venerdì 13 dicembre 2013

Sempre Compagno, Jack Hirschman

Jack Hirschman (New York, 13 dicembre 1933)





Io non faccio schiavi
e la mia schiavitù è un respiro

sono una cosa del nulla
sono meno che, e più

io con zero
dieci
E in tale felicità
resisto a ogni cosa tranne
che al tuo saccheggiarmi
il tuo arrivare e frugare
la mia risata di stracci
il mio caos d’immondizia
sono un bidone della spazzatura
sono spazzaturaincantesimo
che trema e si contorce
sono la colla di un dio morto
spalmata su tutto
il tuo corpo
dove i manifesti
per la manifestazione di domani
sono incollati
e i graffiti
sono scarabocchiati
con sangue e sperma.





Jack Hirschman è fatto così. Ogni sua poesia – come questa, Io non faccio schiavi (1997) – nasce da un irriducibile bisogno di cambiare il mondo. Ed oggi che compie ottant’anni, mi torna alla mente ciò che disse il suo amico Alberto Masala durante un incontro pubblico di alcuni anni fa: dopo i Cantos di Ezra Pound, se non ci fosse stato Jack Hirschman con i suoi Arcani il XX secolo si sarebbe chiuso con un pericoloso sbilanciamento a favore delle destre.
In Volevo che voi lo sapeste (Multimedia edizioni, 2004), una selezione di poesie scritte tra il 1952 e il 2004, l’universo di Hirschman si rivela attraverso un susseguirsi di immagini forti, a volte gioiose e a volte dolenti, come la vita. Dapprima un linguaggio sperimentale, tra Joyce e la Beat Generation. Poi gli omaggi a tanti amici, vicini e lontani. Quindi la passione per la cabala. E la Rivoluzione. L’indignazione che si fa poesia. La scrittura come affronto allo squallore della società dei consumi, come semplice e sfrontata ricerca dell’immateriale. I muri del Bronx, bucherellati dai proiettili dei gangster. Sigourney Weaver, uccisa e gettata in un fosso dai nazisti. Una madre che tiene per mano suo figlio, e che con lui attraversa la vita fino alla morte, sfidando lo scherno della folla con il suo amore. E il Washington Square Garden, dove un uomo sdraiato sull’erba piscia in aria «formando un cerchio dorato». Con lui, tantissimi altri uomini, intenti a rovistare nei bidoni dell’immondizia, senza casa e senza cibo, ma ancora ricchi di forza poetica.
Basta guardarlo, questo brigante in bretelle, con i capelli e i baffi grigi, per capire dove trovi gli ultimi residui di umanità. Nei sobborghi della Grande Mela e di San Francisco, Hirschman è un emarginato tra gli emarginati. Poeta in una società profittatrice. Comunista nella pancia del capitalismo. Ma sognatore incontrollabile. Nei suoi versi, il ladro continua a rapinare le banche gridando: «Buon compleanno, Stalin!». Tina Modotti rivive nella lotta. Fratelli sconosciuti ne approvano le idee rivoluzionarie, toccando la sensibilità del suo animo con imprevedibili gesti di solidarietà. E la sua palla nera continua a scagliarsi contro finestre e muri, mentre la calce sgretolata riesuma una vecchia scritta: SOLLEVATI, NUOVA CLASSE, SOLLEVATI!



Manuel Lambertini

mercoledì 11 dicembre 2013

Il maestro di Porto

Voci sempre più insistenti insinuano che abbia stretto un patto col Diavolo, per prolungare oltre i limiti dell’umano una vita incredibile e prodigiosa. Accade qualcosa di simile in uno dei suoi film più famosi, I misteri del convento (1995), dove l’equilibrio di una coppia di coniugi giunta nel monastero di Arrabida viene infranto dalla presenza di un mefistofelico custode (Luís Miguel Cintra), che seduce lei (Catherine Deneuve) e offre irresistibili tentazioni a lui (John Malkovich).
A Manoel de Oliveira, invece, la tentazione di riporre la macchina da presa non è mai venuta: «Mi chiedono perché faccio cinema. Non lo so: è come chiedermi perché respiro». Oggi compie 105 anni, ed è il regista più longevo e prolifico del mondo. «Questo de Oliveira, non vedo l’ora che muoia!», diceva scherzosamente Monicelli, lamentando l’oscuramento che il collega portoghese infliggeva a chiunque fosse un po’ meno vecchio di lui.
Manoel de Oliveira
(Porto, 11 dicembre 1908)
Nato nel 1908 in una famiglia agiata di Porto, studiò presso un collegio gesuita a La Guardia, in Galizia. Nella sua prima vita condivise con il fratello maggiore Casimiro una forte passione sportiva, distinguendosi nel salto con l’asta, nel ballo e soprattutto nelle corse automobilistiche. Accantonata l’idea di intraprendere la vita circense, approdò al cinema all'età di vent'anni, nel 1928, come interprete di un piccolo ruolo secondario in Fátima milagrosa, del regista italiano Rino Lupo. In seguito recitò anche in uno dei primissimi film sonori portoghesi, A Cancao de Lisboa (1933) di José Cottinelli Telmo. La visione di Berlino - Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttman ispirò il suo primo documentario da regista, Douro, Faina Fluvial (1933), accolto negativamente dal pubblico ma elogiato da una parte della critica e da Luigi Pirandello. Tra le sue influenze cinematografiche, Chaplin, Eric von Stroheim, Dreyer, Eisenstein. E il surrealista Luis Bunuel.
Manoel de Oliveira con la moglie Maria Isabel
Passarono quasi dieci anni prima che potesse realizzare il suo primo lungometraggio di finzione, Aniki-Bóbó (1942), un film dalle forti tinte neorealiste su due ragazzini di Porto che si contendono le attenzioni di una loro coetanea. Successivamente fu la sua avversione al regime fascista di Salazar ad allontanarlo dal cinema. Una dopo l’altra, tutte le sue sceneggiature vennero bocciate dal Segretariato Nazionale per l’Informazione, il ministero della propaganda dell'Estado Novo. In quegli anni di silenzio si occupò dell’azienda vinicola di famiglia. Nel 1940 aveva sposato Maria Isabel Brandão de Meneses de Almeida Carvalhais, classe 1918, madre dei suoi quattro figli.
Dopo essersi recato in Germania per studiare l’uso del colore nel cinema, nel 1956 realizzò il primo film a colori portoghese, Il pittore e la citta, un documentario ancora una volta ambientato a Porto. Ai cortometraggi Il pane (1959) e I quadri di mio fratello Julio (1959) seguì Atto della primavera (1963), che il critico Henrique Costa definì «il primo film politico del Portogallo»: è la rappresentazione della Passione di Cristo in un piccolo villaggio di contadini, un’opera nella quale la Resurrezione di Gesù arriva dopo un crudo alternarsi di immagini di guerra e di morte. Il cattolicesimo, ebbe a dire Oliveira, «è una religione che permette il peccato. Io non ho mai detto di essere cattolico, perché essere cattolici è molto difficile. Preferisco pensarmi come un grande peccatore».
Nell’ottobre 1963, mentre Atto della primavera veniva proiettato nelle sale di Parigi, il regista fu arrestato dalla PIDE, la polizia politica portoghese, e interrogato per dieci giorni: a liberarlo fu l’interessamento dell’amico Manuel Meneres, un influente sostenitore del regime.
La censura si abbatté anche sul cortometraggio La caccia (1964): l’ultima scena del film, un uomo che sprofonda nelle sabbie mobili mentre i presenti litigano tra loro, dimenticando di prestare soccorso, gli fu fatta sostituire con un finale edificante.
Con l’uscita di scena di Salazar, nel 1968, e soprattutto dopo la Rivoluzione dei Garofani, perse gran parte della propria ricchezza personale, ma acquisì una totale libertà artistica. «Ad un’età in cui molti uomini pensano alla pensione, Oliveira è emerso dall’oscurità come uno dei principali modernisti degli anni ’70, alla pari di Straub, Syberberg e Duras», scrisse il critico statunitense J. Hoberman.
La caccia (1964)
I quattro film realizzati nel decennio compreso tra il 1971 e il 1981 sono stati classificati dalla critica sotto la denominazione di «tetralogia degli amori frustrati». Il passato e il presente (1971), Benilde o la Vergine Madre (1975), Amore di perdizione (1978) e Francisca (1981): quattro storie accomunate dalla presenza di amanti che soffrono, e che sembrano votate a dimostrare l’impossibilità di raggiungere l’amore assoluto nella vita terrena; in ciascuno di questi film la vita di coppia viene turbata da un elemento esterno – sia esso un altro uomo, un’altra donna o un’entità soprannaturale – che partecipa al lento sprofondare degli amanti negli abissi della disperazione.
Dopo Francisca si dedicò nuovamente al documentario, per poi dare corpo al titanico progetto de La scarpina di raso (1985), un’opera della durata di sette ore tratta dall’omonimo testo teatrale di Paul Claudel, lo struggente racconto di un amore impossibile ai tempi del colonialismo. Nel ruolo del protagonista maschile, Luís Miguel Cintra. Il film non uscì nelle sale, ma fu proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove Manoel de Oliviera ricevette un Leone d’oro speciale. Il premio aprì la strada ad una lunghissima sequela di riconoscimenti internazionali; una consacrazione a cui il maestro di Porto reagì intensificando i propri ritmi di lavoro.
Fu così la volta del film sperimentale Il mio caso (1986) e de I cannibali (1988) – tratto da un racconto di Álvaro de Carvalhal e in linea con la tradizione satirica di Bunuel – che segnò l’esordio di Leonor Silveira. Le tappe più significative della storia del Portogallo vennero ripercorse in No, o la folle gloria del comando (1990), in una riflessione di più ampio respiro sul tempo, la memoria, la morte. Le più grandi opere letterarie della storia umana – dalla Bibbia a Dostoevskij, a Nietzsche – trovarono un’originale rappresentazione ne La divina commedia (1991); e gli ultimi momenti della vita del grande scrittore romantico Camilo Castelo Branco, il «Balzac portoghese» morto suicida nel 1890, furono raccontati ne Il giorno della disperazione (1992).
Michel Piccoli in Ritorno a casa (2001) di Manoel de Oliveira
Dopo aver rinunciato a un’ambiziosa trasposizione di Madame Bovary, giudicata troppo costosa dal produttore Paulo Branco, si avventurò in una profonda esplorazione dell’animo femminile in La valle del peccato (1993), tratto da un testo ispirato a Flaubert della grande scrittrice Augustina Bessa-Luís. Con La cassetta (1994) offrì poi un esempio di «teatro vitale» in cui alcune maschere senza nome – un oste, una prostituta, un cieco che chiede l’elemosina, sua figlia, suo genero – mettono in scena la vita quotidiana di un quartiere povero di Lisbona, in un apologo universale sugli anacronismi e le differenze sociali.
Venne infine il tempo delle collaborazioni con i grandi nomi del cinema europeo e mondiale, per quelli che sarebbero diventati i suoi titoli più noti. Da I misteri del convento (1995) con Catherine Deneuve e John Malkovich, a Party (1996) con Michel Piccoli, da Viaggio all’inizio del mondo (1997), l’ultimo film con Marcello Mastroianni, a Ritorno a casa (2001), ancora con Malkovich, Deneuve e un acclamatissimo Piccoli nel ruolo del protagonista. Fino ai più recenti Un film parlato (2003), Specchio magico (2005), Bella sempre (2006), che rivisita Bella di giorno di Bunuel con Bulle Ogier al posto di Catherine Deneuve, O Estranho Caso de Angelica (2010), con protagonisti il nipote Ricardo Trêpa e Pilar López de Ayala, e Gebo e l’ombra (2012) con Michael Lonsdale, Claudia Cardinale e Jeanne Moreau, presentato alla 69esima Mostra di Venezia.
Manoel de Oliveira a Porto nel marzo 2013
Raccontare il cinema di Manoel de Oliveira è estremamente difficile. E non solo perché la sua filmografia, così ricca di riferimenti letterari e filosofici, si snoda in un arco di tempo lungo ottant’anni. Ma anche perché ogni sua storia trasforma la razionalità in mistero, operando un’inscindibile fusione di fantastico e reale: «Il fantastico ci accompagna, è accanto a noi, sempre. Il fantastico è a fianco della realtà. Come spiegarlo? Il fantastico, è l’ombra del reale». Restano dunque tante domande, e un’insaziabile voglia di raccontare storie. Fermare in un fotogramma la vita che sfugge, preservare memoria di ciò che è stato, immortalare esperienze, emozioni; questo il significato più profondo del cinema di Oliveira: «Un film non è la realtà. Che cos’è un film? Un film è un fantasma, non è la vita. D’altra parte, la vita non esiste, è anch’essa un fantasma. Senza i libri, senza gli storici, senza la memoria non resterebbe alcuna traccia. L’istante è fugace. Per lottare contro l’oblio, l’uomo ha una specie di bisogno di rifare ciò che lo ha colpito, la volontà di conservare ciò che è degno di nota. Si può rappresentare ciò che è successo: è il teatro; si può rappresentare ciò che si è visto per strada, in un qualsiasi dramma. Ma queste rappresentazioni teatrali sono altrettanto fugaci, come la vita stessa: il cinema apporta un elemento molto importante, la fissazione. Il cinema fissa le cose».

Manuel Lambertini

giovedì 5 dicembre 2013

Nelson Mandela

La meditazione

Nelson Mandela (Mvezo, 18 luglio 1918 - Johannesburg, 5 dicembre 2013)

La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.

La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.

È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.

Ci domandiamo: “Chi sono io per essere brillante,
pieno di talento, favoloso?”

In realtà chi sei tu per NON esserlo?

Siamo figli di Dio.

Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.

Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicché gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.

Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.

Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.

Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.

E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.

E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.

                                                                               Nelson Mandela

venerdì 29 novembre 2013

Stavolta voto Civati

Avevo giurato a me stesso che quelle dell’anno scorso sarebbero state le mie ultime primarie del Pd. Mai avrei immaginato che quella che malgrado tutto ho continuato a considerare la mia parte potesse popolarsi di figuri irritanti e indisponenti quanto i membri della destra berlusconiana. E invece le facce di bronzo dei dirigenti storici e molte delle nuove leve renziane – riciclati e voltagabbana in testa – hanno fatto sì che questo accadesse più e più volte. Dopo la mancata elezione di Prodi al Quirinale, poi, quel proposito era diventato una decisione definitiva, una certezza incrollabile. Al punto che ero arrivato a riconoscermi in un post pro-Grillo largamente diffuso sui social network, a firma di Michele Darling: «L’elettore democratico vota il meno peggio. Ma giura, giura sempre: “È l’ultima volta!”. L’elettore democratico è sempre Nanni Moretti. Il Moretti di allora, così come il Moretti […] sul palco a Napoli accanto a Bersani. Perché l’elettore democratico, quand’è sul palco, tutto sommato è felice, si limita a dei buffetti sulla guancia: “Sono qui – ha detto il regista – perché nonostante lo spot elettorale ‘Smacchiamo il giaguaro’, voterò il Pd”. L’elettore democratico è l’elettore “nonostante”».
Nel sentirmi preso in mezzo, mi ero ripromesso di non cascarci più. L’unico motivo che avrei considerato valido per mettere una croce sul simbolo del Pd, dicevo, sarebbe stata la certezza di poterne decretare l’esplosione finale. Insomma, l’epilogo degno di un partito nel quale un terzo dei rappresentanti parlamentari era stato capace di pugnalare alle spalle il proprio padre fondatore nel nome di miserabili interessi correntizi. E invece andrò a votare, alle primarie dell’8 dicembre. Anche stavolta. E voterò Giuseppe Civati.
Parte svantaggiato, Civati. Non ha alle spalle il favore dei media e dei poteri forti, di cui Renzi gode da oltre due anni. È anche inviso all’establishment del Pd di provenienza diessina, che ha ancora una certa influenza sui militanti e che è mobilitato a sostegno di Cuperlo. A differenza dell’uno e dell’altro, Civati non sembra coltivare un disegno egemonico sul partito: chiede più democrazia interna, più apertura, più possibilità di partecipazione per gli iscritti e i militanti.
Nel suo programma si possono leggere proposte come la riduzione dei componenti dell’Assemblea Nazionale e della Direzione; un bilancio completo, aperto, comprensibile, partecipato, che superi le opacità legate alla struttura federale del partito e alle fondazioni che lo sorreggono; l’adozione di meccanismi che favoriscano capillarmente la partecipazione e le occasioni di deliberazione collettiva (referendum interni e assemblee di discussione); la promozione di forme di autofinanziamento “a progetto”, in favore delle realtà periferiche.
E ho citato solo alcune delle proposte riguardanti la sua idea di partito. Perché l’8 dicembre si eleggerà il segretario del Pd, non il candidato premier del centro-sinistra. Non sono sicuro che i cittadini che si receranno alle primarie abbiano chiaro il concetto, e ho come l’impressione che il vantaggio di Renzi sia legato anche a questo equivoco… L’elezione di Renzi alla segreteria del partito comporterebbe una mutazione antropologica del Pd verso destra, come fu per il Psi di Craxi: una banda di yuppies folgorati sulla via dell’edonismo reaganiano che trovò poi la propria collocazione naturale tra le fila berlusconiane. Però non mi si dica che a non votare Cuperlo si spiana la strada al sindaco di Firenze. Pretendere che anche stavolta possa dare ascolto a questa voce sarebbe troppo. È arrivato il momento di rischiare, punto e basta. Ne riparleremo al secondo turno, se ci sarà.
Anche perché a differenza di Cuperlo, Pippo Civati parla chiaro. E ha un’abitudine sconveniente: prende posizione prima che le decisioni vengano assunte. Prima che i giochi si chiudano. Mai è capitato di sentirlo lamentare le conseguenze di un dibattito a cui si fosse guardato dal prendere parte, per meglio trarre vantaggio dai fallimenti altrui. Per la Presidenza della Repubblica aveva votato Rodotà con il Movimento 5 Stelle, esponendosi poi a favore di Prodi. Si era detto contrario alle larghe intese prima che venissero stipulate, non dopo. E senza dilettarsi in stucchevoli esercizi ricattatori. Aveva chiesto le dimissioni della Cancellieri prima del voto parlamentare, e non – come ha fatto furbescamente Renzi – a giochi ormai conclusi. Un partito guidato da lui potrebbe quantomento gettare le basi di un’intesa con la società civile fondata sulla lealtà e su un confronto finalmente aperto.
Ma il sindaco Renzi viene presentato in ogni servizio giornalistico come «il favorito». Scalfari lo ha recentemente definito «un grande venditore di se stesso», «un avventuriero» di talento. Un formidabile free-rider politico, dovremmo aggiungere, funambolico, capace come nessun altro di sfruttare le opportunità del momento e di pescare voti a destra a colpi di battute e di argomenti vuoti. Non risponde alle domande che gli vengono fatte, ma a quelle che vorrebbe sentirsi fare.
Che la politica si faccia anche così è convinzione ormai diffusa. E forse possiamo solo attaccarci alla speranza che Renzi voglia dirottare verso una politica di centro-sinistra i voti raccolti a destra. Ovvero la speranza che stia prendendo per i fondelli un corpo elettorale abituato a premiare i grandi illusionisti. Ma veniamo da un ventennio in cui la politica è stata fatta solo così, e in Renzi non è dato vedere proprio nessun cambiamento. Ancor più inquietanti appaiono poi le sue vaghe proposte politiche, tutte orientate allo smantellamento del welfare, alla flessibilità selvaggia del lavoro, all’umiliazione delle organizzazioni sindacali e dei piccoli pensionati. Altro elemento di continuità con un passato che si vorrebbe avviare alla rottamazione.
Insomma, chi potrebbe ricordare Matteo Renzi se non il Berlusconi del ‘94? Forse a questa domanda retorica c’è una risposta. Però dobbiamo allargare lo sguardo all’Europa, oltremanica. Il nostro uomo è Tony Blair. The Boy. Il leader del New Labour, l’ex premier britannico alfiere della Terza Via. E questo ci consente di chiudere con una nota di colore. Perché è fresca di stampa la notizia che Rupert Murdoch abbia divorziato dalla moglie Wendi Deng a causa di una love story che lei avrebbe intrattenuto proprio con Blair. Inutile dire che l’irresistibile ascesa del giovane Tony dovette molto alla sua amicizia con Murdoch, e al sostegno espressogli dai tabloid di Murdoch durante tutte le tre campagne elettorali che lo videro vincitore. Il marketing, si sa, è importante. A ciascuno il suo tycoon. Il guru di Blair era Murdoch, lo Squalo”; quello di Renzi si chiama Giorgio Gori: già dirigente Fininvest, ex direttore di Canale 5, fondatore della Casa di Produzione Televisiva Magnolia – quella del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi, per intenderci – e attuale marito di Cristina Parodi. Arriviamo sempre con vent’anni di ritardo, noi italiani. E siamo sempre più sfigati degli altri.

Manuel Lambertini

giovedì 7 novembre 2013

Il secolo di Camus

Albert Camus
(Mondovi, 7 novembre 1913 - Villeblevin, 4 gennaio 1960)
«Io non sono un filosofo. Non credo abbastanza alla ragione per credere a un sistema. Quello che mi interessa è sapere come bisogna comportarsi. E più precisamente come ci si può comportare quando non si crede in Dio o nella ragione».

Forse, a cento anni dalla nascita, lo scrittore – e filosofo – Albert Camus non avrebbe potuto ricevere omaggio migliore della biografia dedicatagli da Michel Onfray, L’ordine libertario (Ponte alle Grazie, 2013). Un’opera che nel ripercorrere la «vita filosofica» di Camus rimarca l’importanza centrale delle sue umili origini e delle sue vicende umane.
Nato nel 1913 a Mondovi, in Algeria, in una famiglia povera, perse il padre all’età di un anno e si trasferì ad Algeri con la madre, il fratello maggiore e la nonna materna. Minato fin da giovanissimo da una forma acuta di tubercolosi, si laureò in filosofia nel 1936 con una tesi su Plotino e Agostino, affiancando allo studio un’intensa attività politica e pubblicistica. Alcuni dei saggi scritti in quel periodo furono raccolti nel volume Il rovescio e il diritto (1937). Dopo aver aderito al movimento antifascista Amsterdam-Pleyel nel ’33 e al partito comunista nel ’34, fu licenziato dalla redazione di Soir-Républicain nel 1940 sotto le pressioni del governo coloniale. Si trasferì a Parigi pochi mesi più tardi. Nei drammatici anni dell’occupazione nazista, durante i quali non fece mancare il proprio sostegno alla resistenza, e nell’immediato dopoguerra, furono concepite molte delle sue opere più note: Lo straniero (1942), Il mito di Sisifo (1942), Caligola (1944), La peste (1947) e Lo stato d’assedio (1948).
Alla fine degli anni ‘40 Camus era ormai parte del circolo di intellettuali parigini legati all’editore Gallimard, con Jean-Paul Sartre, André Breton, André Malraux e molti altri. Ma le sue forti tendenze libertarie, talvolta in netto dissenso con l’ortodossia marxista-leninsta, unite ad una condanna senza appello del totalitarismo stalinista, portarono al suo definitivo isolamento dopo la pubblicazione de L’uomo in rivolta (1951), oggetto di una dura polemica con Sartre.
Jean-Paul Sartre e Albert Camus (1944)
Nelle parole di Michel Onfray, intervistato da Magazine Littéraire nel 2012, Camus è «il libertario per eccellenza, altrimenti detto: l’uomo libero», ben lontano dagli «anarchici guardiani del tempio» che «hanno sempre bisogno di compulsare Bakunin o Kropotkin per sapere cosa devono pensare». A renderlo unico, secondo Onfray, è proprio la sua formazione da autodidatta, nonché il fatto di essere «un uomo che non dipende dalla tribù, che non si costruisce guardandosi nello specchio della storia»: «Camus, figlio di poveri, fedele al suo ambiente d’origine, non intercala mai la sua biblioteca tra il mondo e se stesso, al contrario della gran parte degli intellettuali e dei filosofi che vanno per la maggiore. Se deve ragionare sulla miseria, non si chiede cosa ne dicessero Marx ed Engles, perché lui l’ha vista a casa sua, in una famiglia senza padre e con una madre disabile. Non commenterà un commentario, ma dirà cosa ha visto: quale metodo migliore per un filosofo?».
L’ingombrante reputazione con cui Camus è arrivato fino a noi è però quella di «filosofo dell’assurdo», che finisce per inserirlo a forza nel clima storico e culturale dell’esistenzialismo. Un tema, l’assurdità della condizione umana, che Camus delineò nelle pagine de Lo straniero ben prima di dedicarvi un’esplicita trattazione teorica.
Lo straniero (1942)
Meursault, il protagonista del romanzo, è un normale impiegato franco-algerino che trascorre le sue giornate nella più totale indifferenza. È straniero all’amore, alla paura della morte, all’amicizia, alla religione, e a tutte le passioni che riempiono l’esistenza degli altri esseri umani. Seppellisce senza una lacrima la madre appena morta in un ospizio. Il giorno dopo decide di andare al mare, incontra un’ex collega di ufficio, Maria, e con lei inizia una relazione. Finché, su una spiaggia assolata, dopo una lite nella quale non era direttamente coinvolto e che sembrava essersi risolta, uccide un arabo con quattro colpi di pistola. Senza un reale motivo. E senza cercare giustificazioni alla sua condotta neanche in sede processuale, affrontando un’evitabilissima condanna a morte con la stessa impassibilità. Nelle sagge parole del pubblico ministero che chiede la sua testa, «il vuoto dell’animo quale si ritrova in quest’uomo diventa un abisso dove la società può perire». Meursault non si conforma a nessuno dei dettami della società che non sia in linea con la propria natura. Ma la sua insensibilità, che pareva mostruosa, diventa profondamente umana nel momento in cui egli rifiuta convenzioni sociali che gli sembrano false, forzose, infelici, innaturali. Ed in attesa dell’esecuzione, grida al prete che gli fa visita in cella tutto ciò che ha imparato dalla sua breve vita, la vanità dell’esistenza e l’inevitabile trionfo della morte, su ogni uomo e su tutte le fedi; una verità crudele, che però non intende rinnegare: «Era come se avessi atteso sempre quel minuto… e quell’alba in cui sarei stato giustiziato. Nulla, nulla aveva importanza e sapevo bene il perché. […] Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuta, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute e quel soffio uguagliava, al suo passaggio, ogni cosa che mi fosse stata proposta allora nelle annate non meno irreali che stavo vivendo. Cosa mi importavano la morte degli altri, l’amore di una madre, cosa mi importavano […] Dio, le vite che ognuno si sceglie, i destini che un uomo si elegge, quando un solo destino doveva eleggere me e con me miliardi di privilegiati che […] si dicevano miei fratelli?».
Nel protagonista de Lo straniero non si scorgono solo i disperati abissi del nichilismo senza uscita, ma anche le premesse creatrici de L’uomo in rivolta. «È una verità ancora negativa,» quella di Meursault, scrisse lo stesso Camus, «senza la quale però nessuna conquista di sé e del mondo sarà mai possibile». Per dirla con Nicola Chiaromonte: «Il sentimento della natura e della felicità naturale da una parte; quello della mortalità dell’uomo dall’altra. Questa dualità è un […] aspetto fondamentale di ciò che egli chiama assurdo. L’assurdo, in Camus, non è un concetto, ma uno stato d’animo: lo stato d’animo di un uomo che, sapendosi mortale, non può accettare, del mondo, che ciò che s’accorda con questo sentimento, ossia in sostanza il rispetto incondizionato della vita in quanto ricerca della sola felicità possibile: la felicità naturale».
"La libertà non è che una possibilità di essere migliori"
Albert Camus, Resistenza, Ribellione e Morte (1961)
A metà strada tra l’apatia di Meursault e l’uomo in rivolta c’è il mito di Sisifo. L’eroe che dopo aver sfidato gli dèi viene condannato per l’eternità a spingere un masso su una montagna, per vederlo ricadere ogni volta che raggiunge la cima, è eletto a simbolo dell’assurdità dell’esistenza umana. Una esistenza che vede confrontarsi l'indifferenza e l'opaca irragionevolezza dell’universo con «il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo». E l’uomo deve rendersi protagonista di una vera «rivolta metafisica», un movimento individuale che lo veda ribellarsi «contro la propria condizione e contro l’intera creazione», per rivendicare il diritto ad «un’unità felice» che fronteggi «la sofferenza del vivere e del morire». Egli deve affermare che «noi siamo davanti alla storia e la storia deve fare i conti con questo noi siamo che a sua volta deve mantenersi nella storia». Il noi siamo si concretizza nel valore della dignità umana «che non posso lasciare avvilire in me stesso e neppure negli altri»; un valore supremo, che nessun potere ha il diritto di calpestare; la cui violazione non può essere giustificata da alcun ideale o fine superiore; e che rifiuta qualsiasi forma di assolutismo.
È dunque nell’affermazione della propria libertà e nella gioiosa lotta contro una condizione assurda che l’essere umano può aspirare alla felicità: «Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».

Manuel Lambertini

giovedì 31 ottobre 2013

Quando Fellini spense la Luna


In morte di Federico Fellini
Federico Fellini
(Rimini, 20 gennaio 1920 - Roma, 31 ottobre 1993)

Quando muore Fellini il grido è forte,
Spacca la terra che improvvisa piange,
Lacrime dal Marecchia fino al Gange
Alluvionano il mondo alla sua morte.

Quel giorno dimmi chi non lacrimava?
Nemmeno la persona, la più frigida,
Pianse Rondi co’ Akira Kurosawa,
Pianse la Loren con la Lollobrigida.

Pianse Anita e Marcello, pianse il Sole,
Pianse Mollica lacrime a bizzeffe,
Pianse anche i verbi e tutte le parole
Che, quel giorno, cominciavano per effe.

Quando muore il maestro d’Amarcorde,
Anche i poeti abbassano le teste,
Era più bello lui d’Harrison Forde,
Era più sexy lui di Mae Weste.

Era leggero come Cavalcanti,
Saggio come i filosofi tedeshi,
Umano come sanno esserlo i santi,
Profondo come Fjodor Dostoesky.

Elegante, narciso, mai avaro,
Lui era insieme Topolino e Pippo.
Lugubre come Antonio Fogazzaro,
Federico Fellini e Roberto Benigni
sul set de La voce della Luna (1990)
Buffo come Peppino De Filippo.

Quando dava l’azione con un rombo,
Il set si illuminava d’alabastro,
Era come Cristoforo Colombo,
Un condottiero come Fidel Castro.

Lo studiavano le psicanaliste
Ma a lui nessuno mai tolse le brache.
Fellini aveva più forza di Maciste
E più immaginazione di Mandrake.

Dolce come Verlaine, come Beatrice,
e maledetto come James Dean.
Casto della purezza di Euridice,
E intelligente come RinTinTin.

M’han detto ch’era morto, ebbi uno shocke,
come se fosser morte le albicocche!
Fellini, m’hai avviluppato con le tue passioni
E per saluto estremo ti dirò,
Citando un bel refrain di Little Tony,
Che t’amo, t’amo, t’amo e t’amerò!

                                                    Roberto Benigni

Accadeva vent’anni fa, il 31 ottobre 1993. Il giorno prima ricorrevano i cinquant’anni di matrimonio con l’attrice Giulietta Masina, che sarebbe scomparsa nel marzo dell’anno successivo.  Alle esequie di entrambi il trombettista Mauro Maur eseguì le musiche di Nino Rota, l’Improvviso dell’Angelo e La Strada.
E ai versi di Benigni fecero eco le parole dell’amico e concittadino Sergio Zavoli, che da allora non avrebbe più smesso di onorare la memoria del maestro: «La scomparsa di Fellini ha qualcosa di innaturale, come se un’estate, di colpo, smettessero di farsi udire i grilli, il mare, gli uccelli. Come se le lucciole smettessero di palpitare nel grano. […] Continueremo ad aspettare che dall’orizzonte vengano i tuoi sortilegi: donne come capodogli, padri come fantasmi, navi come castelli, e poi fughe di Bach e marcette di clown, innocenze e ludibri, cielo imbronciato e azzurre nevicate primaverili».

Manuel Lambertini


domenica 27 ottobre 2013

Il Paese del «Gattopardo»

Ricorrono i cinquant'anni da quando il romanzo italiano più venduto del XX secolo, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo da Feltrinelli nel 1958, venne elevato a capolavoro cinematografico da Luchino Visconti. Nei prossimi giorni la pellicola sarà proiettata in oltre settanta sale italiane, in una versione restaurata dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con The Film Foundation di Martin Scorsese. E nel marzo 2014 l’Accademia delle arti e della scienza del cinema di Los Angeles assegnerà l’Oscar alla carriera al costumista Piero Tosi, a coronamento di un’avventura umana e professionale che ha pochi confronti nel panorama mondiale.
La storia di Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, Duca di Querceta, Marchese di Donnafugata, continua a incantare il pubblico e a sollevare annosi interrogativi sull’ineluttabile ciclicità della storia. Con la sconfitta dell’aristocrazia terriera siciliana, costretta ad accettare l’annessione al Regno d’Italia e la compenetrazione di elementi borghesi nelle sue stesse strutture familiari – tramite il matrimonio del giovane Tancredi con Angelica, la figlia del facoltoso sindaco di Donnafugata – si assiste al perpetuarsi degli antichi rapporti di potere e di prevaricazione. Una trasformazione a cui Don Fabrizio rifiuta di prendere parte, terminando i suoi giorni in un volontario, avvilente isolamento.
L’opera di Tomasi di Lampedusa non è però sopravvissuta al suo autore in una forma del tutto compiuta. In coda al romanzo, un capitolo mai terminato avrebbe dovuto contenere 17 sonetti nei quali sarebbe stato svelato l’amore di Don Fabrizio per la bellissima Angelica. Quello che segue è il più eloquente dei sonetti ritrovati.


Quando in un vecchio cuore Amor discende
lento procede e fra l’ingombro triste
di sepolte speranze a pianto miste
deve aprirsi la strada; e mummie orrende

di vizzi affetti sbarran le sue piste.
S’insedia alfine, strappa le sue bende:
negli occhi ha sol una beffa ch’offende
non più, com’ebbe, voluttà intraviste.

Tiranno in gioventù, boia in vecchiezza
non più di vita messo ma di morte,
suscita pene, orror, vergogna, liti.

Io soffro, piango, impreco e lui disprezza;
mi strazia con torture e con ritorte,
fiero mi seguirà sui neri liti.



Manuel Lambertini

domenica 29 settembre 2013

«Come una lepre affamata». I settant’anni di Lech Wałęsa


Lech Walesa (Popowo, 29 settembre 1943)
«Sono soltanto un uomo, un uomo che vuole un po’ di giustizia, un tipo che vuole rendersi utile […] al di là delle frontiere, dei colori, delle ideologie. La lepre affamata non ha frontiere, non segue ideologie. Va dove trova il mangiare di cui ha bisogno e le altre lepri non le sbarrano il passo coi carri armati. Bisognerebbe imparare dalle lepri».
Era il 1981 quando Oriana Fallaci intervistava Lech Wałęsa. Al bavero della giacca teneva già appuntata la Madonna Nera di Częstochowa, che lo accompagna ancora oggi. Il sindacato cattolico Solidarność, fondato da Wałęsa e riconosciuto dal regime comunista polacco con gli Accordi di Danzica del settembre 1980, aveva organizzato una catena di scioperi che esponeva la Polonia al rischio di un intervento sovietico.
«Non le capita mai di essere spaventato, di sentirsi inadeguato?» gli chiese la Fallaci.
«Niè, niè, niè! Perché sono un uomo di fede e perché so che in questo momento c’è bisogno di me. Un tipo come me che sa prendere le decisioni con giudizio, risolvere i problemi in modo prudente. Non sono una testa calda, io» fu la risposta.
Ora quell’intervista è anche il filo conduttore di un film, Wałęsa. Man of Hope, del regista premio Oscar Andrzej Wajda, presentato alla 70esima Mostra del Cinema di Venezia alla presenza dell’ex presidente polacco. «Oggi in Polonia le nuove generazioni non lo conoscono», ha detto Wajda ai giornalisti. «Il film è soprattutto per loro, perché capiscano il valore della partecipazione attiva alla vita politica. E vorrei che Lech fosse un esempio, e una speranza, per tutti i movimenti dei giovani che in questi anni lottano per la libertà nei loro paesi». 
Oriana Fallaci e Lech Walesa, Danzica, 1981
La pellicola sfoglia ad un ritmo incalzante tutte le pagine della prima vita di Lech Wałęsa, mentre immagini di repertorio scorrono sulla note di un emblematico ritornello: «la libertà la amo e la capisco / la libertà non la so lasciare andare»... Classe 1943, famiglia contadina – suo padre morì ad Auschwitz quando lui aveva solo pochi mesi – e incrollabile fede cattolica, Lech Wałęsa era un semplice elettricista del cantiere navale Lenin di Danzica. Sposato con Danuta Gołoś dal 1968, la sua partecipazione agli scioperi del 1970 gli procurò un arresto a pochi giorni dalla nascita del primo dei loro otto figli. Perse il lavoro nel ’76, ma continuò ad animare i Sindacati liberi di Pomerania, considerati illegali dalle autorità, e fu più volte arrestato. Nell’agosto 1980 si mise alla testa dell’occupazione dei cantieri navali di Danzica e dello sciopero generale che alla fine dell’estate paralizzò la Polonia. Una lunga trattativa col governo sancì il riconoscimento dei Comitati di sciopero interaziendale, che confluirono in un sindacato cattolico di massa: Solidarność. Nel dicembre 1981, per scongiurare un possibile intervento militare sovietico, il governo del generale Jaruzelski proclamò la legge marziale: Wałęsa venne tenuto prigioniero per quasi un anno nella Polonia sud-orientale, al confine con l’Urss. Rilasciato nel novembre 1982, grazie anche alle pressioni di Papa Giovanni Paolo II, tornò in Polonia come «lavoratore semplice». Nel 1983 fu insignito del Premio Nobel per la Pace.
«Perché tutti questi intellettuali come consiglieri?», fu un’altra domanda della Fallaci.
«Eh! Perché se li tenessi fuori si metterebbero a scavar sottoterra come le talpe, e arriverebbero qui lo stesso. E allora io li faccio entrare subito. L’importante è non averne soggezione. Ed io non ce l’ho. Perché gli intellettuali discutono cinque ore e arrivano alla stessa conclusione a cui io ero arrivato in cinque secondi».
Un risvolto, questo, al quale il regista del film è parso molto legato: «Lech è il primo operaio che nella storia del nostro Paese abbia svolto un ruolo fondamentale: normalmente a spingere verso la democrazia sono gli intellettuali e l’aristocrazia. Ma finché hanno agito loro, ogni tentativo di liberare la Polonia dal giogo della schiavitù è finito con un insuccesso. E invece Lech Wałęsa ci ha portati alla liberazione senza spargimenti di sangue». 
Lido di Venezia, 6 settembre 2013
Al grande film di Wajda, peraltro non imputabile di agiografia acritica, manca però l'ultimo Wałęsa. Il negoziatore degli Accordi della Tavola Rotonda (1989), che segnarono l'inizio della liberalizzazione del sistema politico polacco. Il presidente della Polonia postcomunista che, eletto nel 1990, tentò invano di riformare la Costituzione in senso semipresidenziale e che fu marginalizzato dalla vita politica dopo una guerra ai vertici dello stato consumatasi a colpi di dossier e di veleni. Ed infine l'uomo che negli ultimi anni si è perlopiù distinto per posizioni bizzarre e ultraconservatrici; che alle elezioni presidenziali americane del 2012 ha sostenuto il candidato repubblicano Mitt Romney; che ha esternato il desiderio di veder relegati i deputati omosessuali al Parlamento polacco nell'ultima fila di scranni, «vicino al muro, oppure dietro». È figlio di un'altra epoca il Lech Wałęsa che oggi compie settant'anni. E ricorda al mondo intero che non esiste essere umano a cui la Provvidenza lasci impresso il proprio sigillo per sempre.

Manuel Lambertini

venerdì 20 settembre 2013

Aspettando Tony Harrison

Alla morte di Ted Hughes, nell’ottobre 1998, la Corona britannica perse il poeta laureato in carica, la figura tradizionalmente investita del compito di tessere le lodi della famiglia reale e dell'Impero. Come suo successore, dalle pagine del Guardian venne avanzata la candidatura di Tony Harrison, poeta libertario, operaista e antimonarchico, nato nel 1937 in una modesta famiglia di Leeds, celebre per uno stile dissacrante e maccheronico. Il diretto interessato reagì alla sua maniera. In versi. Compose un poemetto di venticinque quartine a rima alternata molto simile alla sceneggiatura di un film, L’in-ceppo del laureato (1999), a perpetua memoria di una fiera irriverenza. Vi compaiono l’illustre predecessore Thomas Grey, che nel 1757 rifiutava l’umiliazione di diventare «accalappiatopi per Sua Maestà»; sua moglie, attrice impegnata a vestire panni di Elisabetta nel Riccardo III di Shakespeare; la sovrana attuale e il principe Carlo; e anche il «tirapiedi» Andrew Motion, che sarà poi chiamato a ricoprire il prestigioso incarico di Poet Laureate per i dieci anni successivi. Il finale del poema è un inno alla libertà venato di un’ironia amara e leggera.

Tony Harrison (Leeds, 30 aprile 1937)
L’in-ceppo del laureato

                                          Alla regina Elisabetta

Mi costerna vedere il mio nome sui giornali
fra i candidati per un lavoro che non cerco.
I cigni possono essere domestici, muti o mansueti
ma nessun custode di cigni mi segnerà il becco.

Mi irrita specialmente che la cosa succeda
sul Guardian dove pubblicai
la mia Ode per l’abdicazione di Carlo III auspicando
che l’Inghilterra sia finalmente repubblica. 

Ho scritto quanto sopra iersera, ma quanto segue
l’ho scritto il brutto giorno che Ted Hughes morì
e per togliermi di lista faxerò il testo
al Guardian che lo metterà spero in bella vista:

Certo ispirato dal Tg delle tredici
il libraio antiquario, ignorando i miei librini,
sposta tutti i suoi Ted Hughes di seconda mano
Ted Hughes, Crow, 1970.
dallo scaffale «Poesia» alla vetrina.

La morte di un poeta fa paura agli altri poeti,
dà il timor mortis di Dunbar, e il terrore
di passare ai remainders senza essere letti,
ma almeno Crow è qui composto con ogni onore,

la copertina in vista, non solo il dorso.
Almeno i tuoi libri li mettono in mostra.
Dubito che faranno lo stesso per i miei,
mentre compro quattro tomi di un vecchio Thomas Gray.

Ted Hughes
(Mytholmroyd, 17 agosto1930 - Londra, 28ottobre 1998)
Ho appreso qui a Stratford che Ted è morto,
e ho desiderato il mio amore, incastrata sulla scena
a far la parte della regina Elisabetta nel Riccardo III,
per non rattristarmi pensando che ho quasi l’età di Ted.

Mentre lei passava in rassegna gli orrori più sanguinari,
infanticidi, stupri, ambizioni di troni,
ho passeggiato un po’ sulle rive dell’Avon.
Il sacchetto di plastica con Gray mi pesava in mano.

Le zampe dei cigni pestavano il fango dell’alzaia.
Non si arrischiavano sull’Avon per paura
del fiume in piena, si spaccherebbero il collo
scaraventati dalla corrente nella chiusa.

Mentre il mio amore dava due recite del Riccardo III
mi sono coricato e ho letto dall’inizio alla fine
tutti e quattro i tomi di Gray, trovando le parole
le qualità saponacee del vin secco

in una lettera che val la pena di conoscere
specie per i giornalisti poco pratici di versi
che si chiedono quale poeta dopo Hughes
avrà il posto che Gray non crederebbe possa ancora esserci.

Potrei, data la pratica, parafrasare
nelle quartine abab della sua Elegia,
queste osservazioni di Thomas Gray
ma le cito in prosa, testuali.

Per quanto io sappia bene le blande emollienti saponacee qualità del vin secco e dei quattrini, tuttavia se un grand’uomo mi dicesse «Ti farò accalappiatopi per Sua Maestà, con un salario di trecento sterline l’anno e due botti del miglior Malaga, e per quanto sia costume, in ossequio alla tradizione, accalappiare uno o due topi in pubblico ogni anno, tuttavia nel vostro caso signore non faremo storie per questo», non credo che mi getterei sulla cosa.; e persino se lasciassero cadere il nome stesso dell’incarico, e mi chiamassero Sinecura di sua Maestà, credo mi sentirei ancora un po’ impacciato, e penserei che tutti quelli che incontro sentono su di me l’odore di ossa di topo…
Fino ad oggi l’incarico ha sempre umiliato chi lo ha accettato (anche in un’età quando un re era qualcuno), se era uno scrittore mediocre rendendolo più cospicuo, e se era bravo mettendolo in guerra con i pesciolini della sua professione, perché ci sono poeti abbastanza piccoli da invidiare persino un poeta laureato.
(19 dicembre 1757)

Così diceva Gray, due e più secoli or sono,
con pensieri che trovo molto simili ai miei
e chiunque conosce le mie opere saprebbe
quali parole di Gray io sottolineerei.

E il nuovo accalappiatopi per la regina attuale,
che a palazzo deve aver molti topi svelti e grassi,
anche se si lava e deodora dopo ogni battuta
Ritratto di Thomas Gray
porta un’uniforme di prezzolato che puzza di ratto.

Non deve esserci successore di Ted Hughes.
«Le qualità saponacee del vin secco»
sono puro veleno se i poeti stipendiati perdono
la libertà perché prezzolati dalla Corona o dal Capo di Gabinetto.

Né Carlo deve succedere alla regina presente
così risparmiandoci l’ode d’incoronazione di un adulatore.
Vorrei che tutte le odi di questo tipo che si son mai scritte
fossero mandate al macero da una democratica nazione.

Ci sono poeti monarchici che ci proveranno?
Forse avranno in cambio del loro fegato una giarrettiera.
Non mi sentirete sospirare di invidia.
Piuttosto essere libero e niente damigiane,

libero di non dover gonfiare il matrimonio di un principe,
libero di mandare a quel posto Tony Blair,
di scrivere un’ode sulla decapitazione di Carlo I
e deprecare la restaurazione del suo erede

(la settimana scorsa speravo che gli aspiranti laureati
quel gregge di tirapiedi bravi a promuovere se stessi
affilassero i loro talenti sull’ascia del boia
ma sembra esserci l’epidemia dell’in-ceppo del laureato:

è vero che il 30 gennaio 1649
è una data difficile da usare per candidarsi,
comunque l’anniversario del regicidio è passato senza un verso
da tirapiedi come Andrew Motion, che divinizzò Lady D),
Andrew Motion (Londra, 26 ottobre 1952)

libero di scrivere ciò che penso deve essere scritto
libero di coprire di disprezzo Downing Street,
libero di attaccare la Gran Bretagna di Blair
(e di allitterare scompostamente come qui!),

libero di scrivere esattamente come voglio
e ascoltare i fantasmi di Milton e Thomas Gray.
Non rimpiangiamo per le poesie da laureato
Ted Hughes o altri che ebbero quel posto in passato.

E libero, una volta che Riccardo è caduto e Richmond salito
sul trono malconcio con in capo una corona ammaccata
e intorno vedove pallide e distrutte dal dolore,
quando la mia regina si è tolta il cerone e viene a letto,

di baciare la mia dedica, calda di scene
di furia regale, rabbia, lotte…, baciarne via
(come baciamo gli uguali e non le regine)
il gusto amaro del dramma sanguinario di Shakespeare.

La morte di un poeta fa paura agli altri poeti,
la morte di un re ai re, ma sotto le mie lenzuola,
c’è la regina Elisabetta, e giù dal letto
tombolano queste quartine e i quattro tomi di Gray.

   Tony Harrison

               [1999]


Tony Harrison è l’ospite d'onore del Poesia Festival 2013, dal 19 al 22 settembre, organizzato dall’Unione Terre di Castelli e dai Comuni di Castelfranco Emilia, Maranello e Vignola.

Manuel Lambertini

domenica 18 agosto 2013

L'uomo nell'ombra





«Senza dubbio in Polanski si avverte un fascino per l’oscurità del mondo, si percepisce una ricerca in questo senso. Anche la sua vita testimonia questo fascino e questa ricerca».

Krzysztof Zanussi





«Ogni volta che sono felice ho un terribile presentimento». Ci sono tutti gli ottant'anni di Roman Polanski in questa battuta tagliente e amara, suggello solo apparente di una definitiva pacificazione interiore. Ottant'anni di trionfi e di miserie, di fughe e di ritorni. Una vita spesa a regalare film indimenticabili e a superare immense tragedie.
Al secolo Rajmund Roman Thierry Liebling, nacque a Parigi nel 1933 da una famiglia ebraica. Nel 1936 si trasferì in Polonia con i genitori, preoccupati per il crescente antisemitismo della Francia di quegli anni. Trascorse l’infanzia nel ghetto di Cracovia, e sfuggì ai rastrellamenti nazisti. Il padre sopravvisse al campo di concentramento di Mauthausen, la madre morì ad Auschwitz: ancora oggi Roman si commuove parlando di lei a Laurent Bouzerau, autore del documentario Roman Polanski: A Film Memoir.
Mosse i primi passi nel mondo del cinema grazie ad Andrzej Wajda, per il quale recitò in film come Generazione, Lotna, Ingenui perversi e Samson. Nel 1959 si diplomò alla Scuola Nazionale di Cinema di Lodz e convolò a nozze con l’attrice Barbara Lass: un «incosciente matrimonio giovanile» che finì nel 1962. Nello stesso anno, dopo alcuni apprezzati cortometraggi, realizzò Il coltello nell’acqua, un lungometraggio scritto a quattro mani con Jerzy Skolimowsky che gli valse un’immediata notorietà internazionale e la nomination all’Oscar per il miglior film straniero.
Lasciò la Polonia per la Francia, per trasferirsi poi in Ighilterra. Qui la sua carriera proseguì con Repulsion (1965), in cui diresse una giovanissima Catherine Deneuve, Cul-de-sac (1966) e Per favore non mordermi sul collo (1967): quest’ultimo ebbe come protagonista femminile la bellissima attrice americana Sharon Tate, che un anno dopo sarebbe diventata la sua seconda moglie.
Del 1968 è l’acclamatissimo Rosemary’s Baby, ancora oggi una pietra miliare dell’horror, che addensò su di sé una nube di inquietanti presagi: il Dakota, il condomio di Central Park dove fu ambientata la vicenda, è lo stesso al cui ingresso sarebbe stato ucciso John Lennon nel 1980; e alcuni spettatori giurarono di aver visto nella scena finale l’immagine del diavolo, benché il regista abbia sempre negato di averla girata.
Ma ogni leggenda metropolitana impallidisce se confrontata con ciò che avvenne l’anno successivo nella sua villa di Bel Air, e in sua assenza, quando la setta satanica di Charles Manson torturò e uccise la moglie Sharon Tate, all’ottavo mese di gravidanza, e gli amici che erano con lei. Una notte di crudeltà aveva posto fine al periodo più felice della sua vita. «Per la prima volta nella mia vita», aveva detto ad un giornalista poco tempo prima, «sento i giovani parlare d’amore e di pace e credo che siano realmente convinti di poter mettere in pratica le loro idee». E a Sharon, anche negli anni successivi, non smetterà mai di rivolgere parole d’amore: «Era la dolcezza in persona, con tutti e con tutto – persone, animali, ogni cosa. Non è facile descrivere il suo carattere. Era assolutamente buona, l’essere umano più dolce che abbia mai incontrato, con una pazienza estrema. Vivere con me era una prova della sua pazienza, perché starmi vicino deve essere un incubo».
Dopo mesi di solitudine poté risollevarsi dal trauma solo realizzando l’adattamento di una tragedia shakespeariana, il Macbeth (1971). Fu poi la volta di Che? (1972), girato nella villa di Carlo Ponti ad Amalfi, e del ben più celebre Chinatown (1974), che ebbe undici nomination agli Oscar. Con L’inquilino del terzo piano (1976), del quale è anche attore protagonista, terminò poi la “trilogia dell’appartamento” iniziata con Repulsion e Rosemary’s Baby.
Nel 1977, un altro drammatico evento, dagli strascichi più che trentennali. Un rapporto sessuale con una ragazzina di quasi quattordici anni, Samantha Geimer, con cui stava realizzando un servizio fotografico per Vogue, gli costò il carcere e un’accusa di violenza sessuale, poi ridotta a «relazione extraconiugale con persona minorenne». Scontò 42 giorni di detenzione nel carcere di massima sicurezza di Chino; ma quando il giudice Rittenband ritirò la sentenza con cui gli aveva concesso il pagamento di un’ammenda e gli arresti domiciliari, riparò a Londra, per poi stabilirsi a Parigi. Ma il fantasma di quella brutta storia sarebbe improvvisamente ricomparso nel settembre 2009, quando Polanski fu arrestato in Svizzera a seguito di una domanda di estradizione inoltrata dagli Stati Uniti: la richiesta venne respinta dalle autorità elvetiche nel luglio 2010, e lui fu definitivamente rilasciato dopo aver trascorso mesi agli arresti domiciliari nel suo chalet di Gstaad. In quel periodo la stessa Geimar ricordò di averlo perdonato: «Penso che sia dispiaciuto, penso che lui sappia che era sbagliato. Non credo che sia un pericolo per la società. Non credo ci sia il bisogno di rinchiuderlo per sempre».
Negli anni successivi a quell’episodio, tuttavia, riuscì ad innamorarsi di nuovo, stavolta della protagonista di Tess (1979) Natassja Kinski, e a girare il divertente Pirati (1986) con Walter Matthau. Ma l’incontro con la donna della sua vita sarebbe avvenuto due anni più tardi, sul set di Frantic (1988): la modella francese Emmanuelle Seigner, di trentatré anni più giovane, divenne la sua terza moglie, e gli fu musa ispiratrice per pellicole come il discusso Luna di fiele (1992) e La nona porta (1999), fino all’ultimo Venere in pelliccia (2013). Ancora oggi, a quarantasette anni, è tra le donne più belle del mondo, e ha trascorso al fianco di Polanski più di metà della propria vita.
«Ti sei dato una calmata o ti sei solo risposato?», gli chiese una volta Sydne Rome, l’attrice protagonista di Che?, nel ritrovarlo a molti anni di distanza dal loro ultimo incontro. Lui rispose con un sorriso. Ma una delle sue frasi più famose avrebbe potuto parlare al suo posto: «Ci sono due cose al mondo che mi piacciono veramente. La seconda è girare un film…».
Dalla Seigner ha avuto due figli, Morgane ed Elvis, ai quali dedicò Oliver Twist nel 2005. Chi invece si è spinto a chiedergli quale fosse il suo capolavoro ha ricevuto una risposta secca: Il pianista (2002), tratto dall’autobiografia di Wladyslaw Szpilman, perché «racconta la mia vita». Un’opera che è già parte della storia del cinema, grazie anche ad uno straordinario Adrien Brody, e per la quale attore e regista furono premiati con l’Oscar.
Non sono molti gli artisti che al pari di Polanski rendano così difficile l’identificazione di un tema ricorrente, di una magnifica ossessione, di una cifra minima che accomuni le diverse opere. E ammesso che vi sia, tale elemento è da ricercare in quel «fascino per l’oscurità del mondo» rilevato dal suo illustre connazionale Krzysztof Zanussi, in una visione dei rapporti umani crudamente realistica – ben esemplificata da Carnage (2011) – che tocca vette di particolare brutalità quando si imbatte in vicende dalle chiare implicazioni politiche – come in La morte e la fanciulla (1994) e L’uomo nell’ombra (2010).
Ma ora Roman Polanski può tagliare il traguardo degli ottant'anni in condizioni di relativa serenità. E con lo sguardo rivolto ad un nuovo progetto. D., un film sul caso Dreyfus, avrà tutti gli elementi della più sordida spy story: «Lo spettacolo della caccia alle streghe contro le minoranze, la paranoia per la sicurezza, i tribunali militari segreti, le agenzie d'intelligence al di là di ogni controllo, le operazioni governative di insabbiameno, la stampa avida di notizie». È insomma esplicito l’intento di «mostrare le evidenti connessioni con quello che accade nel mondo di oggi». Auguri...

Manuel Lambertini