lunedì 26 settembre 2011

Wangari Maathai

Bologna, Palazzo D'Accursio, 11 maggio 2010
Se ne è andata «il 25 settembre 2011 dopo una lunga e coraggiosa lotta contro il cancro», si legge sul sito internet del Green Belt Movement, l’organizzazione non governativa che ella stessa aveva fondato nel 1977 e che da allora combatte la deforestazione del continente africano. Prosegue il comunicato: «La dipartita della Professoressa Maathai è prematura ed è una grandissima perdita per tutti coloro che la conoscevano - come madre, parente, collega, modello, e eroina; o che ammiravano la sua determinazione nel rendere il mondo un posto più pacifico, più sano e migliore».
Tra le grandi personalità africane, nessuna al pari di Wangari Maathai è riuscita a indirizzare la propria realizzazione professionale verso una così alta condivisione delle improcrastinabili battaglie a difesa dell’ambiente. Nata a Nyeri il 1° aprile 1940 in una modesta famiglia di etnia kikuyo, nel 1966 si laureò in Scienze Biologiche all’Università di Pitthsburg, grazie alla borsa di studio che il programma “Ponte aereo Kennedy” forniva agli studenti africani più meritevoli. Nel 1971 fu la prima donna dell’Africa Orientale a ricevere un dottorato di ricerca, e poi la prima a dirigere un dipartimento universitario in Kenya: al 1976 risale infatti la sua nomina a capo del dipartimento di Anatomia Veterinaria presso l’Università di Nairobi.
Il Green Belt Movement vide la luce l’anno successivo, su sollecitazione del Consiglio Nazionale delle Donne del Kenya, che la stessa Maathai avrebbe successivamente presieduto. Oggi, dopo oltre tre decenni di attività e grazie alla partecipazione di tremila donne, l’associazione può vantare una campagna di riforestazione che conta circa 30 milioni di alberi piantati con il coinvolgimento delle piccole comunità locali. Un impegno che è valso a Wangari Maathai il soprannome di Mama Miti, “mamma degli alberi”. Non mancarono neanche i riconoscimenti internazionali… Nel 1984 le venne assegnato il Right Livelihood Award, noto come il Nobel alternativo, in seguito conferito ad un’altra icona ecofemminista, Vandana Shiva. E nel 2004, dopo vent’anni di lotte - anche contro il governo di Daniel Arap Moi, la cui polizia non esitò a picchiarla mentre stava piantando alberi nella foresta di Karura, nei pressi di Nairobi - la parlamentare e neo sottosegretaria al Ministero dell’Ambiente fu insignita del Premio Nobel per la Pace. Quello vero. In omaggio al «suo operato nel campo dei diritti delle donne, perché il suo lavoro ha ispirato moltissimi altri attivisti, perché ha saputo conciliare la scienza e il lavoro democratico». Per «il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace».
Durante la cerimonia di consegna del premio, pronunciò un discorso dall’enorme slancio profetico: «Sono passati trent’anni dall’inizio del nostro lavoro. Le attività che devastano l’ambiente e le società proseguono senza sosta. Oggi ci troviamo di fronte ad una sfida che richiede un cambiamento nel nostro modo di pensare, affinchè l’umanità smetta di minacciare il proprio sistema di supporto vitale. Siamo chiamati ad aiutare la Terra a guarire le sue ferite, e a guarire la nostra – anzi, ad abbracciare l’intera creazione in tutta la sua diversità, bellezza e meraviglia. [...] Nel corso della storia, arriva un momento in cui l’umanità è chiamata a passare ad un nuovo livello di coscienza, per raggiungere un terreno morale superiore. Un tempo in cui dobbiamo liberarci delle nostre paure e trasmetterci speranza a vicenda. Quel tempo è adesso».
Da allora girò il mondo ripetendo sempre lo stesso messaggio: «In tutte le analisi dei problemi dell’Africa, c’è una risorsa che spesso non viene apprezzata: gli africani stessi». E l’immensa saggezza dell’Africa non è certo scomparsa con lei. Quell’Africa ancora dilaniata dalla povertà. Culla di un’umanità distratta. Terra insanguinata da eterni conflitti. Ma madre amorevole di una donna dolce e ostinata, capace di reggere sulle proprie spalle il peso di questo opprimente fardello. Un carico che ora grava sulle generazioni che verranno, alleggerito soltanto dalla forza del suo esempio.

Manuel Lambertini

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