele e degli Stati Uniti. Senza appello la reazione del governo israeliano, nelle parole del primo ministro Benyamin Netanyahu: «L’accordo Olp-Hamas uccide la pace. È un enorme passo indietro. Speravamo che Abu Mazen avesse fatto sua l’idea di uno Stato ebraico e di due Stati-nazione, uno palestinese e l’altro ebraico, e invece ha concluso un patto con Hamas, organizzazione terroristica che vuole distruggerci». Gli ha fatto eco il Dipartimento di Stato americano: «Siamo delusi dall'annuncio di oggi. Questo sviluppo può danneggiare seriamente gli sforzi per la pace». Timide aperture sono invece arrivate dall’Unione Europea. Inascoltata la precisazione finale di Abu Mazen, giunta nella serata del 23 aprile: «L’accordo di oggi [con Hamas] non è in contraddizione con i colloqui di pace con Israele, né con la soluzione dei “due Stati”».
Il presidente dell'Anp Abu Mazen con Ismail Haniyeh di Hamas.
Hamas governa la Striscia di Gaza dal 2007, quando ne prese militarmente possesso dopo essere stata esclusa dal governo dell'Anp, pur avendo di fatto vinto le elezioni parlamentari contro al-Fatah. Il prezzo fu una sanguinosa guerra civile tra fazioni palestinesi che privò la causa nazionale di una effettiva rappresentanza politica: da allora la Cisgiordania è governata da Abu Mazen e da al-Fatah, Gaza si trova sotto il controllo di Hamas e in una condizione di isolamento internazionale.
Ciò che Usa e Israele stanno chiedendo al presidente palestinese Abu Mazen, in breve, è di mantenere uno status quo che vede la Palestina divisa e assoggettata alle esigenze dello Stato ebraico. Una resa senza condizioni. Nulla di diverso da ciò a cui i palestinesi erano stati abituati sin dalla metà degli anni ’90: è lo stesso stato di cose che le offerte israeliane a Camp David, nel luglio 2000, avevano tentato di imporre come base di un accordo definitivo, e che al termine della Seconda Intifada ha finito per consolidarsi con modalità ancor più drammatiche. Una posizione che oggi si colora di tinte tragicomiche. Perché dopo aver lungamente sollecitato i palestinesi a rappresentare una sola ipotesi nazionale, e non due entità territoriali divise e ostili, israeliani e americani vorrebbero costringere Abu Mazen a scegliere tra la pace con Hamas e la pace con Israele. L’Autorità nazionale palestinese, ai loro occhi, non ha ormai altra funzione all'infuori di quella di garantire la sicurezza di Israele. Costi quello che costi. Inclusa, e tutt’altro che deplorata, la prosecuzione della guerra civile con Hamas.
Il segretario di Sato Usa John Kerry tra Shimon Peres e Abu Mazen
al World Economic Forum sul Mar Morto, Giordania, 26 maggio 2013.
Secondo fatto: il 27 aprile, mentre Israele si apprestava a celebrare il giorno del ricordo dell’Olocausto, Abu Mazen ha rivolto un «messaggio speciale al popolo ebraico», definendo la Shoah «il più odioso crimine contro l’umanità avvenuto nell'era moderna». Risposta di Netanyahu: «Anziché tentare di compiacere la comunità internazionale, Abu Mazen farebbe meglio a rompere i rapporti con Hamas»… Di tenore opposto, ma non meno semplicistici, i commenti apparsi sulla stampa occidentale, a partire dal comunicato dell'Associated Press con cui è stata diffusa la notizia: le dichiarazioni del presidente palestinese, secondo l'Ap, «segnano una rara ammissione da parte di un leader arabo delle sofferenze del popolo ebraico durante il genocidio nazista». Su La Stampa Maurizio Molinari, per fare solo un esempio, ha scritto: «È la prima volta che un leader palestinese compie questo passo, rompendo un tabù nel mondo arabo». La prima volta? Anche senza ricordare la visita di Yasser Arafat alla casa di Anna Frank, nel marzo 1998, ogni commentatore dovrebbe avere la consapevolezza che dichiarazioni come quelle di Abu Mazen erano pressoché ordinarie tra i leader arabi del secolo scorso. Il negazionismo arabo è un fenomeno relativamente recente, la cui ascesa ha coinciso in buona sostanza con il riflusso fondamentalista degli ultimi decenni. E se l’insistenza con cui si condanna l’antisemitismo altrui non fosse che un tentativo, anche inconsapevole, di espiare la colpa di un crimine tutto occidentale come fu la Shoah?
È qui che Viviane Forrester ci viene in aiuto. Ebrea nata a Parigi nel 1925, fu costretta alla fuga dalle persecuzioni razziali degli anni ’30 e ’40: «L’orrore che mi prendeva di mira era europeo», avrebbe ricordato in seguito. Scrittrice, saggista, critica letteraria. Autrice di saggi di grande sucesso come L’orrore economico (1996), contro la globalizzazione neoliberista, e Il crimine dell’Occidente (2004), era considerata «la Fallaci di sinistra». Pochi meglio di lei hanno saputo descrivere l’imbarazzante, colpevole posizione del mondo occidentale rispetto al conflitto arabo-israeliano. È scomparsa il 30 aprile 2013.
Viviane Forrester (Parigi, 29 settembre 1925 - Parigi, 30 aprile 2013)
Ne Il crimine dell’Occidente, pubblicato in Francia da Fayard dieci anni fa, la Forrester scriveva: «Israeliani e palestinesi avrebbero potuto e potrebbero ancora distinguere la loro specificità comune in seno allo spazio internazionale e al suo clima paternalistico, tacitamente sprezzante, sempre direttivo, e riconoscere di essere entrambi considerati (con una certa complice preferenza per Israele) come degli ex subalterni promossi alla parità senza convinzione, per generosità, per buona creanza democratica; e i loro tragici conflitti sono visti talvolta con inquietudine, sempre con una degnazione piena di rimprovero, ma soprattutto con la preoccupazione di mantenere relegati altrove, così camuffati, i sommovimenti generati dall'inferno creato per gli ebrei in Europa che avevano determinato e che, occultamente, determinavano ancora il dramma delle due nazioni. […] Bisogna sottolineare che oggi questo Occidente non è evidentemente più quello della seconda guerra mondiale. L’Europa attuale, in particolare, non ha più nulla a che vedere con le sue ore maledette.  […] Per Israele e per la Palestina è ora di togliersi il marchio di quel passato di cui gli uni furono le prede e al quale gli altri furono estranei. Di riconoscere ciascuno la propria indipendenza di fatto e di ammettere di essere entrambi più vicini l’uno all'altro di quanto lo siano certe potenze che pretendono di ravvicinarli. Di non limitarsi più alle scene mediatiche e grandiose in cui le telecamere, ma soprattutto i grandi presidenti americani, estasiati all'idea di un lusinghiero ingresso nei libri di scuola, l’uno dopo l’altro, attraverso gli anni, puntano sui dirigenti palestinesi e israeliani riuniti presso di loro sguardi commossi, lucidi, di mamme trionfanti all'idea di aver finalmente calmato i piccoli o stizzite per non essere riuscite a far intendere ragione a quei ragazzacci. […] Oltre alle evidenti ragioni di politica internazionale, se le grandi potenze sono rimaste così legate a Israele e alla Palestina è proprio perché in Medio Oriente si svolgono ancora, a distanza, da decenni, i prolungamenti della loro peggior storia personale, da cui non riuscivano e non riescono a distaccarsi e le cui prove toccano ancora a coloro che ne furono i martiri e ad altri che ne sono innocenti. Tali potenze speravano inconsciamente di aver trasferito per sempre nel presente di quelle regioni straniere le tracce e le conseguenze del passato funebre che ossessionava le memorie e alterava le coscienze. Si dà il caso che il futuro tragico d’Israele e della Palestina, imprevisto nelle proporzioni che sta assumendo, abbia fatto molto per camuffarlo. Interporvi i propri buoni uffici, sostenervi i ruoli virtuosi di guide e arbitri garantisce le amnistie dell’oblio, assume valore di assoluzione e ristabilisce l’autorità morale di tali potenze, liberandole dai turbini di un passato ricusato».

Manuel Lambertini

giovedì 17 aprile 2014

Gabo

Gabriel Garcìa Márquez (Aracataca, 6 marzo 1927 - Città del Messico, 17 aprile 2014)
Nei maggiori siti web di informazione la notizia della scomparsa di Gabriel Garcìa Márquez ha surclassato un’altra notizia, di tutt’altro tenore: la scoperta, a 500 anni luce dalla nostra galassia, di un pianeta molto simile alla Terra, che presenterebbe tutte le condizioni necessarie alla presenza di acqua allo stato liquido.
La morte di Gabo ha interrotto queste fantasticherie. È stato come se la dipartita del più grande scrittore contemporaneo, il padre del realismo magico, ci avesse riportato coi piedi per terra, ricordandoci di quante meraviglie sia ancora capace questo mondo, e di quanta generosa nobiltà possano brillare le sue anime migliori. La sua ossessione, diceva, era la solitudine dell'uomo; ha dato il meglio del proprio genio nel raccontare la solitudine del potere, quell'ebbrezza destinata a «decomporsi in raffiche di disagio» che nelle sue narrazioni viene sempre ricondotta ad una dimensione eminentemente umana.

Da Cent’anni di solitudine (1967): «Allora entrarono nella stanza di José Arcadio Buendía, lo scossero con tutte le loro forze, gli gridarono nell’orecchio, gli misero uno specchio davanti alle narici, ma non riuscirono a svegliarlo. Poco dopo, quando il falegname gli prendeva le misure per la bara, videro attraverso la finestra che stava cadendo una pioggerella di minuscoli fiori gialli. Caddero per tutta la notte sul villaggio in una tormenta silenziosa, e coprirono i tetti e ostruirono le porte, e soffocarono gli animali che dormivano all’aperto. Tanti fiori caddero dal cielo, che al mattino le strade erano tappezzate di una coltre compatta, e dovettero sgombrarle con pale e rastrelli perché potesse passare il funerale».

La pioggia di fiori gialli, da questa parte dell'oceano, non è ancora arrivata. Ma per non smettere di guardare il cielo, continueremo ad aspettarla.

Manuel Lambertini

domenica 30 marzo 2014

Piano B.

Anche questo blog – al pari di altri, che possono fortunatamente contare su qualche visualizzazione in più – contribuisce alla diffusione dell’appello di Libertà e Giustizia contro l’“abolizione” del Senato promossa dal governo Renzi.
L’unico appello che sia stato qui condiviso, del marzo 2011, chiedeva un’opposizione a oltranza alla riforma della giustizia dell’allora governo Berlusconi, perché «autoritaria» e «incostituzionale». È significativo che a soli tre anni di distanza molti degli stessi intellettuali debbano radunare le loro forze contro un esecutivo del Pd, fattosi carico dell’annosa responsabilità di attuare «un piano che era di Berlusconi».
Ebbene: non c’è parola, tra quelle che seguono, con la quale mi senta in dissenso.


Verso la svolta autoritaria

Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali.
Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto.
Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato.
Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone.

Primi firmatari:
Nadia Urbinati
Gustavo Zagrebelsky
Sandra Bonsanti
Stefano Rodotà
Lorenza Carlassare
Alessandro Pace
Roberta De Monticelli
Salvatore Settis
Rosetta Loy
Corrado Stajano
Giovanna Borgese
Alberto Vannucci
Elisabetta Rubini
Gaetano Azzariti
Costanza Firrao
Alessandro Bruni
Simona Peverelli
Sergio Materia
Nando dalla Chiesa
Adriano Prosperi
Fabio Evangelisti
Barbara Spinelli
Paul Ginsborg
Maurizio Landini
Marco Revelli

Manuel Lambertini

domenica 9 marzo 2014

Bukowski oltre Bukowski

Charles Bukowski
(Adernach, 16 agosto 1920 - San Pedro, 9 marzo 1994)
Non c’è scrittore del XX secolo che possa vantare un saccheggio di citazioni pari a quello quotidianamente subito da Charles Bukowski. Henry Chinaski, o Hank, per gli amici. I suoi libri, riferisce il biografo Jim Christy in La sconcia vita di Charles Bukowski (Feltrinelli, 1998), sono i più rubati in tutte le biblioteche americane e canadesi. Le sue riflessioni, ironiche, sporche, amare, e le sue inimitabili imprecazioni, hanno fatto di lui l’autore americano contemporaneo più tradotto al mondo, nonché il «compagno di sbronze» ideale per milioni di persone.
Quelle frasi, è giusto ricordarlo, non sono state pensate come aforismi. Mai sarebbe passato per la testa a un tipo come Bukowski di scrivere aforismi. Sono dialoghi di romanzi, versi di poesie, o al più dichiarazioni selvaggiamente estrapolate dalle tante interviste rilasciate negli anni. Un’operazione non troppo diversa, di fatto, da quella compiuta con Il sole bacia i belli: Interviste, incontri, insulti (Feltrinelli, 2014), il libro a cura di David Stephen Calonne che Feltrinelli ha pubblicato pochi giorni fa per celebrarne il ventennale della morte.
Come spesso accade agli autori di così vasta popolarità, anche Bukowski ha i suoi detrattori eccellenti. Tra gli altri, il noto critico Dan Schneider – in rappresentanza, per la verità, di gran parte della critica ufficiale – e il cantautore australiano Nick Cave. Quest’ultimo, in un’intervista a “Rolling Stone” del 1994, alla domanda su quali opere dovessero leggere gli studenti liceali, rispose: «Dovrebbero leggere la Bibbia, dovrebbero leggere Lolita. Dovrebbero smetterla di leggere Bukowski e dovrebbero smetterla di ascoltare la gente che dice loro di leggere Bukowski».
Per tutti, Bukowski è il «vecchio sporcaccione» nichilista dedito all’alcol, al sesso e alle corse dei cavalli. E Il sole bacia i belli, nel quale lui stesso si racconta con la consueta onestà, non disattende affatto questa descrizione: «Norman Mailer ne ha sparate tante di stronzate, ma una cosa bella penso l’abbia detta: “La maggior parte degli americani trova la propria ispirazione spirituale quando è ubriaca, e io sono uno di questi americani”. Un’affermazione che io appoggio al cento per cento, ‘fanculo Il nudo e il morto. L’unica cosa è che uno deve stare attento a come mischia alcol e sesso. La cosa migliore per un uomo saggio è di fare sesso prima di ubriacarsi perché l’alcol distrae il vecchio picciolo lì in basso. Fino ad ora mi è andata piuttosto bene». (Glenn Esterly, La poesia butterata di Charles Bukowski. Taccuino di una vecchia umanità sporcacciona, “Rolling Stone”, 17 giugno 1976).
Grazie a questa nuova raccolta di interviste si può venire a conoscenza di qualche particolare in più sulla sua vita e sul suo pensiero; e trarne – come sempre, quando si tratta del vecchio Hank – un gran divertimento. Saltano agli occhi, prima di tutto, la sua unicità di scrittore, la sua voglia di isolamento unita ad un fondo di tenerezza, e la strenua resistenza che oppone a chiunque tenti di incasellarlo in questa o in quella corrente letteraria. In particolare, viene più volte rimarcata una certa ostilità per la Beat Generation.
Quando la giornalista di “High Times” Silvia Bizio, unica intervistatrice italiana della raccolta, gli chiede conto della sua assenza al Festival dei poeti di Castel Porziano, cui avrebbe dovuto partecipare nell’estate 1980, lui risponde senza giri di parole: «Non sono andato perché non mi piaceva la sfilza di poeti americani con i quali avrei dovuto tenere il reading. Non leggerei con loro neanche a Santa Monica in California; non starei neanche nella stessa stanza con loro». Appena gli viene fatto notare che in Italia la sua figura è leggendaria quanto quella di Allen Ginsberg, il suo tono si fa sarcastico: «Allen è ok, Allen non è male, sì, sono tutti bravi poeti: Gregory Corso, il ragazzo di Ginsberg [Peter Orlovsky], Joan Baez, Timothy Leary, Frank Zappa, Bob Dylan… La cultura americana non è male. La cultura americana è… credo sia arretrata anni luce. È come un corpo che trascina una coda, ma la coda è dietro al corpo e trascina la polvere».
Già nel 1975, conversando con Marc Chénetier per la “Northwest Review”, aveva chiaramente preso le distanze da Kerouak e Ginsberg: «In loro sento una certa falsità di fondo. Non mi piace nessuno di quella cricca. Facevano troppo gli amiconi fra loro. Si riunivano e facevano questo e quello, ma credo che gli artisti lo abbiano fatto per molto tempo. Riunirsi e leggere poesie e così via; ma questo mi ha sempre irritato. Mi piacciono gli uomini che ce la fanno per conto loro, senza doversi unire e stare insieme. Ero a Frisco [San Francisco], sai, in un caffè, e un tizio mi ha accompagnato a casa e ha detto: “Be’, a volte, a qualsiasi ora del giorno, li trovi lì dentro a bere caffè”. Voglio dire… diavolo!». Poi però ammetteva di non aver conservato grandi ricordi di quel periodo: «Non ne so molto. Ero immerso nei miei dieci anni alcolici all’epoca. Mi sono fermato completamente con la scrittura per dieci anni e mi sono ubriacato e basta. Mentre i beat beattavano io bevevo. Quindi non so cosa sia successo. Ho cominciato a bere – a bere sul serio… a venticinque anni e non ho mai smesso fino ai trentacinque. In quei dieci anni non ho scritto una riga».
Nato ad Adernach, in Germania, il 16 agosto 1920, si era trasferito a Los Angeles con la famiglia all’età di tre anni. Il padre era violento, la madre anaffettiva. A quattordici anni la sua faccia si era ricoperta di pustole, che gli avevano lasciato segni permanenti. Se ne era andato di casa finito il liceo, non prima di aver fatto le due migliori scoperte della sua vita: le biblioteche pubbliche e i bar. Dopo i «dieci anni alcolici» – durante i quali era sopravvissuto facendo i lavori più disparati, trovando poi un impiego stabile alle Poste – aveva cominciato ad inviare racconti e poesie ad un gran numero di piccole riviste letterarie. Nel 1967 gli era stata offerta la possibilità di tenere una rubrica settimanale su un noto giornale undergroung di Los Angeles, “Open Space”; titolo della rubrica: Taccuino di un vecchio sporcaccione. Pochi mesi prima di compiere cinquant’anni si era licenziato dalle Poste, accettando di firmare un contratto con la casa editrice Black Sparrow Press, e aveva terminato il suo primo romanzo, Post Office (1971). A seguire, una lunga serie di libri di culto, dati alle stampe a poca distanza l’uno dall’altro: Storie di ordinaria follia (1972), Compagno di sbronze (1972), Factotum (1975), Donne (1978), Shakeaspeare non l’ha mai fatto (1979) Panino al prosciutto (1982). Fino a quello che molti considerano il suo miglior pezzo di prosa: Hollywood, Hollywood! (1989), ispirato alla difficile lavorazione del film Barfly, con Mickey Rourke nel ruolo di Henry Chinaski.
«Ho i miei dubbi che a qualcuno importi ancora di quel vecchio spauracchio che è il Grande Romanzo Americano», scrive Jim Christy. «Ma sono convinto che la verità – e l’ironia – sia che Charles Bukowski, in Hollywood, Hollywood!, si è avvicinato più di chiunque altro a scriverlo».
Perché Bukowski, come sottolineava già Beniamino Placido, non è un vagabondo e basta. È un vagabondo che scrive. Con ferrea disciplina. E che prima di scrivere ha acquisito una solida conoscenza di tutta la grande letteratura, americana e non solo. Nella sua biblioteca: Dostoevskij, Nietzsche, Céline, Kafka, D. H. Lawrence, Jean Paul Sartre, Orwell, Knut Hamsun, Sinclair Lewis, Robinson Jeffers, Hemingway, John Fante, Henry Miller. Per questi e altri scrittori, a modo suo, sentiva una gratitudine smisurata. Durante i vagabondaggi o il lavoro in fabbrica – scrive ne Il capitano è fuori a pranzo (Feltrinelli, 2000) – cercava di immaginare la loro vita quotidiana, fantasticava sulle loro abitudini, sui loro vizi: «Chiunque fossero, per me gli scrittori erano una magia. Aprivano le porte in modo diverso. Al risveglio avevano bisogno di bere qualcosa di forte. La vita era maledettamente troppo per loro. Ogni giorno era come camminare sul cemento fresco. Ne facevo i miei eroi. Me ne nutrivo. L’idea che ne avevo mi sosteneva nel mio nulla. Pensare a loro era molto meglio che leggerli. […] Mi stendevo sul mio letto da affamato e pensavo a quegli uomini. La letteratura era così… Romantica. Sì».
Vedeva Dostoevskij «come uno che sbavava per le ragazzine», e ringraziava il cielo che non fosse stato fucilato per le attività sovversive condotte contro le autorità zariste. Sentiva «l’urlo dallo stomaco» di John Fante che lottava per diventare uno scrittore. Faulkner, lo vedeva «come un uomo eccentrico e dall’alito pesante». Hemingway, «come uno che si esercitava nella danza classica dietro una porta chiusa». Ma non tutti i grandi autori erano di suo gusto… «Mi ricordo che un giorno ricevetti una lettera furibonda da un tale il quale sosteneva che non avevo diritto di dire che Shakespeare non mi piace. Troppi giovani mi avrebbero creduto senza nemmeno darsi la pena di leggere Shakespeare. Non avevo diritto di affermare una cosa simile. E così via. Non gli ho mai risposto. Lo faccio adesso. Fottiti, amico. E non mi piace nemmeno Tolstoj!».
Negli ultimi anni, quando la giovane moglie Linda Lee ne aveva ormai domato gli istinti, e quando si dilettava a scrivere poesie al computer circondato dai gatti, in un’elegante villa con piscina a San Pedro, al centro dei suoi pensieri c’era soprattutto la morte. La Signora Morte, uno schianto di donna che nel suo ultimo romanzo, Pulp (1994), si rivolge all'investigatore privato Nick Belane per la ricerca di un certo Céline, e lo aiuta a rintracciare un misterioso e tanto sospirato Passero Rosso.
Prima di trovarsi faccia a faccia con il dannato uccellaccio, il 9 marzo 1994, Charles Bukowski aveva avuto il tempo di immaginare il dopo: «L’altro giorno pensavo al mondo senza di me. Il mondo va avanti a fare quel che deve. E io non ci sono. Davvero strano. Il camion della spazzatura viene a tirar su l’immondizia e io non ci sono. Oppure il giornale è sul vialetto e io non sono lì a raccoglierlo. Impossibile. Ma il peggio è che qualche tempo dopo la mia morte mi scopriranno veramente. Tutti quelli che quando ero vivo avevano paura di me o mi odiavano d’un tratto mi capiranno appieno. Le mie parole saranno ovunque. Si formeranno circoli e associazioni. Sarà nauseante. Gireranno un film sulla mia vita. Faranno di me un uomo molto più coraggioso e dotato di quanto non sia. Molto di più. Roba da far vomitare gli dei. La razza umana esagera tutto: i propri eroi, i propri nemici, la propria importanza. Stronzi. Ecco, mi sento meglio. Stramaledetta razza umana. Ecco, mi sento meglio».

Manuel Lambertini

mercoledì 12 febbraio 2014

Freak

Diverso con orgoglio
di Andrea "Bellafronte" Setti & Roberto "Freak" Antoni

Non posso, davvero non posso
considerarmi omologato
accettare il compromesso
le chiare regole del mercato     

Non riesco a vendermi
c’è qualcosa che mi impedisce
forse è coscienza, forse è demenza
ma è forte, non si zittisce

Perché non partecipo al successo
e al suo contorno d’esaltazione??
non vado mai a nessun congresso
mi difetta la partecipazione
Lontano dai giochi del Potere
dalle comode poltrone per il sedere
Via dai manager rampanti
dalle loro mogli imbarazzanti

Sono diverso, da poco l’ho scoperto
solo adesso mi rendo conto
di appartenere a un altro mondo
(Sono consapevole: odio l’intrallazzo
e il convenevole!!!)
Sono diverso e con orgoglio
perché è diverso quello che voglio
(Sono anormale, se sbadiglio al concetto di
“Villaggio Globale”???)

È inutile che io tenti di fare il furbo
non sono scaltro, non sono accorto
forse sembrerò anche patetico
se anche il fisico è poco atletico

C’è chi mi ritiene inadeguato
e, in aggiunta: sprovveduto
per questo oggi e nel passato
mi hanno già del tutto escluso

Perché mi sento così maldestro
perché mi considero incapace (?)
non ce la faccio a vedermi corrotto
non voglio trasformarmi in un rapace
né accettare tanti compromessi
piuttosto rimango tra i cosiddetti “fessi”
mi riconosco nel modello alternativo
anche senza la posa del trasgressivo.

Roberto "Freak" Antoni, Non c’è gusto in Italia ad essere dementi, Bologna, Pendragon, 2005.


L’ultima volta che ho visto Roberto "Freak" Antoni è stato al Biografilm Festival di Bologna, nel giugno dell’anno scorso. Ero con il signor Luigi Finetti, suo ammiratore di lunghissima data. "Freak" ci passò accanto con un vaso di fiori in mano e disse: «Toh, mi hanno regalato una piantina!».
«Diventerà grande come te!» gli urlò Finetti.
«Crescerà proprio tanto, allora…» replicò lui tra lo scettico e il divertito. Poi se ne andò via di buon passo. "Freak" Antoni non era solo il genio di cui tutti ora parlano. Era anche un maestro del politicamente scorretto. Un tipo così anticonformista da provare ostilità per l’anticonformismo. «Le sue poesie riflettono, mi sembra, soprattutto la sua lontananza dal mostruoso sussiego del modo di vivere contemporaneo: che è, a ben vedere, il vero "demenziale"», ha detto di lui Michele Serra.
Perciò ricordarlo con sussiego nel giorno della morte sarebbe quanto di più oltraggioso. Rimane però il fatto che, per avercelo dato e per avercelo tolto così presto, «Dio ci deve delle spiegazioni».

mercoledì 5 febbraio 2014

William S. Burroughs’s Birthday Party

William S. Burroughs (Saint Louis, Missouri, 5 febbraio 1914  Lawrence, Kansas, 2 agosto 1997)

Giorno del Ringraziamento
28 novembre 1986

Grazie per il tacchino e per i piccioni viaggiatori, destinati ad essere cacati attraverso le sane budella americane – grazie per un Continente da saccheggiare e avvelenare – grazie per gli indiani che ci procurano quel tanto di stimoli e di pericoli – grazie per le immense mandrie di bisonti da uccidere e scuoiare, lasciando le carcasse a marcire – grazie per le laute ricompense sui lupi e i coyotes – grazie per il SOGNO AMERICANO da involgarire e falsificare fin quando la nuda menzogna non vi risplenda attraverso – grazie per il KKK, per gli uomini di legge, per le rispettabili signore-casa-e-chiesa con le loro facce meschine, smunte, sgradevoli, perverse – grazie per gli adesivi “Ammazza un frocio in nome di Cristo” – grazie per l’AIDS da laboratorio – grazie per il Proibizionismo e la Lotta contro la Droga – grazie per un paese dove a nessuno e dato di badare ai fatti propri – grazie per una nazione di spie-sì, grazie per tutti i ricordi… va bene, facci vedere le tue braccia… sei sempre stato un problema, c’hai proprio rotto i coglioni – grazie per l’ultimo e più grande tradimento dell’ultimo e più grande dei sogni umani.

William S. Burroughs, Vicolo del Tornado,1989 


Avevano provato a “cooptarlo” nel Tempio della Grande Letteratura Americana quando era ancora vivo. Prima i “colleghi” Norman Mailer – che lo considerava «l’unico romanziere americano a cui si possa plausibilmente attribuire genio» – e James G. Ballard – per il quale era «il più importante scrittore emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale». Poi l’American Academy of Arts and Letters, che nel 1983 lo incluse tra i propri membri. Ma William Seward Burroughs era un «drogato omosessuale pecora nera di buona famiglia», e tale volle restare. Tutta l’opera da lui prodotta, diceva, era rivolta «contro coloro che sono intenti, per stupidità o per programma, a far saltare in aria il pianeta e a renderlo inabitabile». Il suo Pasto Nudo, pubblicato nel ‘58, era nato come un’araba fenice da frammenti di testi che Ginsberg e Kerouac avevano ritrovato nella sua abitazione di Tangeri, dove si era trasferito dopo ininterrotte peregrinazioni. Burroughs – Old Bull Lee per gli amici beatniks – è morto nell’agosto 1997. Oggi avrebbe compiuto un secolo di vita. Altro da aggiungere? Una parola sì. Grazie.

Manuel Lambertini 

sabato 11 gennaio 2014

Il mistero del falco

Ariel Sharon
(Kfar Malal, 26 febbraio 1928 - Ramat Gan, 11 gennaio 2014)
L’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon è morto dopo aver trascorso gli ultimi otto anni in uno stato vegetativo. La cessazione delle sue funzioni vitali, in fondo, ha solo fatto da suggello finale ad un’epoca che sembrava già lontanissima.
Nel momento dell’estremo saluto, l’immagine che ne hanno trasmesso i media internazionali e le dichiarazioni dei grandi della Terra è stata quella di «un patriota al servizio del suo Paese» (Angela Merkel) che «ha avuto il coraggio di dialogare con i palestinesi» (François Hollande), di prendere «decisioni coraggiose per il perseguimento della pace» (David Cameron). Tutti lo hanno ricordato, in definitiva, come «un falco sulla via della pace».
Ma la sua lunga parabola politica, che getta la propria ombra sull’intera storia dello Stato di Israele, è quasi uno sberleffo a tutti gli steorotipi più ricorrenti sul Medio Oriente, e alla retorica dei “falchi” e delle “colombe” in particolare. Pare che lo smantellamento degli insediamenti israeliani della Striscia di Gaza, ordinato dal suo governo nel 2005, abbia cancellato in un sol colpo ogni traccia di una vita che fino ad allora aveva avuto come stella polare il più sistematico e indiscriminato uso della forza.
Dalla strage di Sabra e Chatila del 1982 – perpetrata dai cristiano-maroniti libanesi di Elie Hobeika con la connivenza dell’esercito israeliano – alla provocatoria visita sulla Spianata delle Moschee del 2000 – che scatenò la Seconda Intifada palestinese, consegnandogli però una netta vittoria elettorale – fino all'invasione della Cisgiordania con l’«Operazione Scudo difensivo» del 2002 e alle innumerevoli esecuzioni extragiudiziarie dei leader della rivolta palestinese: si faceva vanto di essere un «guerriero» sempre con le armi in pugno, un «bulldozer» insofferente ai codici militari e alle lungaggini della politica. Persino il ritiro dalla Striscia di Gaza, alla luce della sua vicenda umana, richiede una rilettura assai diversa da quella corrente.
Ariel Sharon durante l'invasione israeliana del Libano (1982)
Comunque la si pensi sul suo conto, infatti, significherebbe disonorarne la memoria non ricordare che per Sharon il piano di disimpegno unilaterale da Gaza non era mai stato concepito come il primo passo di un processo negoziale con i palestinesi, ma come l’unica rilevante cessione territoriale che potesse essere concessa ad una autonomia palestinese completamente assoggettata alle esigenze di sicurezza dello Stato ebraico.
Fu lui stesso a dichiararlo, in un’intervista rilasciata nell'agosto 2005 a Nahum Barnea e Shimon Shiffer per il quotidiano Yedioth Ahronot: «Già nel 1988, in una riunione dei ministri del Likud, dissi che avremmo dovuto decidere a cosa rinunciare, altrimenti saremmo stati costretti a tornare ai confini del ’67». E aggiunse: «I coloni hanno fatto molto. Se non fosse stato per loro oggi non saremmo a Hebron, Gush Etzion, Ma’aleh Adumim, Ariel, Eli, Shilo e Beith El». «E la valle del Giordano?» chiesero Barnea e Shiffer, riferendosi alla fascia di insediamenti formatasi nella zona orientale della Cisgiordania che impedisce ai palestinesi l’accesso alle acque del fiume Giordano. «La aggiunga pure alla lista», rispose il premier. «Insieme alle alture che dominano la pianura costiera e l’aeroporto».
Lo smantellamento forzato degli insediamenti ebraici costruiti illegalmente sulla Striscia di Gaza, inutile dirlo, fu un duro colpo per l’opinione pubblica israeliana e per l’elettorato del Likud in particolare, ma eliminò gli ingenti costi legati alla protezione dei coloni, oscurò la parallela, inarrestabile colonizzazione della Cisgiordania e rafforzò Israele sul piano diplomatico. Viste in quest’ottica, le reazioni della comunità internazionale, che allora celebrò Ariel Sharon e che oggi lo piange, altro non sono che la consacrazione di un indubbio successo.

Manuel Lambertini

lunedì 6 gennaio 2014

Bersani by Beppe Grillo

Immagine apparsa sul blog di Grillo il 27 febbraio 2013

«Rispetto più il nano perché sai cos'è, un disonesto, che i finti amici come Gargamella, che fa l'imbonitore in giro.»
(Beppe Grillo, 8 febbraio 2013)

«Bersani è uno stalker politico. Da giorni sta importunando il M5S con proposte indecenti invece di dimettersi, come al suo posto farebbe chiunque altro. E' riuscito persino a perdere vincendo. Ha superato la buonanima di Waterloo Veltroni.»
(Beppe Grillo, 27 febbraio 2013)

«Bersani ha avuto un pregio, quello di apparire umano, un grande pregio in un mondo di politici artefatti e costruiti a tavolino come dei pupazzi in vendita ai grandi magazzini della politica. In fin dei conti, la sua volontà di smacchiare il giaguaro si è avverata. Credo che abbia sempre saputo che i suoi veri nemici non erano i Cinque Stelle, ma alcuni dei suoi compagni di partito e personaggi delle istituzioni. Bersani, ti aspettiamo, non fare scherzi.»
(Beppe Grillo, 6 gennaio 2014)

Grazie a Grillo per averci ricordato che si può cambiare punto di vista senza perdere la coerenza... E per non aver concluso il post di solidarietà a Pier Luigi Bersani con la consueta frase: «Alla fine ne resterà solo uno»!