venerdì 11 novembre 2011

Pupi Avati, artigiano di cinema

Confeziona film ad una velocità impressionante, con ritmi di lavoro che il trascorrere degli anni ha perfino reso più incalzanti. Dall’esordio con Balsamus, nel 1968, a Il cuore grande delle ragazze, Giuseppe Avati detto Pupi vanta una filmografia di circa quaranta titoli, a cui si aggiungono alcune serie tv di grande successo. Da anni accompagna la promozione del film appena realizzato con le riprese dell’opera che seguirà, non senza aver elaborato la sceneggiatura ancora successiva... E su ogni nuovo set la “famiglia Avati” si allarga, accoglie i nuovi arrivati e non trascura gli amici di sempre, guidata dal paziente rigore di Pupi e sorretta dall’espansiva magnanimità del fratello Antonio, colonna portante della DUEA Film e indispensabile compagno d’avventura. Nel libro autobiografico Sotto le stelle di un film (Il Margine, 2008) è proprio quest’ultimo a confessare il segreto della prolificità avatiana: «Noi facciamo tanti film non perché siamo più bravi degli altri, ma perché ne abbiamo più bisogno degli altri, perché ogni nuovo film con i suoi anticipi finanziari ci permette di pagare i conti del film precedente e consente alla nostra società di vivere».
Al bolognese Pupi Avati il cinema ha offerto quel successo che la musica aveva negato, riscattando aspirazioni artistiche bersagliate dal sarcasmo provinciale e platealmente derise dalla cultura del bar. Quando, dal 1959 al 1962, suonava nella «Rheno Dixieland Band», era certo di poter diventare un grande clarinettista jazz; ma fu l’entrata nel gruppo di Lucio Dalla, con il suo umiliante talento, a stroncargli ogni ambizione. Assunto come impiegato alla Findus, trascorse nella nota azienda di surgelati il periodo meno gratificante della sua vita, benché la sicurezza economica di quegli anni gli abbia permesso di sposare l’amata Nicola Turri: nel 1966 nacque la loro prima figlia, Maria Antonia, seguita da Tommaso nel 1969 e da Alvise nel 1971. Ma in quel periodo fermentò anche il suo amore per il cinema: folgorato dalla visione di Otto e mezzo e imbattutosi, a Ferrara, nel set de La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, si lasciò conquistare da questa nuova infatuazione.
Nel 1966 diresse uno spettacolo musicale che fu inscenato al Teatro Duse di Bologna; poi la sua amicizia con il jazzista Romano Mussolini gli permise di lavorare come aiuto regista in Satanik (1968) di Piero Vivarelli. La sceneggiatura del suo primo film venne sottoposta a tutti i produttori dell’epoca, finchè un anonimo industriale accettò di finanziarne la realizzazione: Balsamus, l’uomo di Satana, con protagonista Bob Tonelli, poté faticosamente comparire sulle scene, regalando ad Avati almeno l’attenzione della critica. Dopo il fallimento del film che seguì, Thomas…Gli indemoniati (1969), decise di trasferirsi a Roma, dove la madre Ines gestiva una piccola pensione. Malgrado le molte difficoltà economiche, fu proprio il nuovo clima a infondergli fiducia: libero dal timore di essere additato come un fallito, poté entrare a far parte del salotto di Laura Betti – un ambiente che presto avrebbe abbandonato – e conoscere meglio il mondo del cinema. Collaborò infatti alla sceneggiatura dell’ultimo film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), nell’attesa di portare a termine un proprio progetto.
La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone uscì nel 1974, prodotto da Giovanni Bertolucci per la Euro International e reso possibile dalla generosità di Ugo Tognazzi, che accettò senza cachet il ruolo di protagonista. La formula produttiva cambiò radicalmente dopo le disavventure del film successivo, Bordella (1975), sceneggiato con la collaborazione di Maurizio Costanzo e posto sotto sequestro per oscenità. Nell’intento di svincolarsi da ogni nocivo condizionamento, il regista fondò la A.M.A. Film, insieme all’inseparabile Antonio e al producer Gianni Minervini. Scommettendo su una pellicola a basso costo, la nuova società produsse l’esempio più alto di gotico padano, La casa dalle finestre che ridono (1976). Il film, come ha evidenziato Antonello Sarno, segnò l’ingesso di Avati «in quella categoria di autori certamente promettenti (che, con un termine orrendo e di vaga derivazione sindacale, oggi si definisce “artigianato” cinematografico) nella quale resterà per parecchio tempo, prima di raggiungere il traguardo della definitiva e simultanea consacrazione da parte della critica e del pubblico» (A. Sarno, Pupi Avati, Il Castoro, 1992, p. 46). Operazioni altrettanto felici della A.M.A. Film furono Tutti defunti… tranne i morti (1977) con Carlo Delle Piane, Aiutami a sognare (1981) e Zeder (1982), oltre a serie televisive quali Jazz Band (1978) e Cinema!!! (1979), trasmesse da Rai Uno in prima serata. A deludere le aspettative fu invece lo sfortunato Le strelle nel fosso (1978), un’incantevole fiaba contadina in perpetua corrispondenza con il sovrannaturale. Il sodalizio con Minervini proseguì fino al 1983: dopo lo straordinario esito di Una gita scolastica, che vide la prima apparizione del giovane Nik Novecento, i fratelli Avati poterono dare vita ad una factory del tutto autonoma, la DUEA Film.
Quest’ultima iniziativa – la cui energia, dopo un quarto di secolo, non può certo dirsi esaurita – ha dato al cinema italiano piccoli capolavori come Festa di laurea (1985), Regalo di Natale (1986), Storia di ragazzi e di ragazze (1989) e Il testimone dello sposo (1997). Nel corso della sua lunga maturazione, il regista è poi approdato ad una singolare esperienza negli Stati Uniti, seguendo il mito del cornettista Leon “Bix” Beiderbecke. Dopo l’impegnativo Bix: un’ipotesi leggendaria (1991), girato a Davenport, nella casa natale del protagonista, la provincia americana avrebbe fatto da location ad altri suoi film: da Fratelli e sorelle (1992) a L’amico d’infanzia (1994), fino al recente Il nascondiglio (2007). Ma tra ripetute avventure d’oltreoceano e appassionate incursioni nel Medioevo – prima con Magnificat (1993) e poi con il kolossal I cavalieri che fecero l’impresa (2001) – a imporsi sarebbe stata, ancora una volta, quella riflessione sulla famiglia e sui rapporti padre-figlio da sempre presente nella cinematografia avatiana. La cena per farli conoscere (2006) e Il papà di Giovanna (2008), come ha fatto notare Federico Pontiggia su «Il Fatto Quotidiano», potrebbero così essere collocati all’interno di un’ideale “trilogia sui padri”, giunta poi a compimento con Il figlio più piccolo (2010).
Tra i registi italiani, nessuno sembra attingere idee ed emozioni dalla propria storia personale con la stessa naturalezza di Pupi Avati. Ha saputo raccontare Bologna solo dopo averla lasciata: si è calato nei luoghi fisici dell’infanzia e in quelli ideali della memoria, riscoprendo una città con cui non è ancora avvenuta una piena riconciliazione. Per il duplice rifiuto dell’impegno politico e della sottomissione al mercato, ha ottenuto da Goffredo Fofi l’appellativo di «Truffaut dell’Italietta»: nel restare fedele al credo cattolico e a idee politiche vagamente democristiane, Avati ha scelto una forma di emarginazione che si è rivelata alquanto stimolante… Muovendosi tra l’horror e la commedia, tra il grottesco e il drammatico, il suo cinema ha creato un genere del tutto nuovo, contraddistinto da una predilezione spesso derisa per i buoni sentimenti ma incapace di rinnegare il fascino del lato oscuro dell’anima umana. «Deluderò qualcuno – ha scritto in Sotto le stelle di un film – ma tutti i film di genere horror [...] li ho fatti con l’obiettivo di spaventare, e basta. Non voglio giustificarli con istanze superiori. È stato il resettare me stesso nei riguardi del mezzo, rimettermi alla prova per vedere se ero ancora capace di produrre emozioni primarie. Niente di più. Nessun altro intento artistico o filosofico».
Eppure, neanche i film horror possono ritenersi estranei a quell’«Avati touch», per usare la felice espressione di Tullio Kezich, che regala una delicata grazia ad ogni tipo di narrazione. Le sue opere più sentite sono pervase da una religiosità personale e intrisa di cultura contadina, nella credenza dal sapore antico che il trascendente possa manifestarsi attraverso l’immediatezza della natura. Le sue storie, sempre corali e sommesse, nascono dal quotidiano e cercano di entrare in intimità con lo spettatore. Gli eroi di questi piccoli film sono uomini semplici e insicuri, persone ingenue e mai cresciute del tutto, destinate ad essere tradite e ridicolizzate. Ma sono anche «perdenti senza rassegnazione», come li ha definititi lo stesso Avati, capaci ogni volta di nutrirsi delle più vane speranze. A venticinque anni di distanza, Carlo Delle Piane e Silvio Orlando hanno vinto la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia per ruoli molto simili, rispettivamente con Una gita scolastica e Il papà di Giovanna. Entrambi interpretavano timidi professori liceali – e del medesimo liceo, il Galvani – intenti a difendere le loro illusioni. Ancor più ingenui erano poi i personaggi interpretati da Nik Novecento, scoperto per caso da Antonio Avati e prematuramente scomparso: al secolo Leonardo Sottani, Nik resta la più commovente incarnazione della genuinità e del candore, la più autentica personificazione dell’innocenza che si ricordi nel cinema italiano.
Una nota anomalia del metodo avatiano riguarda proprio la selezione e la direzione degli attori. «L’organizzazione del film assomiglia un po’ agli inviti a cena» ha spiegato una volta Pupi. «Cerchi di mettere insieme le persone con le quali hai piacere di stare, ma che immagini stiano bene tra di loro, a tavola. E così, per i film, io diramo gli inviti prima di sapere esattamente quello che farò, ed è la risposta all’invito che crea in me quella sorta di piccolo brivido, di piccolo entusiasmo, che mi è indispensabile per scrivere la storia. È proprio questo raccontare e riraccontare [alle persone chiamate] che crea in me stesso quell’accumulo di materiale che poi mi è indispensabile nel momento in cui vado a scrivere» (A. Sarno, op. cit., p. 118). A lungo coordinata dall’aiuto regista Cesare Bastelli, col supporto di fidati professionisti quali Riz Ortolani per le musiche, Pasquale Rachini per la fotografia e Amedeo Salfa per il montaggio, la factory non ha mai separato il proprio destino da quello di Gianni Cavina, presente fin dai tempi di Balsamus. A lui si sono aggiunti, negli anni, attori celebri e sconosciuti, improbabili personaggi televisivi e talenti inaspettati: da Mariangela Melato a Ezio Greggio, da Elena Sofia Ricci a Cesare Cremonini, passando per Katia Ricciarelli, Ines Sastre e Francesca Neri, solo per citarne alcuni. «Ma uno studio più attento – ha scritto il critico Lorenzo Pellizzari – rivelerebbe la costante presenza di caratteristi e figuranti che nell’immaginario del regista più che una squadra vengono a comporre un vero e proprio piccolo mondo» (Antonio Maraldi, Il cinema di Pupi Avati, Centro Cinema Città di Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», p. 13-14).
Un mondo che non sarebbe lo stesso senza la famigerata “terapia Avati”. L’ha vissuta il grande Carlo Delle Piane, riabilitato da Tutti defunti… tranne i morti dopo un periodo di commedie di serie B. Vi si è sottoposto con entusiasmo Diego Abatantuono, sdoganatosi dai film precedenti grazie a Regalo di Natale. E ha tentato di praticarla anche Massimo Boldi, nel meno noto Festival (1996). «La prima volta che ho incontrato Pupi è stato per Il nascondiglio» ha ricordato di recente un’attrice assai lontana da necessità di questo tipo, Laura Morante. «Lui subito ha premesso: “ti avverto che in questo film dovrai essere brutta”. Poi nel secondo film mi ha detto: “vorrei che tu rinunciassi ad essere intelligente”… A Pupi piacciono o gli attori che può scoprire e tirare fuori dal nulla, oppure quelli sul viale del tramonto. Io suppongo di essere della seconda categoria…».
Dopo la tiepida accoglienza ricevuta dagli ultimi due film – Il figlio più piccolo con Christian De Sica e la stessa Laura Morante, e Una sconfinata giovinezza (2010), assai più doloroso e commosso – Il cuore grande delle ragazze (2011) figurava tra i favoriti alla sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Non ha vinto, ma per la critica Avati è ormai «il Balzac della celluloide». La sua leggerezza, semplice e nostalgica come l’odore del biancospino, insospettabilmente ed innocentemente licenziosa, non è più imputabile di sentimentalismo.

Manuel Lambertini

Nessun commento:

Posta un commento