domenica 30 dicembre 2012

Rita Levi-Montalcini

Forse è scritto nel destino delle persone straordinarie questo lasciare la vita senza arrecare troppo disturbo, nel torpore invernale di un giorno vicino alla fine dell’anno. Così oggi ci ha lasciati, a 103 anni, Rita Levi-Montalcini, senatrice a vita e Premio Nobel per la Medicina – sua e del biochimico Stanely Cohen la scoperta del fattore di crescita nervoso (Nerve Grouth Factor), una proteina rivelatasi determinante nella rigenerazione del sistema nervoso e coinvolta nei processi di sviluppo di masse tumorali, della sclerosi laterale amiotrofica, del morbo di Alzheimer e di altre gravi patologie. Una vita, quella della senatrice Montalcini, spesa a favore della ricerca e del progresso scientifico, ma non per questo meno ricca di cultura umanistica – sconosciuto ai più il suo grande amore per la poesia – e di passione civile: «La morte per me non esiste; che venga domani o qualche tempo dopo per me non fa differenza, perché alla morte del corpo sopravvivono i messaggi che abbiamo dato in vita».

Manuel Lambertini

sabato 22 dicembre 2012

L’ultima (gira)volta del «Gatto Felix»

E dunque ha lasciato. Per l’ammirazione di tutti e il sollievo di molti. Nel suo ultimo discorso a Montecitorio, salutato da ripetuti applausi e da una standing ovation finale, Walter Veltroni ha offerto un conciso ma esauriente saggio della sua visione «riformista», corredata dai rifermienti politici di sempre e dai migliori auspici per il futuro. Il dovere di «non aver paura della paura», di Roosevelt. Il bisogno di una «rivoluzione democratica» alla maniera di Piero Gobetti, che preluda «a nuove libertà, a nuovi diritti, a nuove opportunità per esseri umani nuovi». Il «non siamo contro la ricchezza, siamo contro la povertà» di Olof Palme. La lotta contro «tutti i conservatorismi», e contro la corruzione e l’illegalità, «che sono – ce ne vogliamo rendere conto? – il primo problema italiano». Il «dichiarare una guerra alle mafie e a ogni illegalità, costi quel che costi», come precondizione perché l’Italia riparta. «E bisogna unire i produttori, capire che c’è una comunità di destino tra il piccolo imprenditore e il suo operaio, che insieme cresceranno e insieme perderanno; e questo significa più produttività e salari più civili, uno Stato amico che anche fiscalmente colpisca i furbi e premi chi investe, chi rischia e fatica per creare ricchezza. Ricchezza che sia equamente distribuita». E poi il mantra, immancabile, del meno-stato-più-mercato: «Lo Stato e le istituzioni devono essere lievi, gestire di meno e preoccuparsi di promuovere e garantire i diritti, e poi il bello della nostra società, la scuola, la ricerca, la cultura, l’ambiente, il nostro talento, ciò che nessuno potrà mai riprodurre o delocalizzare». Quindi la gratitudine per Napolitano e per Monti. E infine la necessità di superare quel clima di odio e di immobilismo per il quale «Berlusconi porta più responsabilità di ogni altro italiano».
Ascoltandolo, anche nei suoi exploit più condivisbili, non può non venire in mente il soprannome appioppatogli da Cossiga, quello di «Gatto Felix», di «riformista del nulla» che «capisce molto di cinema ma poco di politica». Lui, discepolo di Pasolini e adorante allievo di Vittorio Foa, fece convergere popolari e postcomunisti nel nuovo Partito Democratico, incastonando quest’ultimo in un cielo a stelle e strisce che rinnegava e umiliava la tradizione socialdemocratica europea. Lui che per primo ebbe il merito di esternare il proprio entusiasmo per Obama, sfidando tutti i sondaggi e contro ogni razionale previsione, credette forse di poter essere il protagonista di un’analoga esperienza italiana. E fallì. E negli anni in cui fu segretario del Pd, dall’ottobre 2007 al febbraio 2009, guidò la marcia funebre di una sinistra senza bussola, seguito da cartelli con slogan all’amerikana e da un corteo di opportunisti e baciapile rifugiatisi sotto l’insegna della «fine delle ideologie». Gli va tuttavia reso l’onore delle armi, e riconosciuto il merito di aver tentato di immaginare il futuro. Degli anni Settanta, da lui poi rigettati in blocco, aveva assorbito meglio di molti altri quel desiderio di «fantasia al potere» che più simboleggia i sogni e le inquietudini della sua generazione.
Ora la sua carriera parlamentare è terminata. Dalla prossima legislatura, Veltroni si occuperà di progetti umanitari a favore dell’Africa, dove da anni dice di aver lasciato il cuore. E avrà più tempo da dedicare alla scrittura. Molti dei suoi romanzi, del resto, hanno già ottenuto un buon successo di pubblico, oltre ai giudizi lusinghieri della critica e di tutta l’elite letteraria italiana. Ne lessi uno anch’io, un paio di anni fa: Quando cade l’acrobata, entrano i clown (Einaudi, 2010), brevissimo e toccante, sulla tragedia dell’Heysel. Ne rimasi favorevolmente colpito, e riuscii finalmente a deporre le ostilità nei suoi confronti. E mi accorsi di aver sempre saputo che il «Gatto Felix», in fondo, aveva solo sbagliato mestiere.


Manuel Lambertini

sabato 24 novembre 2012

Un senso a questa storia

Le primarie del centro-sinistra sono arrivate. Ed è arrivato anche il momento di ricordare quello che Berlusconi disse di Matteo Renzi appena pochi mesi fa: «Renzi porta avanti le nostre idee, sotto le insegne del Pd». Credetemi, non lo ha detto per complicate ragioni di calcolo politico. Lo ha detto sostanzialmente perché lo pensava. E perché è la pura verità.
«Il Pd ha un senso solo se vince Renzi», titola oggi il Giornale. Ecco, questo è il punto. Il giorno in cui il Pd acquisirà un senso per Berlusconi e per i redattori del Giornale, i suoi dirigenti e i suoi elettori dovranno porsi non poche domande sull’identità e sulla stessa ragion d’essere del loro partito. Dovranno proprio chiedersi se il Partito democratico abbia ancora un qualche motivo di esistere.

Manuel Lambertini

martedì 20 novembre 2012

Gaza sotto assedio

È l’inferno. È l’ultimo atto di una tragedia infinita, l’ennesima rappresentazione dello stesso copione di morte. E mentre i palestinesi della Striscia di Gaza rivivono come un incubo i giorni del dicembre 2008, possa levarsi al cielo con le loro preghiere la voce del grande poeta Muin Bseiso, figlio della città di Gaza e della gloriosa nazione palestinese.
Quella che segue è una poesia dolente, lacerata. Una poesia di resistenza e di esilio. E di resistenza nell’esilio. Un atto d’amore per la patria perduta ma mai tradita. Un canto disperato, angoscioso. Ma ebbro di ostinazione.


Stanza 504
(1967)

Ritorneranno, perché sono sempre con noi.
Anche tu, come me, sei sulla lista della morte.
Che aspetti? Ho lasciato loro la porta aperta.
Il mio corpo è il terreno e questo è tempo
di arare e seminare.

Che aspetti? Le previsioni del tempo?
Ho lasciato loro la porta aperta.
Io sono un semenzaio di fiumi.
Stanotte ci sarà la piena con le violente piogge d’aprile.

Che aspetti? I nuovi bollettini? I giornali a mezzanotte?
Apetti la prima pagina e i tipografi?
O la prima sera dei manifesti e dei giornali murali?
Un falegname sta battendo un chiodo per unire due tavole,
le seghe ronzano intorno al collo degli alberi.
Muin Bseiso (Gaza, 1924 - Londra, 1984 )
I prezzi del legname sono alti, stanotte.

Portano in spalla i cedri, le stanze per l’autopsia.
Aspettano i pesci da Shat al Arab,
ed io ho lasciato la porta aperta.
Come mi piace il ghiaccio nei bicchieri
E quanto odio il ghiaccio sui cadaveri!
Un falegname sta battendo un chiodo per unire due mani.

Tu, che quel giorno mi desti un paio di scarpe e una pistola,
non può un proiettile unirci?
Non può una nuvola avvolgerci nello stesso sudario?
Ascoltali… Stanno salendo le scale!
Mi è rimasto un minuto, io ti darò questo minuto
Perché quel giorno tu mi desti un minuto.

Che aspetti? Il mio corpo è un vivaio di fiumi:
migliaia di fiumi zampillano dalle finestre del mio corpo
il terrore ha formato un lago.
Stanno incollando migliaia di manifesti sui muri delle vie,
migliaia di alberi stanno abbatendo,
ed io ho incollato il mio volto sul cielo.
Ah… carne palestinese, cibo per i giornali!
Stanno arrivando, ho lasciato loro la porta aperta.
Io sono il baco e la seta, il mio corpo s’annida nella cruna di un ago.
Migliaia di aghi e di fili, stanno cucendo camicie per alberi.

Che aspetti? Migliaia di giornali stanno sparando alla mia testa,
io sono la prima notizia, un cadavere nel giornale,
e sono l’ultima quando scrivo
un poema contro il ghiaccio e la morte.
Sono arrivati, ho lasciato la porta aperta per loro, e per te.
Io sono un ladro, patria mia,
sono uno che ama e spara con tutti i tuoi fucili.
Fossi stata con me, ora, avremmo combattuto insieme:
li avremmo fatti saltare con una candela.
Quando ho scelto gli alberghi, ho scelto anche le trincee.
Mi hanno ucciso.
Fossi stata con me, avremmo combattuto insieme,
li avremmo fatti saltare con una candela.

                                                                          Muin Bseiso

Muin Bseiso nacque a Gaza City nel 1924. Questa poesia fu scritta nel 1967, quando – al termine della Guerra dei Sei Giorni – Bseiso lasciò definitivamente la Palestina per trasferirsi al Cairo, dopo aver subito arresti e umiliazioni di ogni sorta. Partì poi alla volta di Beirut, dove avviò un’intensa collaborazione con gli organismi culturali dell’OLP, fino all’invasione israeliana del Libano, nel 1982. Si spense a Londra, in esilio, nel 1984.

Manuel Lambertini

mercoledì 7 novembre 2012

Obama Bis

Barack Obama e Giorgio Napolitano, 8 luglio 2009
Il meglio deve ancora venire? Speriamo. Quando Obama vinse le elezioni del 2008, Veltroni disse che avrebbe cambiato il mondo. Fu allora che prendemmo coscienza di quanto sarebbe stato duro il suo primo mandato alla Casa Bianca… E adesso che tutto è andato per il meglio, e che la tensione elettorale degli ultimi giorni è scemata, possiamo dirlo: i vantaggi di avere un presidente democratico sono perlopiù vantaggi “al negativo”, fondati sulla ragionevole speranza che possa astenersi dal commettere gli stessi errori e gli stessi crimini di cui il reazionario di turno non esiterebbe a fregiarsi. A ben guardare, non è una speranza da poco. Aspettarsi qualcosa di più, almeno in questo momento, sarebbe poco saggio.

Manuel Lambertini

sabato 27 ottobre 2012

Tuttobenigni ‘60

«Il 27 di ottobre è il giorno in cui nascono i poeti»: così nel 2005 Adriano Celentano introduceva l’ospite di punta della sua trasmissione più riuscita, Rockpolitick. Difficile dire se sapesse che il 27 ottobre 1736 era venuto alla luce il grande poeta irlandese James Macpherson. O che il 27 ottobre 1901, a Palermo, nasceva Lucio Piccolo. Oppure che il 27 ottobre 1914 la città di Swansea, grande centro del Galles meridionale, dava i natali a Dylan Thomas. Ma poi a chi sarebbe importato? Celentano stava preparando il pubblico ad una nuova, straripante incursione televisiva di Roberto Benigni, che proprio in quei giorni tornava sul grande schermo con il più poetico dei suoi film, La tigre e la neve. Film che deluse, e che la stampa americana liquidò come uno dei peggiori dell’anno: «l’innocenza della sua persona, che una volta era attraente, con il tempo si è inacidita», scrisse ad esempio il Daily News, assai più benevolo delle altre testate… Da allora, il premio Oscar che già con Pinocchio (2002) aveva vinto il Razzie Award come peggior attore protagonista – a solo pochi anni di distanza dal trionfo de La vita è bella (1997) –, ha saputo porre la sua incrollabile popolarità al servizio della riscoperta di Dante e di encomiabili battaglie civili. Talvolta condannato a trasformarsi in opinion leader, ma ancora capace di resistere ad ogni tentazione autocelebrativa.
Roberto Benigni compie oggi sessant’anni, quaranta dei quali trascorsi a calcare il palcoscenico. Molte deliziose immagini tornano alla memoria, e altrettante il futuro ne riserverà. Con l'amara consapevolezza che alcuni dei suoi speciali compagni di viaggio non potranno assaporare questa gioia: Fellini, Troisi, ma anche il non abbastanza compianto Giuseppe Bertolucci.
Ed ora che questo eterno folletto si appresta a rendere omaggio alla Costituzione italiana, il 17 dicembre su Rai 1, come non ricordare le parole che Eugenio Scalfari scrisse dopo aver assisitito alla sua liberatoria apparizione a Sanremo 2011? «Non so come abbiano reagito e cosa abbiano sentito dentro di loro i tanti milioni di telespettatori. So che io me lo sarei abbracciato quel burattino ridente e sudato che è una grande ed amata persona».


Manuel Lambertini

mercoledì 3 ottobre 2012

Novant’anni con La Capria

Novant’anni e non sentirli. Tanti ne sono trascorsi da quel 3 ottobre 1922 in cui Napoli dette alla luce uno dei suoi figli più illustri, e dei più discreti. Il grande scrittore Raffaele La Capria può tagliare l’ambito traguardo in buona salute e perfetta lucidità: «Ho sempre pensato che si diventasse vecchi a 60 anni, e ancora adesso considero tali i sessantenni. Io mi sento più giovane di loro e anche più giovane di me stesso a 80 anni, quando pubblicai L’estro quotidiano». Sei anni fa, un lieve infarto e un intervento al cuore conclusosi con l’applicazione di tre by-pass hanno segnato per lui una rinascita anche letteraria, l’inizio del recupero di due decenni «perduti» tra distrazioni e «false partenze»… «Ho perso, non proprio nel senso di averli sprecati, dieci anni fra il primo e il secondo libro, e altrettanti tra il secondo e il terzo. [...] Nei vent’anni perduti ho scritto articoli per il “Corriere” e solo due libri; per uno che di mestiere fa lo scrittore non sono molti. [...] E così ancora oggi mi domando che scrittore sarei, che persona sarei, se avessi lavorato, se non mi fossi lasciato sfuggire quei vent’anni dalle mani, come fossero sabbia o acqua di mare: avrei scritto altri libri? O libri migliori? Poi penso che tutto quello che ci accade ci doveva accadere, e che in un certo qual modo anche quei vent’anni sprecati fanno parte della mia formazione».
Il suo primo libro, Un giorno d’impazienza, venne pubblicato nel 1952 da Bompiani, su intercessione di Alberto Moravia. Il secondo, Ferito a morte (1961), vinse il Premio Strega ed entrò a pieno diritto tra i capolavori della letteratura italiana del Novecento; anticipò le sperimentazioni stilistiche e strutturali della neoavanguardia e fu fonte di ispirazione per generazioni di scrittori. «Il suo libro mi ha incantato», scrisse in una lettera a La Capria l’editore Valentino Bompiani. Il romanzo, avrebbe poi annotato Claudio Magris, «fonde perfettamente natura e storia, coerenza strutturale della costruzione narrativa (esperta della più rigorosa e sperimentale tecnica romanzesca) e impalpabile poesia del fluire della vita,  percezione sensibile e critica politica, l’istante atemporale dell’epifania esistenziale e la storicità (entrambi incarnati in una Napoli mitica e reale, scevra di ogni oncia di grasso sentimentalpittoresco), pessimismo e felicità, compresenti nel cuore come nella seduzione del mare, fisicità immediata e riflessione». A Ferito a morte seguì, nel 1973, Amore e psiche, da cui egli stesso avrebbe poi preso le distanze, volgendo il proprio stile ad una semplicità dalle profonde implicazioni emotive ed esistenziali. Lo «stile dell’anatra», un approccio ampiamente sviluppato nei lavori successivi: l’anatra che fila leggera sulla superficie dell’acqua, e che nasconde la fatica delle sue zampette annaspanti…
Stabilitosi a Roma dopo aver soggiornato a Parigi e a Londra, La Capria era frattanto divenuto condirettore di «Nuovi Argomenti» e collaboratore del «Corriere della Sera», lavorando anche alla redazione di radiodrammi per la Rai. Numerose inoltre le sue traduzioni: da Sartre a Eliot, da Cocteau a Orwell… In coincidenza con la pubblicazione di Ferito a morte, aveva fatto la sua prima incursione nel mondo del cinema come co-sceneggiatore di Leoni al sole, esordio alla regia di Vittorio Caprioli. Si sarebbero poi avvalsi della sua collaborazione Luigi Comencini, Lina Wertmüller e Alberto Negrin, oltre agli amici di sempre Francesco Rosi (Le mani sulla città, Uomini contro, Cristo si è fermato a Eboli) e Giuseppe Patroni Griffi, come lui formatisi al liceo Umberto I di Napoli, insieme ad Antonio Ghirelli e a Giorgio Napolitano. Al 1966 risalgono invece le sue nozze con Ilaria Occhini: dalla loro unione sarebbe nata Alexandra, anch’ella attrice.
Raffaele La Capria, Francesco Rosi e Antonio Ghirelli
Nel 1974 venne dato alle stampe False partenze, che segnò l’inizio di una nuova e più prolifica stagione della sua carriera letteraria. Fu quindi la volta di titoli come Fiori giapponesi (1979), L’armonia perduta (1986) e La neve del Vesuvio (1988). Nel 1990 raccolse gran parte degli articoli pubblicati negli anni sul «Corriere» in Letteratura e salti mortali. La sua identità partenopea, tanto forte quanto aperta alle contaminazioni, permeò lavori come Capri e non è più Capri (1991),  L’occhio di Napoli (1994) e Napolitan Graffiti (1998), mentre il suo stile sempre più marcatamente colloquiale finì per trasformare i ricordi personali in oggetto privilegiato di narrazione, senza disdegnare la forma vera e propria dell’intervista-confessione: è il caso di Letteratura e liberta. Conversazioni con Emanuele Trevi (2002) e di Me visto da lui stesso. Interviste 1970-2001 sul mestiere di scrivere (2002), a cui può aggiungersi il documentario Chiara Gamberale intervista Raffaele la Capria (2011) di Pierluigi De Pasquale.
Nel 2003, in leggero ritardo sul suo ottantesimo compleanno, la Mondadori ne raccolse le opere in un Meridiano. Tra tutte, all’autore è rimasta nel cuore La mosca nella bottiglia. Elogio del senso comune (1996), una presa di posizione contro il «concettualismo degradante di massa», la dilagante tendenza ad astrarre concetti dalla realtà fino a nascondere la realtà stessa. Oggi, per celebrare i suoi novant’anni, Mondadori pubblica Doppio misto, che riunisce cinque racconti già editi ma qui legati da un fil rouge di perversioni, passioni, silenzi, dolore. Un La Capria ancora perplesso, ancora incantato dalla vita. E ancora capace di essere «profondamente superficiale».

Manuel Lambertini

domenica 30 settembre 2012

Poesia di (fine) settembre

Arietta settembrina

Alfonso Gatto (Salerno, 17 luglio 1909 - Capalbio, 6 marzo 1976)
Ritornerà sul mare
la dolcezza dei venti
a schiuder le acque chiare
nel verde delle correnti.

Al porto, sul veliero
di carrubbe l’estate
imbruna, resta nero
il cane delle sassate.

S’addorme la campagna
di limoni e d’arena
nel canto che si lagna
monotono di pena.

Così prossima al mondo
dei gracili segni,
tu riposi nel fondo
della dolcezza che spegni.

       Alfonso Gatto, Nuove poesie, 1950.

mercoledì 19 settembre 2012

Santiago Carrillo

È morto nel sonno, alla veneranda età di 97 anni, l’ultimo grande leader comunista della storia europea, eroe della resistenza antifranchista e protagonista della transizione democratica spagnola. Santiago Carrillo Solares era nato a Gijon, nelle Asturie, il 18 gennaio 1915. Si è spento ieri nella sua casa di Madrid, durante la siesta pomeridiana.
Oriana Fallaci lo intervistò nel lontano 1975, e spese per lui parole di grande ammirazione: «Gli diventai amica senza difficoltà, e non credo che me ne pentirò mai. Se tutti i comunisti fossero come Santiago Carrillo, il mondo sarebbe più intelligente e più felice». Egli non era solo il «bravuomo che per primo si ribellò a Mosca in nome del socialismo non autoritario», quell’“eurocomunismo” poi abbracciato dal francese Georges Marchais e da Berlinguer. Era proprio un «uomo straordinario: perché eretico e perché intelligente e perché molto buono. Ascoltandolo ti chiedevi se non fosse vero, per caso, che intelligenza e bontà siano la stessa cosa».
Carrillo era all’epoca il segretario in esilio del Partito comunista spagnolo. Aveva già guidato la gioventù socialista unificata e combattuto la guerra civile tra le fila repubblicane. Iscritto al Pce fin dal 1936, ne aveva assunto la guida nel 1960, succedendo alla Pasionaria Dolores Ibàrruri. Stabilitosi a Parigi, si era prodigato in una revisione della pratica marxista che salvaguardasse la Spagna da ogni incontrollabile deriva rivoluzionaria, rigettando lo stalinismo e distanziandosi da Mosca dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Alla vigilia della morte di Franco, avvertiva su di sé il peso di un irripetibile appuntamento con la storia. Ad animarlo sopra ogni cosa, la volontà di evitare al proprio paese una nuova guerra civile.
La sua presenza agevolò la legalizzazione del partito comunista nel nuovo assetto costituzionale monarchico, ancora impregnato di eredità franchiste, e offrì un contributo non solo simbolico al processo di democratizzazione più significativo della recente storia europea. Grande valenza simbolica ebbe soprattutto la sua reazione al tentato golpe del 1981: quando gli uomini del colonnello Tejero irruppero al Congesso dei Deputati sparando in aria, Carrillo si mostrò indifferente ai loro ordini; allo stesso modo reagì l’ex-franchista Adolfo Suárez, allora capo del governo. Il cammino della Spagna verso la democrazia raggiunse allora un punto di non ritorno.
Terminata la transizione, Carrillo dovette tuttavia assistere al rapido declino del suo partito. Si dimise da segretario dopo la sconfitta alle elezioni del 1982, nelle quali il Pce raccolse un misero 4 %, e pagò a caro prezzo il  suo “moderatismo”: espulso dal Pce nel 1985, fondò senza successo il Partito dei lavoratori, per ritirarsi dalla vita pubblica nel 1991.
Perché gli fossero resi i dovuti onori si dovette attendere l’azione moralizzatrice di Zapatero, che proprio il giorno del suo novantesimo compleanno fece rimuovere dal centro di Madrid l’ultima statua del generalissimo Franco. Invitò poi il vecchio combattente ad aderire al PSOE, ottenendo come risposta un garbato rifiuto: dopo aver dedicato la vita alla ricerca di un nuovo socialismo, Santiago Carrillo aveva deciso di restare nel suo tempo. E di morire comunista.

Manuel Lambertini

venerdì 17 agosto 2012

Il viaggio di Sir Vidia

V.S.Naipaul (Chaguanas, 17 agosto 1932)
Ovunque vada, le leggende sul suo cattivo carattere lo precedono. Con lui, ogni incontro pubblico potrebbe saltare nel modo più inaspettato, ogni intervista potrebbe essere annullata di punto in bianco, alla prima «domanda stupida». Non si contano i grandi scrittori del passato e del presente che sono stati bersaglio dei suoi sferzanti attacchi, innocenti vittime di giudizi sommari o controparti attive in infuocate polemiche. E a lui non resta che compiacersi del docile, prudente ossequio che gli viene generalmente tributato, ora che è l’individuo più inoffensivo del mondo, costretto al supporto di una sedia a rotelle e amorevolmente assistito dalla moglie Nadira.
Lo scrittore premio Nobel che in tutti i paesi del Commonwealth è semplicemente noto come Sir Vidia, al secolo Vidiadhar Surajprasad Naipaul, ha finalmente tagliato il traguardo degli ottant’anni. Ne aveva ventidue quando, lasciata la natia Trinidad e laureatosi ad Oxford grazie a una borsa di studio, cominciò a lavorare come redattore per una trasmissione della BBC sulle Voci caraibiche. Era povero, e viveva in un basement della Londra popolare. Ma la chiamata della letteratura si faceva sentire già allora, nella volontà incrollabile di rendere giustizia a un genitore sfortunato. Suo padre, Seepersad Naipaul, era stato assunto come cronista al Trinidad Guardian, e aveva coltivato per tutta la vita il sogno di diventare scrittore. Indiano proveniente da una famiglia di braccianti trasferitasi nell’isola caraibica di Trinidad, e sposato a una donna di più nobile lignaggio, inseguiva un riscatto sociale che non arrivò mai. E che solo la consacrazione letteraria del più brillante dei suoi figli avrebbe idealmente realizzato.
Dopo l’esordio con Il massaggiatore mistico (1957) furono pubblicati Elezioni a Elvira (1958) e la raccolta di racconti Miguel Street (1959), fino al più famoso Una casa per Mr Biswas (1961), romanzo ambientato tra le capanne di fango di Trinidad e chiaramente ispirato alla storia del padre. Apprezzato, tra gli altri, da Elio Vittorini, fu il libro che dette un primo, importante impulso alla fortuna internazionale di Naipaul. Da un viaggio in India – la terra dei suoi progenitori, visitata per la prima volta all’età di trent’anni – nacque poi Un’area di tenebra (1964), mentre In uno Stato libero (1971) conquistò il prestigioso Booker Prize, che ne decretò la definitiva affermazione nel mondo delle lettere inglesi. Seguirono ancora opere celebri e discusse come Alla curva del fiume (1979), Tra i credenti (1981), I coccodrilli di Yamoussoukro (1984), L’enigma dell’arrivo (1987) e Una via nel mondo (1994),  nelle quali il tema caldo dell’identità razziale e culturale potè fondersi con una nuova visione della letteratura, capace di annullare ogni differenza tra narrativa, saggistica e travelougue. Il Nobel giunse nel 2001, per «avere unito narrazione percettiva e osservazione incorruttibile in opere che ci costringono a vedere la presenza di storie soppresse». Nella motivazione dell’Accademia di Svezia, Naipaul venne definito «un moderno philosophe», prosecutore di quella «tradizione che ebbe origine con  Lettere persiane e Candido»; e fu accostato ancora una volta a Jospeh Conrad, quale «analista del destino degli Imperi in senso morale: ciò che essi fanno agli esseri umani». «La sua autorità di narratore» aveva trovato il proprio fondamento, infine, «nella memoria di ciò che altri hanno dimenticato, la storia dei vinti».
Con Nadira, alla cerimonia di consegna del Nobel
Ma la stessa vita di V. S. Naipaul, raccontata con rara crudezza e senza censure nel libro The World Is What It Is (2008) di Patrick French, finisce con l’essere più coinvolgente di ogni suo romanzo, più illuminante di ogni suo saggio. È infatti con l’ambizione di presentare un’immagine obiettiva dello «scrittore» che Sir Vidia rivela al suo biografo sconcertanti episodi di vita coniugale, tutti ai danni della prima moglie, Patricia Hale. Pat, la donna che restò al suo fianco per più di quarant’anni e che gli fu anche preziosa collaboratrice letteraria, non dovette sopportare solo i furori di un uomo dal carattere notoriamente difficile. Era già malata di cancro quando, nel maggio 1994, si trovò a leggere un’intervista che il marito aveva appena rilasciato al New Yorker, e nella quale confessava la sua irresistibile attrazione per le prostitute. Raccontava anche di avere una perfetta intesa sessuale con un’amante argentina, Margaret Gooding: relazione assai diversa, disse, da quella che lo legava alla moglie, dei cui consigli sul piano lavorativo continuava però a fare tesoro… «Ne ha sofferto», avrebbe poi ammesso Naipaul. «Si potrebbe dire che l’ho uccisa. È un po’ così che ritengo siano andate le cose». La salute di Pat peggiorò, infatti. E l’insensibilità di Sir Vidia scomparve soltanto nelle ultime ore di vita della moglie, quando si fermò al suo capezzale per leggerle alcune toccanti pagine di Dickens. Lady Naipaul sprofondò nel coma e morì il mattino seguente. Ma già il giorno della sua cremazione, Sir Vidia si preparava ad accogliere a casa un’avvenente giornalista pakistana, conosciuta durante uno dei suoi ultimi viaggi, e chiedeva alla governante di comperare le olive a lei tanto gradite. Appena due mesi dopo, Nadira Alvi sarebbe diventata la sua seconda moglie.
«Si può certo leggere e amare un libro indipendentemente dalla storia dell’autore», ha scritto Bernardo Valli su Repubblica dopo la pubblicazione del libro di French. «Ma conoscere la sua intenzione poetica e le sue qualità personali aiuta anche il lettore semplice, senza l’ambizione di essere un critico, a entrare più in profondità in quel che legge. A sentire quel che c’è dietro. A stabilire un rapporto, quasi carnale, con il romanzo. Nei libri di V. S. Naipaul si avvertono le ferite inflittegli dalla vita. Le vedi sanguinare».
Milano, 6 luglio 2012 
Non stupiscono allora il crudo realismo dei suoi scritti, la sua prosa tagliente, asciutta, mai piacevole. E nemmeno lo scetticismo con cui ha sempre guardato alla sorte dei popoli del Terzo Mondo, incapaci di liberarsi dell’eredità coloniale e condannati ad imitare gli antichi padroni. Per snobismo, o per il gusto della provocazione, non ha neppure esitato a manifestare una certa insofferenza di fronte alle velleità intellettuali del genere femminile: lo scrivere delle donne sarebbe, a suo avviso, «molto diverso», e rifletterebbe il loro «sentimentalismo», la loro «visione ristretta del mondo». In Fedeli a oltranza (1998) aveva invece osservato gli effetti dell’«imperialismo islamico» sulle popolazioni convertite di Indonesia, Iran, Pakistan e Malesia, ravvisando nell’Islam il chiaro proposito, mai esistito in altri imperi, di cancellare dai popoli sottomessi ogni traccia delle tradizioni preesistenti. Edward Said, oltre a definire il libro una «catastrofe intellettuale», accusò Naipaul di avere offerto un consapevole sostegno alle «mitologie coloniali sui neri e sugli wogs» (i latini in senso spregiativo) in altre opere come The Middle Passage (1962) e Un’area di tenebra (1964). E Salman Rushdie, nel denunciare la sua vicinanza a formazioni nazionaliste indù quali RSS, WHP e BJP, lo definì «un compagno di viaggio del fascismo» che «disonora il premio Nobel».
Lui ha sempre cercato di «non essere allineato a nulla», di sfuggire ad ogni visione politico-ideologica per concentrarsi su un’osservazione il più possibile fedele alla realtà. I suoi scritti, lontani anni luce da qull’immagine caricaturale che le tante schermaglie giornalistiche hanno contribuito a diffondere, ci mostrano un civilissimo conservatore britannico, dalla braminica superbia. Uno scrittore che non ha mai smesso di inseguire l’idea di una letteratura distaccata e scevra di preconcetti, non meno illusoria delle illusioni che vorrebbe smascherare. Ma nell’infliggere questa pratica innanzitutto a se stesso, nel non lesinare nemmeno gli aspetti più scabrosi della propria esistenza, V. S. Naipaul riesce nell’impresa di riscattare la sua smodata ambizione, restituendo dignità ad un talento di irripetibile fulgore.

Manuel Lambertini

domenica 5 agosto 2012

Cinquant'anni senza Marilyn

A Truman Capote aveva confidato la volontà di essere cremata, e il desiderio di vedere le proprie ceneri disperse nell’oceano. E proprio quel geniale, autodistruttivo Capote, in Musica per camaleonti, l’avrebbe poi descritta come «una bellissima bambina», lasciando inviolate tutte le emozioni con cui la diva più famosa del mondo aveva conquistato anche gli spettatori meno impressionabili.
Ma non sono le onde del mare a custodire i resti di Norma Jeane Baker, e a cullarli nel loro eterno infrangersi contro le scogliere della West Coast. Marilyn Monroe – questo il nome con cui si fece conoscere, a partire dalla metà degli anni ’40 – riposa al Westwood Village Memorial Park Cemetery, in quella Los Angeles che il 1° giugno 1926 le aveva dato i natali. La sua vita si spegneva la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, dopo un’overdose di barbiturici che fu subito liquidata come «probabile suicidio».
Con questa tragica uscita di scena, all’età di trentasei anni, il mito di Marilyn veniva consegnato ad un’immortalità che forse era già inscritta nel suo triste destino. Lei che fin da piccola, con occhi sognanti, osservava le impronte dei divi di Hollywood stampate sul cemento dinanzi al Chinese Theatre. Lei che, orfana di padre e mai amata dalla madre, raccontava agli amichetti di essere figlia di Clark Gable, senza sapere che col Rhett Butler di Via col vento avrebbe condiviso il set dell'ultimo film, Gli spostati (1961).
Nella sua folgorante carriera, tanti successi e tante sofferenze. Numerosi amanti, anche celebri, e tre matrimoni – con James Dougherty (1942-1946), Joe Di Maggio (1954), Arthur Miller (1956-1961) –, quattro se si conta anche quello celebrato quasi per gioco a Tijuana, nell’ottobre 1952, con l’amico Robert Slatzer. Una trentina le pellicole a cui prese parte, per la regia dei più importanti cineasti dell’epoca: da John Huston a Billy Wilder, da Howard Hawks a George Cukor, passando per Jean Negulesco, Henry Hathaway, Laurence Olivier. Il ruolo di «Zucchero» nel capolavoro di Wilder, A qualcuno piace caldo (1959), le valse un Golden Globe. E titoli come Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde, Come sposare un milionario (1953), Quando la moglie è in vacanza (1955), Il principe e la ballerina (1957) segnarono la sua incontenibile, definitiva irruzione nel firmamento delle stelle di Hollywood.
Non fu infatti la prematura scomparsa a trasformarla in leggenda. Essa creò, semmai, una seconda leggenda, nella quale cominciarono ad aggirarsi – come comparse, ma niente di più – tutti i protagonisti dell’America di allora: John e Robert Kennedy, la mafia, la Cia, l’Fbi con il suo potente direttore J. Edgar Hoover, gli intellettuali di sinistra e dalle pericolose simpatie comuniste… Una leggenda dentro la leggenda, alimentata dai più inquietanti sospetti circa la fine di un’attrice instabile, che poteva essere entrata in possesso di informazioni imbarazzanti.
Marilyn ritratta da Bert Stern (1962)
Perchè Marilyn Monroe era molto più che un’attrice fra le tante, come ebbe a scrivere il grande Norman Mailer nella «biografia romanzata» che dedicò alla diva nel 1973: «Poteva anche avere la voce modesta e la carne morbida della ragazza della porta accanto, ma sullo schermo era più grande che nella vita. Già agli inizi degli anni Cinquanta, l’era di Eisenhower, Marilyn prometteva che sarebbe venuto un tempo in cui il sesso sarebbe stato facile, dolce e democratico per tutti. Il suo stomaco, libero da corpetti o guaine, sporgeva in un pieno ventre di donna, terribilmente inelegante, un’affermazione di un ventre frequentemente inumidito di seme – quel ventre che non avrebbe mai avuto un bambino – e i suoi seni puntavano boccioli e germogli di carne sulla faccia di molti sudati patiti del cinema. Era una cornucopia, dispensatrice di sogni mielati». Un abbagliante sogno erotico collettivo, dunque, inconsapevole anticipazione di una rivoluzione dei costumi che si sarebbe realizzata solo dopo la sua morte: «Al suo apogeo, l’eco della sua piccola e perfetta creazione raggiunse l’orizzonte della nostra mente. Noi la udimmo parlare con quella flebile voce tintinnante così simile a un campanellino, ed esso suonò dopo la sua morte per tutto quel decennio degli anni Sessanta che lei aveva contribuito a creare, attraverso le sue esaltazioni, i suoi spettri e il suo centro magico. [...] Nella sua ambizione, così faustiana, e nella sua ignoranza delle dimensioni della cultura, nella sua liberazione e nei suoi desideri tirannici, nelle sue nobili aspirazioni democratiche intimamente contraddette dal sempre più ampio stagno del suo narcisismo (dove ogni amico o schiavo doveva bagnarsi), possiamo vedere lo specchio ingrandito di noi stessi, la nostra generazione esagerata e ora decisamente sconfitta; sì, essa condusse una ricognizione attraverso gli anni Cinquanta, e alla sua morte ci lasciò un messaggio: “Dateci dentro, ragazzi!”. Ora è lo spettro degli anni Sessanta».
Ebbene, è trascorso mezzo secolo da quella notte d’agosto in cui Marilyn lasciò la vita. A salutare questo anniversario, insieme ad un film con un’acclamatissima Michelle Williams, si sono ammassate decine e decine di pubblicazioni – tra ristampe e opere inedite – su quella che è ancora celebrata come «la donna più bella del mondo». È stata finalmente tradotta in italiano l’opera di Mailer appena citata, Marilyn (Dalai). E oltre al libro da cui è stato tratto il recente film, La mia settimana con Marilyn (Mondadori) di Colin Clark, è d’obbligo segnalare il romanzo noir di J. I. Baker, Il diario segreto di Marilyn (Rizzoli), Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe (Rizzoli) di Keith Badman e La donna più bella del mondo (Aliberti) di Andrea Carlo Cappi, nonché i memoir fotografici di Lawrence Schiller, Andrè De Dienes e Bert Stern. Quest’ultimo, in particolare, ebbe in sorte di immortalarla solo sei settimane prima della scomparsa, in un servizio fotografico entrato nella storia. Vi è ritratta una fragile e bellissima bambina, assopitasi cinquant’anni fa. Una stella che non si spegne.

Manuel Lambertini

martedì 31 luglio 2012

«Non dite a mia madre che sono cieco…»

Mohammad Brash
Il testo che segue potrebbe essere stato scritto da uno dei tanti poeti che una «nazione fatta di parole» come quella palestinese ha prodotto nel corso della sua lunga storia... Da Mahmoud Darwish, forse, che aveva eletto la poesia a suprema dimora della propria patria: «Potete legarmi mani e piedi, / togliermi il quaderno e le sigarette, / riempirmi la bocca di terra. / La poesia è sangue del mio cuore vivo, / sale del mio pane, / luce dei miei occhi, / sarà scritta con le unghie, / lo sguardo / e il ferro. / La canterò nella cella della mia prigione / nella stalla / sotto la sferza / tra i ceppi / nello spasimo delle catene. / Ho dentro di me un milione di usignoli / per cantare la mia canzone di lotta». O da Samih al-Qasim, altro celebre poeta e massimo cantore della resistenza. Oppure da quell’Ibrahim Tuqan che proprio nella poesia La mia patria (Mawtini), il futuro inno nazionale, cantava: «la spada e la penna sono i nostri simboli…». Invece lo ha scritto un prigioniero palestinese di trentadue anni, Mohammad Brash. Nel 2000 i cecchini dello Tzahal uccisero suo fratello, appena quindicenne. E nel 2001 un’esplosione gli danneggiò gravemente la vista. Arrestato nel 2003, è attualmente detenuto nel carcere israeliano di Aishel.


«Non dite a mia madre che sono diventato cieco. Quando viene a trovarmi, lei non sa che sono diventato cieco, dopo che i miei occhi si sono ammalati e il buio ha invaso il mio corpo. Lei mi vede ma io non la vedo. Le sorrido da dietro la rete di ferro e faccio finta di vederla, quando mi mostra le fotografie dei miei fratelli, dei miei amici e dei nostri vicini.

Non ditele che sono anni che aspetto un'operazione per avere una cornea nuova e che sono anni che la direzione del carcere rimanda, rimanda e poi rimanda ancora, dando ai miei occhi tutte le ragioni per dimenticare la luce del giorno.

Non raccontatele del mio corpo segnato da ricami di schegge di piombo, né che il mio piede sinistro è stato amputato e sostituito da uno posticcio mentre quello destro è già ammuffito e si sta distaccando dalla vita.

Non raccontatele come un prigioniero perde la cognizione dei sentimenti più elementari, condannato a vedere soltanto ferri e cenere e mai il bianco radioso e i cavalli sellati dal silenzio che guidano verso la speranza.

Ditele che sono vivo, che sono sano, che i miei occhi vedono, che cammino, corro, gioco, salto, scrivo e leggo... Trascino il mio dolore su queste stampelle e sono con mio fratello martire, ora in cielo, e lo sento chiamarmi con la forza del tuono e del fulmine...

Non ditele che non conosco più il sonno, che mi nutro di sedativi per intorpidire le mie membra... che quando mi muovo per cercare le mie cose sbatto contro le sbarre o il corpo di un altro prigioniero, che dorme accanto a me e si alza per aiutarmi ad andare in bagno...

Stare sveglio mi addolora e il sonno mi ha abbandonato. Non dite a mia madre della polvere da sparo che mi è entrata negli occhi riempiendoli di sangue, sulla strada del campo in quel pomeriggio feroce, quando i cecchini mi hanno scelto come bersaglio facendo volare il mio piede lontano.

Prima che il buio mi inghiottisse, si è impressa nei miei occhi l'immagine di un bambino che mi correva incontro, portando una bandiera, e gridava: “Martire! Martire!”

Ditele che non mi basta sognarla, che sono straziato dalla nostalgia di lei, che incido segni sul muro per ricordarla e dimenticare i miei dolori e l’oscurità che mi avvolge.

Ditele che seguo l’ascesa della sua preghiera fino a toccare il cielo, mi fermo e poi a malincuore ritorno per non ferirla con la mia morte, ma rimango sulla porta come se avessi già scelto il mio domani.

Non dite a mia madre che Israele del ventunesimo secolo ha trasformato le carceri in laboratori sperimentali dove coltivare malattie che consumano i nostri corpi lentamente come si strugge la cera delle candele.

Non ditele che ho già imparato i nomi di tutte le malattie più strane e delle medicine più bizzarre e che conosco il sapore di tutti gli anestetici che sono costretto a inghiottire mentre osservo il corpo di Zakarya Issa, amico e fratello, scivolare prima di me nella vita senza vita di un lungo coma.

Non raccontate a mia madre dei malati e delle malattie che accendono nei loro corpi guerre e follia: Ahmad Abu Il-Rub, Khaled Al-Shawish, Ahmad Al-Najjar, Mansour Mauqadeh, Akram Mansour, Ahmad Samarah, Wafa' Il-Bis, Rima Daragmeh, Tareq Asy, Motasem Raddad, Ryad Il-O'mor, Yasser Nazzal, Ashraf Abu Dree, Jihad Abu Hanyeh, tutti massacrati dal carcere e dalla malattia, che uno stato arrogante capace soltanto a dispensare morte e funerali, ci infligge.

Ditele che solo trenta porte mi separano dalla porta di casa e che avanzo di un passo ogni volta che vola un uccello, ditele che il fuoco mi avvampa gli occhi, il filo spinato mi trafigge il petto e che mi rifugio nel suo cuore e nelle sue preghiere».
Mohammad Brash


Poco dopo la diffusione di questa lettera, nell’aprile 2012, l’associazione umanitaria Ad-Dameer ha rilevato la presenza nelle carceri israeliane di ben 4653 detenuti politici palestinesi, tra cui 308 in detenzione amministrativa (un regime carcerario che prevede periodi di detenzione fino a sei mesi senza imputazione né condanna),  218 minori e 7 donne. Lo sciopero della fame indetto da 1600 di loro, protrattosi fino a metà maggio e conclusosi con un lieve, impercettibile miglioramento delle condizioni di detenzione, non ha avuto particolare eco presso i media occidentali, nonostante il negoziato tra i prigionieri e le autorità israeliane abbia visto un forte coinvolgimento dell’Egitto del dopo-Mubarak.

Manuel Lambertini

giovedì 26 luglio 2012

A proposito di Schmitt

Chi volesse accostarsi al pensiero di una delle figure più eminenti e controverse della filosofia politica contemporanea – a quasi trent’anni dalla morte, Carl Schmitt continua ad essere oggetto di vivaci reinterpretazioni – troverà di grande interesse un piccolo libro pubblicato pochi mesi fa da Adelphi, Dialogo sul potere. Di dialoghi, in realtà, il volumetto ne contiene due: il Dialogo sul potere e sull’acceso al potente e il Dialogo sul nuovo spazio, entrambi concepiti per un pubblico vasto e animati da un chiaro intento divulgativo.
Rispettivamente nel giugno 1954 e nell’aprile 1955, i due testi furono recitati e trasmessi da un’emittente radiofonica di Francoforte, con un successo di pubblico che sfidò la pessima fama dell’autore, escluso dal mondo accademico perché compromesso con il regime nazista. E in entrambi i dialoghi, scrive il curatore Giovanni Gurisatti nella postfazione, si può leggere in controluce la difficile condizione vissuta a quel tempo dallo stesso Schmitt, sottrattosi al processo di Norimberga dopo un lungo periodo di internamento. Benché il suo distacco dal Führer e dal nazionalsocialismo avesse preceduto di molti anni il crollo del regime, il giurista di Plettenberg fu chiamato a rispondere di pesanti accuse: «partecipazione diretta o indiretta alla pianificazione di guerre di aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità».
Se, tuttavia, il Dialogo sul nuovo spazio prende solo indirettamente le mosse dalle memorie difensive scritte in quella circostanza – per scindere la propria elaborazione «prettamente scientifica» dall’espansionismo hitleriano e dalle teorie dello «spazio vitale» sviluppate da Alfred Rosenberg –, il Dialogo sul potere risulta più chiaramente influenzato dalle traversie personali dell’autore. Vi si legge, infatti, dell’«inevitabile dialettica interna di potere e impotenza in cui qualsiasi potente umano è destinato ad incappare», dell’«anticamera del potere» (camarilla o antichambre, che dir si voglia) e del problema dell’«accesso al vertice».
Dopo essersi interrogato sull’origine del potere – affermando, con Hobbes, che esso non deriva né da Dio né dalla natura, ma dagli uomini, dal loro stato di «generale debolezza», e da un’obbedienza dettata dal comune bisogno di protezione –, Schmitt si preoccupa di identificarne i veri detentori. Ed è qui che le sue riflessioni mostrano i segni degli interrogatori di Norimberga, durante i quali l’autore dei Dialoghi, pur non avendo svolto alcun ruolo di responsabilità all’interno del passato regime, si trovò a difendere «la posizione del Ministro del Reich e Capo della Cancelleria del Reich», nella fattispecie il giurista Hans Heinrich Lammers. A partire allo specifico problema del rapporto tra ministro e dittatore, nel quadro di un regime che conferiva a quest’ultimo poteri discrezionali pressoché illimitati, prendono però forma analisi tuttora inedite e sorprendenti.
Pochi, semplici passaggi, resi ancor più immediati dalla forma dialogica del testo, si strutturano attorno ad una chiarissima premessa: «L’individuo umano nelle cui mani stanno per un momento le grandi decisioni politiche può realizzare la sua volontà solo a determinate condizioni e con determinati mezzi. Anche il principe più assoluto deve fare affidamento su resoconti e informazioni ed è dipendente dai suoi consiglieri. [...] Chi è chiamato a riferire di fronte al potente, o gli fornisce informazioni, è già partecipe del potere, non importa se si tratti di un ministro responsabile della controfirma o di qualcuno che per via indiretta sappia cattivarsi l’attenzione del potente. È sufficiente che egli procuri impressioni e motivazioni all’individuo umano nelle cui mani, per un momento, sta la decisione». Detto in altri termini: «davanti a ogni camera del potere diretto si forma un’anticamera di influssi e poteri indiretti, un accesso all’orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima». E con tutte le varianti del caso: «Qui stanno l’uno accanto all’altro il vecchio Fredersdorff, cameriere personale di Federico il Grande, e la nobile imperatrice Augusta, Rasputin e il cardinale Richelieu, un’eminenza grigia e una Messalina. [...] A volte l’anticamera coincide con l’effettiva sala di Stato ufficiale, in cui i dignitari chiamati a riferire si riuniscono in attesa di essere ricevuti. Spesso però si tratta solo di un gabinetto privato». Molte, tuttavia, le peculiarità del totalitarismo nazista: «Quanto più il potere si concentra in un determinato punto, in un determinato uomo o gruppo di uomini come in un vertice, [...] tanto più violenta, accanita e sotterranea diventa anche la lotta tra coloro che occupano l’anticamera e controllano il corridoio. [...] Il potente diventa sempre più isolato quanto più il potere diretto si concentra nella sua persona individuale. Il corridoio lo sradica dal terreno comune e lo innalza in una sorta di stratosfera in cui egli mantiene contatti soltanto con coloro che indirettamente lo dominano, mentre perde i contatti con tutti gli altri uomini su cui esercita il potere, che a loro volta perdono contatto con lui. In casi estremi spesso tutto questo balza agli occhi in modo grottesco».
Che la figura di Hitler rientri in tale casistica è fuor di dubbio. Il Führer, scrive Gurisatti, «si pretendeva non solo onnipotente ma anche onnisciente», con «l’inaccessibilità di un dittatore per il quale un autista o un semplice Gauleiter potevano essere più importanti di un ministro o di un generale». È quanto scrive lo stesso Schmitt, in una memoria difensiva poi pubblicata nelle Risposte a Norimberga: «Hitler emanava disposizioni di contenuto generale e particolare di tutti i tipi; poteva emanare leggi, sciogliere matrimoni, infliggere pene, revocare la patria potestà, a suo piacimento, e poteva farlo pubblicamente o in segreto, a voce o per iscritto, a quattr’occhi o in qualsiasi altra occasione gli andasse bene, con il risultato che il richiamo a un ‘comando del Führer’ alla fine non poteva essere verificato da nessuno…». Ed è così che Schmitt finisce col condannare proprio quell’esercizio arbitrario del potere di cui, tra il 1933 e il 1936, aveva subito il fascino, e sul quale si era retto il mostruoso «soggettivismo» del regime hitleriano. Egli dunque invoca la necessità di impedire gli abusi dell’anticamera «tramite misure razionali e norme costituzionali», pur nella consapevolezza che «nessuna istituzione, per quanto saggia, nessuna organizzazione, per quanto sofisticata, possono eliminare l’anticamera come tale».
Ma le sue analisi si spingono molto oltre, ad una conclusione di più ampio respiro che non esita ad affermarsi come «risultato incontestabile»: il potere è più forte della volontà umana, sia essa buona o cattiva, ed il singolo potente è costretto a muoversi in «una situazione derivante da un sistema di divisione del lavoro cresciuta oltre ogni limite». Il tema caldo è ovviamente quello della tecnica, della bomba atomica, della «potenza dei moderni mezzi di produzione» che «supera la forza degli individui umani che li inventano e li impiegano», così come «le possibilità delle macchine e dei procedimenti tecnici moderni superano la forza dei muscoli e dei cervelli umani». O meglio: «Ciò che produce tutto questo non è più l’uomo in quanto uomo, bensì una reazione a catena da lui provocata. Nella misura in cui oltrepassa i limiti della physis umana, essa trascende anche qualsiasi dimensione interumana di ogni possibile potere di uomini su uomini. Anche la relazione tra potere e obbedienza viene travolta. Assai più della tecnica, è proprio il potere a essere sfuggito di mano agli uomini, e coloro che, con l’aiuto di siffatti mezzi tecnici, esercitano il potere su altri non sono più “tra di loro” con quelli che sono soggetti a tale potere». (Come non intravedere in queste parole un inquietante spaccato del mondo di oggi, assai lontano da quello della Guerra Fredda e tuttavia attanagliato dall’incontrollabile complessità del capitalismo finanziario?).
È proprio in questa constatazione, del resto, che il Dialogo sul potere e il Dialogo sul nuovo spazio trovano il loro principale punto di contatto. Ed è un Carl Schmitt «sobrio e posato» quello che nei due Dialoghi condanna l’arbitrio illimitato del potere, che svela l’eterna relazione dialettica tra potere e impotenza, che disapprova ogni conquista territoriale e che infine ammonisce l’umanità dai rischi di una tecnica «disumana». Egli ormai sembra aver trovato nel «ritorno alla terra» il vero banco di prova del presente: «Colui che riuscirà a catturare la tecnica scatenata, a domarla e a inserirla in un ordinamento concreto avrà risposto all’attuale chiamata assai più di colui che con i mezzi di una tecnica scatenata cerca di sbarcare sulla Luna o su Marte». In definitiva: «Non c’è bisogno che mi auguriate niente di “nuovo”. Avrete certo notato [...] che io rimango presso la terra e sulla terra. Per me l’uomo è un figlio della terra, e lo resterà fintanto che resterà uomo. Saprete sicuramente come inizia la seconda parte del Faust di Goethe: Faust si risveglia da una notte popolata di incubi terrificanti e prova la gioia di una nuova aurora della terra, che lo consola e gli infonde nuova forza. Allora egli saluta il nuovo mondo che gli si sta aprendo con lo splendido verso: Tu sei rimasta, terra, salda anche questa notte».

Manuel Lambertini