lunedì 28 febbraio 2011

Annie Girardot

Annie Girardot in una scena de I compagni (1963)
Annie Girardot «si è spenta serenamente» all’ospedale Lariboisière di Parigi. Aveva 79 anni. Nel 2006 era stata colpita dal Morbo di Alzheimer. Le erano accanto la figlia, Giulia Salvatori, e la nipote Lola Vogel. La triste notizia, sui media italiani, è inspiegabilmente passata sotto silenzio.
A regalarle grande notorietà fu Luchino Visconti, che nel 1960 le offrì il ruolo di Nadia in Rocco e i suoi fratelli. Al fianco di un venticinquenne Alain Delon e del futuro marito Renato Salvatori, Annie Girardot prestò il proprio volto al personaggio tormentato e commovente di una prostituta contesa tra due uomini. Una donna bellissima e indecifrabile: una creatura destinata ad espiare, da vittima sacrificale, non solo l’ipocrisia della mentalità dominante, ma anche il troppo amore dei suoi amanti, e l’emarginazione a cui la Milano industriale e borghese costringeva gli immigrati meridionali.
Jean Cocteau la definì «il più bel temperamento drammatico del dopoguerra». E Mario Monicelli le affidò un’altra interpretazione memorabile nel più sottovalutato dei suoi film, I compagni (1963). Ancora una prostituta, un’accompagnatrice d’alto bordo, nella Torino delle prime rivolte operaie. Una figura fintamente disinvolta, di umili origini ma con ricchi clienti, in apparenza affrancatasi da un destino ignobile e mortificante. L’incontenibile affetto per la sua limpida vitalità, nello sguardo di Monicelli come in quello di chiunque la osservi, non degenera mai nel paternalismo; e la sua stessa coscienza sembra risvegliarsi grazie al fugace incontro con il professor Sinigaglia: un Marcello Mastroianni nelle vesti di agitatore rivoluzionario, che introduce il germe dello sciopero tra i lavoratori tessili torinesi.
In Italia, il nome di Annie Girardot è legato ad opere indimenticabili. È stata protagonista de La donna scimmia (1964) di Marco Ferreri, per il quale recitò anche ne Il seme dell’uomo (1969) e in Dillinger è morto (1969). Ha lavorato, tra gli altri, per Sergio Corbucci, Paolo e Vittorio Taviani, Francesco Maselli, Ugo Gregoretti, Duccio Tessari, Luigi Comencini e Giuseppe Patroni Griffi... Ma anche in patria riuscì a togliersi non poche soddisfazioni. Come la lunga e proficua collaborazione con Claude Lelouch. O come il Premio César, che le fu assegnato due volte, nel 1977 con Il caso del dottor Gailland di Jean-Louis Bertucelli e nel 2002 con La pianista di Michael Haneke.
In questi ultimi anni, la malattia non l’aveva completamente sottratta alle scene. Alla pubblicazione dell’autobiografia Partir, revenir (2003) – e per testimoniare la disperata lotta dell’attrice contro l’Alzheimer – si erano aggiunti il libro La Memoire de ma mère (2007) di Giulia Salvatori e un documentario di Nicolas Baulieu, Annie Girardot. Ainsi va la vie (2008).

Manuel Lambertini

sabato 26 febbraio 2011

B. di Bobbio

Quindici anni fa Norberto Bobbio diede alle stampe il libro Tra due Repubbliche (Donzelli, 1996). Di quell’opera, alcuni illuminanti stralci furono ripresi in un’edizione di Critica liberale del marzo 2004, due mesi dopo la morte dell’autore, e pubblicati anche da L’Espresso. Parole che potrebbero essere scritte oggi. E che la dicono lunga sull’anomalia del potere berlusconiano. Sui suoi tratti ricorrenti e insieme spiazzanti. Sull’entusiasmo con cui è stato accolto il suo dissoluto autoritarismo, nell’esaltazione delle spregiudicatezze più sfacciate.
Un volume curato da Michelangelo Bovero, Il futuro di Norberto Bobbio (Laterza, 2011), ora raccoglie numerosi e autorevoli interventi in memoria del grande filosofo. Al convegno da cui è tratto il libro hanno partecipato, tra gli altri, Giorgio Napolitano, Remo Bodei, Stefano Rodotà, Antonio Cassese, Luigi Bonanate, Mario G. Losano, Michael Walzer, Ernesto Garzòn Valdes e Stephen Holmes. «Norberto Bobbio manca alla cultura e alla vita civile del nostro presente», ha scritto nella prefazione Michelangelo Bovero, professore ordinario di Filosofia Politica all’Università di Torino. «Manca la sua proverbiale chiarezza, che non è soltanto uno stile, una dote di nitore nella scrittura: è un modo di pensare, di affrontare i problemi andandovi al cuore, superando equivoci e confusioni, involontarie o interessate. Tuttavia – anche questa è un'idea condivisa – l'opera sterminata che Bobbio ci ha lasciato è in grado, per la sua misura “classica”, di offrire orientamenti per la comprensione della nostra realtà, in parte già mutata rispetto al tempo, anzi ai diversi tempi, in cui è stata elaborata».
Per certi aspetti, sembra proprio che nelle righe che seguono il nostro presente ci sia tutto. Il protagonista incontrastato della Seconda Repubblica, forte di un potere mediatico senza eguali, si è ormai insinuato nel patrimonio genetico della nazione. E non lascia immaginare alcun orizzonte politico alternativo.


Ambra e l’Unto del Signore
«Sono comparsi, […] come si è detto, partiti personali. Ma la novità assoluta e strabiliante di Forza Italia sta nell’essere, come dire?, il primo partito personale di massa. Chi ha votato Forza Italia non ha scelto un programma, ha scelto una persona, quel signore sempre elegantissimo, che conosce bene l’arte di attrarre l’attenzione su di sé con il suo eloquio, la sua maniera disinvolta e accattivante di muoversi e di rivolgersi al proprio pubblico, anche raccontando di tanto in tanto, con la perizia del vecchio comico, una barzelletta; sempre sorridente, sicuro di sé, abile semplificatore di concetti economici tanto da renderli alla portata di tutti; bravissimo nel farsi compiangere come vittima di complotti, di cospirazioni, di tradimenti, ingenuo bersaglio di nemici cattivi e perfidi alleati. L’avrete pur visto qualche volta quando preceduto dal suo inno entra in un grande salone gremito di gente, che al suo arrivo si alza in piedi e per alcuni minuti grida: “Silvio, Silvio”. Lui è l’Unto del Signore (e i vescovi lo hanno lasciato dire), il suo principale avversario è un Giuda; lui fa dire ad Ambra giovinetta prima maniera durante la campagna elettorale: “Il Padreterno tifa Berlusconi, perché Occhetto è un demonio”; lui in pubblico, davanti a milioni di spettatori, per asseverare una sua verità giura sulla testa dei suoi figli; lui è uno che “ha sempre ragione”. Sembrava negli ultimi tempi avesse messo giudizio, ma or non è molto ha detto di essere investito della Grazia di Stato, parole oscure e di difficile interpretazione, a meno che volesse dire semplicemente stato di grazia, ma efficacissime per convincere i suoi seguaci che lui è una spanna al di sopra degli altri. Una delle caratteristiche ben note e documentate della “personalità autoritaria” è l’assoluta fiducia in se stessi, nelle proprie possibilità di risolvere i più difficili problemi non solo per se stessi ma anche per gli altri. Il suo motto preferito è: “Lasciate fare a me, lavoro per voi”. Perché non è riuscito a mantenere le promesse di cui si era servito per vincere le elezioni? Perché non lo hanno lasciato lavorare. Parla sempre in prima persona. Lui guida, gli altri seguono.
Ricordate la fotografia del drappello dei bianco-vestiti in tuta sportiva che facevano la salutare corsa mattutina? Silvio era in testa, gli altri, i suoi fedeli collaboratori, lo seguivano ansimanti ma felici nell’adempimento del loro obbligo di servizio. Ricordo la facezia di un anonimo che nel vedere la scenetta commentò: “Mi è venuta un’idea / lo dirò con una battuta: / vestivano i servi un dì la livrea / oggi la tuta”. Non ammette di essere smentito. A chi lo contesta risponde che non è stato capito o aveva bonariamente scherzato. Il Polo delle libertà smantella lo Stato sociale? Ma chi l’ha mai detto? Si attribuisce il compito di proteggere i valori cristiani minacciati dal “comunismo ateo”. Guida il Polo per le libertà, ma nel settore decisivo per la garanzia delle principali libertà, la formazione dell’opinione pubblica, la cui libera espressione è il fondamento di uno Stato libero, detiene il monopolio delle televisioni private, facendo nascere quella incompatibilità tra la sua attività di imprenditore e quella di protagonista della vita politica che è stata chiamata eufemisticamente “conflitto di interessi”».


Da allora, quel «Satana» di Achille Occhetto ha abbandonato la politica attiva. E Ambra Angiolini si è redenta: ha vinto il David di Donatello grazie a Ferzan Ozpetek e al suo film Saturno contro, gira l’Italia con uno spettacolo di Stefano Benni e manifesta per la dignità della donna. Ad Annozero, il 17 febbraio, ha dato prova di intelligente autoironia.
Il profilo di Berlusconi, invece, non sembra aver subito variazioni di rilievo. La sua straordinaria capacità comunicativa non si è affatto esaurita. Le «toghe rosse» e la minaccia comunista hanno conservato un posto d’onore nel suo corredo propagandistico, insieme ad un inesauribile repertorio di barzellette. Come pure rimane immutata la sua visione personalistica della vita istituzionale: il ben noto «ghe pensi mi», che è arrivato a compromettere l’approccio degli italiani alla politica, avvelenandolo di indifferenza. Le televisioni di sua proprietà continuano a esaltare la corruzione dei costumi, gettando discredito sulla libera informazione e sulla magistratura indipendente. Le leggi ad personam, negli anni successivi alla morte di Bobbio, si sono susseguite ad un ritmo incalzante; e oggi, in pieno Rubygate, si riaffacciano con inaudita prepotenza nel dibattito parlamentare. Anche recentemente ha giurato sulla testa dei suoi figli: quando negava di avere ricevuto prestazioni sessuali a pagamento… I «nemici cattivi» a cui alludeva il filosofo torinese sono sempre gli stessi: i comunisti, insidiosamente travestitisi da democratici, subdolamente infiltratisi nella magistratura e nella scuola pubblica. Invece il fronte dei «perfidi alleati» si è allargato alla destra postfascista e agli eredi della Democrazia Cristiana, mentre la Lega sembra essersi inserita con disinvoltura nella corte del sultano. I servi, poi, non mancano, siano in tuta o in livrea. Ultimamente si chiamano «Responsabili». Sono il movimento più trasversale della storia repubblicana. Hanno costituito un gruppo parlamentare per tenere in vita il governo Berlusconi. E nel tentativo di assicurarsi un lauto vitalizio a spese dello Stato.

Manuel Lambertini

domenica 20 febbraio 2011

«Stiamo Uniti»

E volemose bene, ora che il Festival di Sanremo 2011 ha finalmente chiuso i battenti. Mai come in questa edizione la tradizionale kermesse aveva lasciato intravedere il soffocante controllo dei vertici Rai. E anche stavolta, nonostante la tenacia di Gianni Morandi, la canzone non è riuscita a dominare il più atteso evento televisivo dell’anno, mentre i superospiti degli anni scorsi hanno ceduto il passo alla satira di regime e a un gradevolissimo corredo di bellezza femminile. Tra i cedimenti più che comprensibili dell’«eterno ragazzo» e i sorrisi benevoli e imbarazzati delle sue dinamiche accompagnatrici, in nessuna delle cinque serate gli ascolti sono scesi al di sotto del 42 % di share. Un successo, quindi. Ma inversamente proporzionale alla qualità.
Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis, chiacchierate e applauditissime, hanno offerto un contributo attivo ad ogni serata del Festival. Raphael Gualazzi ha trionfato a furor di popolo nella categoria giovani. Il vincitore Roberto Vecchioni e Franco Battiato non hanno deluso, malgrado le consuete polemiche sul televoto: la loro presenza è però passata in secondo piano, come quella degli altri big in gara, per cedere il passo alle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. Una scelta che la squadra di Morandi si è vista imporre dall’alto e che, unita alle pressioni dettate dalla stretta attualità politica, sembra aver imbrigliato persino l’indomabile Benigni. Il 17 febbraio, all’Ariston, c’erano tutti: da Ignazio La Russa – che Santoro e Vauro cucinavano a fuoco lento su Rai Due, seguiti “solo” da  quattro milioni e 250mila persone – a Giorgia Meloni, dal direttore generale della Rai Mauro Masi al direttore di RaiUno Mazza. A queste costrizioni si sono aggiunti alcuni disguidi tecnici, molti punti morti, un’intervista a Robert De Niro spezzata in due parti per esigenze pubblicitarie e qualche segnale di tensione.
«Per l'arte – scriveva Bertolt Brecht nel suo Breviario di estetica teatrale essere apartitica significa semplicemente essere del partito dominante». E Luca e Paolo hanno dovuto rinunciare alla consueta irriverenza per indossare gli abiti del politicamente corretto. Caratteristica della loro comicità è sempre stata quella di ironizzare sul qualunquismo degli italiani, per criticare ciò che stanno fedelmente rappresentando. Ma a Sanremo sembrano aver giocato su questo equivoco, e sull’ambivalenza di ogni singola battuta. Agli occhi dei telespettatori che non conoscono Gramsci, di cui Luca e Paolo hanno mirabilmente letto un brano tratto da La Città Futura, la loro ironia bipartisan si è facilmente trasformata nella normalizzazione dei guai giudiziari del premier, e nell’immancabile derisione del centro-sinistra. Alla canzone Ti sputtanerò, parodia di In Amore con protagonisti Berlusconi e Fini, sono seguiti uno sfottò rivolto a Saviano e Santoro e un’altra canzone sui dirigenti del Pd: Uno su mille ci sarà, presentata come un omaggio alla tradizione circense italiana, con tanto di colbacco e stella rossa in testa. Anche nel rendere omaggio a Giorgio Gaber e nella rivisitazione della sua Al bar Casablanca  hanno ridicolizzato, con una leggerezza forse eccessiva, le verbose ossessioni della sinistra: «Al bar Casablanca / seduti all’aperto / la nikon, gli occhiali / e sopra una sedia, i titoli rossi / dei nostri giornali, / blue jeans scoloriti, / la barba sporcata da un po’ di gelato. / Parliamo, parliamo di rivoluzione, di proletariato…».
Ieri Andrea Scanzi ha scritto su La Stampa: «“La satira non deve essere unilaterale”. Non vuol dire granché. Infatti l’ha detto La Russa. A cui Luca e Paolo sono piaciuti. Già, Luca e Paolo. I disturbatori-ma-non-troppo. Tra i migliori, nello sfottò. Ma la satira è un’altra cosa. Loro lo sanno.  E sanno pure che, a RaiUno, la satira è fuoriluogo. Da qui l’autodisinnesco preventivo. Ti sputtanerò? Caruccia e nulla più. Calzante la citazione di Gramsci. Scontata la canzoncina sul Pd. Sincero l’omaggio a Gaber. Dove sono inciampati, è stato nel debole duetto su Saviano e Santoro. Non perché non andasse fatto, ma perché è parso un mesto azzerbinamento ai Capi. Luca e Paolo sembrano aver canonizzato il “cerchiobottismo volenteroso”. Quello che piace a tutti. E non fa male a nessuno. Con o senza cavalli sul palco».

Manuel Lambertini

domenica 13 febbraio 2011

Sara Tommasi e le Papi Girls

Già, anch’io sono stato fidanzato con Sara Tommasi. Per quasi dieci secondi. Ma clandestinamente la nostra storia è andata avanti addirittura quattro giorni. Nei vialetti del Lido di Venezia e nei corridoi dell’Hotel Excelsior ci siamo scambiati sguardi ad alta intensità erotica durante tutta la 66esima Mostra del Cinema!
D’accordo, non sono molto credibile. Ma non vi sono dubbi sul fatto che a Vittorio Sgarbi le cose siano andate meglio... Nei giorni scorsi ha dichiarato: «Sono stato fidanzato per qualche ora con Sara Tommasi e l’ho portata a Venezia, oltre che in Bulgaria, nell’aereo presidenziale. Ma ci tengo a precisare che era con me, non con Berlusconi, che quindi non l’ha pagata». Nel giugno 2010, infatti, il sindaco di Salemi e la bella Sara hanno raggiunto Sofia con l’aereo del Presidente del Consiglio, per partecipare all’inaugurazione di una statua di Garibaldi. In un articolo per Il Giornale, Sgarbi ha smentito l’intimità del premier con l’ex schedina di Quelli che…il calcio, spendendosi poi in difesa di quest’ultima: «Tutto è detto nelle dichiarazioni di Sara Tommasi, anche nelle sue intemperanze e manie di persecuzione: “Il mio problema è un impulso insopprimibile a fare sesso, ma non sono una prostituta”. Confermo. Un sesso semplice come quello di un maschio». «Sembra che, – ha aggiunto Sgarbi – non so in che tempo, probabilmente dopo di me, Sara Tommasi abbia mostrato particolare interesse per Berlusconi. E con questo?».
Secondo gli inquirenti, invece, alcuni mesi prima la Tommasi avrebbe trascorso ad Arcore anche la serata del 25 aprile, quando Berlusconi accoglieva Vladimir Putin con le Papi Girls al gran completo: oltre alla minorenne Ruby, erano presenti Barbara Guerra, le gemelle Manuela e Marianna Ferrara, Iris Berardi, Barbara Faggioli e Marysthell Garcìa Polanco.
Umbra, capelli castani, occhi da cerbiatta e fisico procace, Sara Tommasi, che compierà trent’anni il 9 giugno, è l’anello di congiunzione tra la recente indagine della Procura di Napoli su un giro di prostituzione legato ad ambienti della camorra e i festini di Arcore. La squadra mobile di Napoli è arrivata al cellulare della Tommasi seguendo un traffico di banconote false. Il suo telefono è stato intercettato dalla polizia perché in contatto con le utenze degli indagati Vicenzo Seiello, detto «Bartolo», e Giosuè Amirante: entrambi avrebbero stretto legami con Lele Mora e Fabrizio Corona, impiegando la stessa Tommasi ed altre ragazze della «scuderia» in prestazioni sessuali a pagamento. Oltre a frequentare le cene di Villa San Martino, l’ex naufraga dell’Isola dei Famosi sarebbe stata trascinata da Seiello e da Amirante in serate hard con personaggi più o meno coinvolti nella criminalità organizzata. E secondo Fabrizio Corona, il cui archivio è stato messo a soqquadro alcuni giorni fa, la camorra sarebbe in possesso di fotografie che ritraggono Berlusconi nudo durante una notte di Bunga-Bunga
In una conversazione telefonica, intercettata dagli inquirenti, «Bartolo» e Amirante hanno raccontato di aver visto la scorta della Presidenza del Consiglio prelevare Sara Tommasi dal suo appartamento romano per condurla a Palazzo Grazioli. Dal cellulare della ragazza sono poi stati inviati sms a Silvio Berlusconi, a suo fratello Paolo e ad Ignazio La Russa. Dapprima molto teneri («Mi sei mancato tanto, spero che tu mi possa richiamare presto. Ti amo ancora, sai. Lady X»), poi sempre più rabbiosi («Spero ke krepi kon le tue troie»), i messaggi rivolti al premier hanno fornito «la rappresentazione inquietante di una personalità fragile e spregiudicata», come riportato negli atti della Procura.
La showgirl, in vacanza a Dubai, non si è sottratta alle domande dei giornalisti. Pur non essendo indagata, ha dominato le cronache di questi ultimi giorni. Il 9 febbraio è stata perquisita la sua casa milanese, in Viale Papiniano 33, insieme alle abitazioni di «Bartolo», di Amirante e di Andrea Celentano, un consulente di programmi tv al quale la ragazza avrebbe confidato la propria difficile situazione. Intervistata da Claudio Sabelli Fioretti e da Giorgio Lauro nel corso della trasmissione Un giorno da pecora, in onda su Radio 2, Sara ha smentito di essersi prostituita: «Io in realtà sono troppo buona, troppo gentile, e anche per gentilezza allargo le gambe come niente, basta che uno mi è simpatico»… Sulla stessa scia, le dichiarazioni rilasciate a Novella  2000: «Il mio problema è un impulso insopprimibile a fare sesso, ma non sono una prostituta. È che mi sciolgono la droga nei bicchieri... Certo, se un ministro mi offrisse 15mila euro… Ma è solo un’ipotesi». Al TgLa7 ha detto: «Non ho mai fatto sesso a pagamento. Forse è questa la pecca. Perché la prostituzione non è reato e in Italia bisogna fare sesso a pagamento». Poi, nell’attesa di essere chiamata dai magistrati, se l’è presa anche con la polizia: «È tutto così anche in polizia, eh, cosa crede? Io sono andata una volta a fare una denuncia: a momenti mi saltava addosso, il commissario della polizia…». Parlando all’Ansa si è inoltre detta «delusa» dal capo del governo: «Berlusconi mi ha colpita positivamente la prima volta che l'ho visto. Oggi posso dire di essere delusa. Uno scandalo del genere può coinvolgere una starlette come me ma non un politico, che dovrebbe dare il buon esempio». Con Marco Lillo de Il Fatto Quotidiano è andata oltre: più che un politico, Berlusconi sarebbe «un ragazzo di spettacolo». È un complimento? «Se un uomo di Stato deve essere un pagliaccio che fa divertire il prossimo facendo i festini…». Invece Ignazio La Russa e suo figlio Geronimo sarebbero «amici di vecchia data». Mora e Corona «sciolgono nei bicchieri» sostanze stupefacenti per farle perdere il controllo sessuale. Marina Berlusconi, si legge negli sms, gestirebbe alcuni «giri squallidi». Ronaldhino «frequenta gente che sembrano narcotrafficanti». Fabrizio del Noce? «Un caro amico. Forse un fidanzato… Ha frequentato i giri di Berlusconi a Roma e se ne è staccato perché gli facevano schifo». Nicole Minetti, al contrario, «pensa solo ai soldi ed è malata di shopping». Da ogni parte piovono smentite, ora pietose ora sdegnate.
Tra vaneggiamenti e dichiarazioni shock, questa ingarbugliata vicenda si complica di ora in ora. Mentre la magistratura esclude ogni connessione dell’inchiesta di Milano –  che vede Berlusconi imputato per concussione e prostituzione minorile – con quella di Napoli, la vera Sara Tommasi sembra essersi irrimediabilmente confusa tra tutte le possibili letture del suo comportamento... È davvero così instabile e depressa? Molti elementi farebbero supporre di sì. Alla madre Cinzia, per telefono, aveva mostrato le stesse inquietudini di cui tutti parlano oggi: «Ora sto qua a rompermi con la gente che mi droga a destra e a sinistra… Non so più dove scappare, guarda…». In un sms inviato a Berlusconi si legge: «Silvio vergognati! Mi hai fatta ammalare... Paga i conti dello psicologo!». E con Paolo Berlusconi era stata ancora più categorica: «Se io mi devo curare, tu piantala con cocaina, cani e mignotte!!». Pare che il fratello del premier l’abbia segnalata alla clinica «Delle Betulle» di Appiano Gentile, per farla visitare da uno specialista. Ai pm di Napoli, Giosuè Amirante sembra aver fornito ulteriori conferme: «Da luglio in poi il carattere di Sara è peggiorato, la vedevo sempre triste, sempre pronta a scatti di ira, non la capivo più. Negli ultimi tempi ho saputo che faceva addirittura uso di farmaci».
Eppure, il dubbio che stia fingendo resta. Soprattutto da quando l’attenzione dei media si è concentrata sul suo caso. Ha attaccato il premier con giudizi morali, ma senza confermare nulla di ciò che più interessa ai fini dell’indagine. Nega persino di averlo «smessaggiato», smentisce di essere stata ad Arcore e conferma solo i festini di Palazzo Grazioli: «Mi hanno rubato il cellulare tre volte nel giro di un mese: tassisti, camorristi, scippatori in metropolitana…». Del resto, persino i tanto discussi sms potrebbero essere parte di un tentativo di deviazione a più ampio raggio… Il 6 gennaio scorso, poco prima dell’inchiesta milanese sulle prestazioni sessuali di Ruby, l’europarlamentare del PdL Licia Ronzulli le aveva rivolto un esplicito avvertimento: «Sara, è bene che tu sappia che il mio cellulare è sotto controllo. Quindi tutto passa attraverso la Procura. Messaggi e telefonate». Ma già il 6 ottobre 2010 – il Rubygate era ancora di là da venire – la bella Sara confidava ad Andrea Celentano: «Quelle altre [dei festini di Berlusconi] sono tutte matte... Ma io mi metto a fare la matta come loro... Sinceramente preferisco seguire le strade mie…».
La questione, per ora, resta aperta. E il caso Tommasi è solo alle battute iniziali. L’infelice condizione in cui versa questa giovane donna sembra tuttavia molto chiara. Dopo essersi laureata in economia alla Bocconi di Milano, si era gettata con entusiasmo nel mondo dello spettacolo, sognando una carriera di attrice. La sua partecipazione all’Isola dei Famosi e il calendario 2007 di Max le avevano regalato grande popolarità. Ma nemmeno uno stage di recitazione all’Actor’s Studios di New York era stato sufficiente ad elevarla dal frustrante ruolo di eterna starlette. Sapeva che questo sarebbe potuto succedere, in un mondo spesso impietoso come quello dello spettacolo, ma ha continuato a nascondere il proprio disagio dietro ad un'apparente spregiudicatezza senza ripensamenti: «All’inizio non volevo spogliarmi, poi ho cambiato idea. Il seno? L’ho rifatto. Io sono un prodotto da vendere nel mercato dello show business». Trasferitasi a Roma, aveva tentato di sfondare nel cinema. Senza riuscirci. Dopo due anni, è naufragata anche la sua storia d’amore con l’imprenditore Simone Giancola: ora l’uomo è fidanzato con Nicole Minetti... Prima dell’intervento di Veronica Lario, le era stata offerta una carriera politica. Con qualche rimpianto, aveva rifiutato. Per non rinunciare al sogno di una vita. Però negli ultimi mesi la sua situazione sembra essere degenerata, tra flirt veri o presunti, rivelazioni hot ed evidenti problemi di salute. Certo la sua docile instabilità è molto lontana dalle aggressive pretese delle «lupe di Arcore», come le ha efficacemente descritte Francesco Merlo.
Al Festival di Venezia del 2009 sono stato testimone di un piccolo episodio, che oggi mi intenerisce. Seduto sulla gradinata antistante l’ingresso dell’Excelsior, accanto ai tanti curiosi armati di bloc notes, un pomeriggio la vidi spuntare dal nulla. Mancava qualche ora alla passerella delle 19.30, e Sara vestiva in modo piuttosto semplice, non aveva ancora iniziato a prepararsi. Ricordo che si fermò proprio nel punto in cui attori e celebrità acceleravano il passo per sottrarsi ai cacciatori di autografi. Dal vivo è ugualmente bella, ma molto più magra di quanto non appaia in televisione. E assai meno appariscente. Rimase immobile per parecchi secondi, rivolgendo imploranti occhiate alla piccola folla appostata sulle gradinate. Poi, con aria dimessa, entrò lentamente in albergo. Senza nascondere la propria delusione per il mancato bagno di folla.

Manuel Lambertini


giovedì 3 febbraio 2011

Sveglia, Presidente!

Al nostro Presidente della Repubblica l’aria di Bergamo deve aver fatto male. O forse tutti quei sindaci leghisti con la fascia tricolore lo hanno solo disorientato un po’… In ogni caso, Napolitano ha chiesto anche ieri alle forze politiche di abbassare i toni dello scontro. Questa volta, però, le sue parole hanno ottenuto un particolare apprezzamento dalla maggioranza, e lo stesso Berlusconi non ha esitato a manifestare la propria entusiastica adesione.
Secondo il Capo dello Stato, è necessario uscire «da una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti, prove di forza da cui può soltanto uscire ostacolato ogni processo di riforma», soprattutto quelle «ormai giunte a buon punto» come il federalismo. Ed ha aggiunto: «Non è mio compito intervenire e interferire nella dialettica fra le forze politiche e sociali». Il suo «fondamentale dovere» è invece quello di «rappresentare l’unità nazionale che si esprime nel complesso delle articolazioni delle istituzioni». «La mia generazione – ha poi ricordato – visse un’esperienza terribile, quella dell’Italia divisa in due come non era più accaduto dal 1860 del paese sanguinante, in macerie, da ricostruire. C’era da dubitare di tutto ma non ci si doveva scoraggiare, e noi non ci scoraggiammo. Anche oggi è necessario ragionare così. Nonostante le divisioni politiche e ideologiche si riuscì ad approvare una Costituzione nel segno dell’unità. Forze politiche anche tra loro distanti trovarono un punto di incontro nel disegnare quel grande quadro di principi che avrebbe dovuto guidarci e che ci ha guidato fino ad oggi, che ci ha salvato da ulteriori rotture».
È il caso di dirlo: il discorso del Capo dello Stato non poteva essere più inopportuno. Nel momento stesso in cui dichiara di non voler interferire nella dialettica politica, esorta l’approvazione del federalismo, prolunga la vita al governo e umilia l’autonomia finanziaria dei comuni italiani. In commissione bicamerale il federalismo municipale non è passato, ma la Lega non sembra propendere per un imminente ritorno alle urne. L’opposizione non ha alternative alla linea dura di questi giorni. Dopo aver offerto a Berlusconi innumerevoli scialuppe di salvataggio, il Partito democratico, nella persona del segretario Pier Luigi Bersani, sembra aver imparato la lezione. E le dichiarazioni concilianti del premier, una volta tanto, non avranno risposta.
Restano però alcuni interrogativi, tutt’altro che banali. A cosa si deve questo intervento del Presidente Napolitano? Può una semplice apertura far dimenticare diciassette anni di menzogne? All’inizio della legislatura, forte di un’ampia maggioranza parlamentare, il premier non sembrava avere a cuore le riforme strutturali di cui parla oggi, né il dialogo col centro-sinistra:  «Nel nostro programma elettorale abbiamo promesso di agire sull'ammodernamento dello Stato operando le necessarie riforme; se questo sarà possibile con l'opposizione, bene, altrimenti le faremo ugualmente con i numeri che abbiamo» (1-08-2008). In altre parole, Berlusconi non avrebbe certo rifiutato i voti dell’opposizione, ma nemmeno modificato una virgola dei suoi provvedimenti… Può esserselo dimenticato, il Presidente Napolitano, dall’alto della sua lunga esperienza politica?
Sia chiaro: qui non ci si appella al suo passato comunista, che peraltro nessuno ricorda più. Ci si appella al suo senso dello Stato. Tante, troppe volte il Presidente si è rivolto al PdL e alla Lega come fossero forze politiche normali. E troppe volte ha subito senza reagire i loro attacchi alla magistratura, la loro demagogia. Chi arriva al punto di modificare le leggi dello Stato a seconda delle proprie esigenze, e per sfuggire alla giustizia, valica i limiti della regolare dialettica politica. L’equilibrio mantenuto sin qui ha conferito a Giorgio Napolitano una grande credibilità. Ma da garante delle istituzioni sta correndo il rischio di trasformarsi nel garante di una casta che non merita legittimazioni. È arrivato, per lui, il momento di alzare la testa. Non gli si chiede nulla di più rispetto a ciò che fecero Scalfaro e Ciampi quando arginarono l’offensiva semiautoritaria del Cavaliere. Con Scalfaro al Quirinale, Cesare Previti non divenne ministro della Giustizia; e fu Carlo Azeglio Ciampi, nel dicembre 2004, a rinviare alle Camere la riforma dell’ordinamento giudiziario.
Gli uomini di quella generazione, è vero, seppero trovare un encomiabile punto di sintesi tra culture politiche apparentemente incompatibili. Ma qualcuno dovrebbe ricordare al Capo dello Stato il trattamento che riservarono a Mussolini, appena un anno prima dell’Assemblea Costituente… Le persone oneste, oggi, si accontenterebbero di molto meno. E al loro più alto rappresentante chiedono almeno un modesto contributo.

Manuel Lambertini

mercoledì 2 febbraio 2011

Con Ágnes Heller

Nell’Ungheria governata dalla destra ultranazionalista, una legge in vigore dal 1° gennaio 2011 impone pesanti restrizioni alla libertà di stampa. L’esecutivo guidato da Viktor Orbán, ora presidente di turno dell’Unione Europea, ha affidato ampi poteri ad un «Consiglio dei media» composto da soli membri del partito di maggioranza, l’Unione civica ungherese (Fidesz). Se dovessero rendersi responsabili di una non meglio identificata «violazione dell’interesse pubblico», le testate giornalistiche saranno sottoposte ad elevate sanzioni, e dovranno rivelare le loro fonti in caso di notizie relative alla «sicurezza nazionale». In tutti i media, la cronaca nera non potrà occupare uno spazio superiore al 20 per cento, mentre le radio e le televisioni finanziate dallo Stato convergeranno in un’unica agenzia di stampa nazionale, la MTI. A questa politica sfacciatamente antiliberale si sono aggiunte epurazioni eccellenti, condanne senza appello agli «sprechi di denaro pubblico» delle più prestigiose istituzioni culturali del Paese e persino campagne mediatiche contro gli ebrei e gli omosessuali. Forte di un’ampia maggioranza parlamentare, il governo Orbán sta lanciando una sistematica offensiva all’intellighenzia ungherese.
Non si esibirà più in patria Andràs Schiff, pianista e direttore d’orchestra di fama internazionale, denigrato con insulti antisemiti da un giornalista amico del premier. Il filosofo Tamás Gáspár Miklós è stato licenziato in tronco dall’Accademia delle scienze, con un provvedimento poi sospeso grazie alle proteste internazionali. La stessa sorte è toccata al direttore del Teatro nazionale Ròbert Alfoeldi, marchiato come «traditore, ebreo, omosessuale»: aveva permesso che il teatro, nel giorno della festa nazionale rumena, ospitasse il party diplomatico degli antichi rivali. «Clima pesante, sono cambiati i persecutori ma i perseguitati sono sempre gli stessi che negli anni ’70 e ‘80», ha dichiarato Tamás Gáspár Miklós a La Repubblica del 26 gennaio. «Il linguaggio contro l’intelligentsija ricorda le parole di Goebbels contro la “belva intellettuale” […] I media governativi sparano su di noi ogni giorno in prima pagina, seducono l’opinione pubblica parlando di soldi dei contribuenti sprecati dagli intellettuali per inutili traduzioni rivedute e corrette di Platone».
Il giornale di centro-destra Magyar Nemzet ha infatti accusato la filosofa Ágnes Heller di aver sperperato, tra il 2004 e il 2005, 1 milione e 800 mila euro in ricerche inutili. Secondo le accuse, Heller avrebbe pilotato concorsi e fondi insieme ad altri cinque membri dell’Istituto nazionale di ricerca e tecnologia, con la complicità dell’allora primo ministro Ferenc Gyurcsány.
Figura centrale della filosofia contemporanea, Ágnes Heller è forse la pensatrice più importante del Paese. Nata nel 1929 in una famiglia ebraica, aveva quindici anni quando Auschwitz le portò via il padre. Allieva di György Lukàcs, nonchè massima rappresentante di quel marxismo dissidente che prese corpo all’interno della «Scuola di Budapest», entrò ben presto in conflitto con il socialismo reale. Allontanata dal partito comunista nel 1949, durante il governo stalinista di Mátyás Rákosi, fu poi riammessa per un breve periodo, quindi definitivamente espulsa nel 1958. Come Lukàcs, per lungo tempo credette alla possibilità di realizzare un socialismo diverso. Già compromesse dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, le sue speranze si dissolsero irrimediabilmente dopo la morte del maestro, nel 1971. Infatti il regime di János Kádár inasprì la repressione: ad Ágnes Heller venne precluso l’insegnamento, mentre per altri membri della «Scuola di Budapest» – tra cui suo marito, Ferenc Fehér – si aprirono le porte del carcere. Alla fine degli anni ‘70, Heller decise di lasciare l’Ungheria alla volta dell’Australia, per poi accettare la cattedra di filosofia offertagli dalla New School for Social Research di New York. Un incarico che ricopre tuttora, nonostante abbia fatto ritorno in patria all’indomani della caduta del Muro.
Col passare del tempo, il pensiero di Ágnes Heller ha subito non pochi mutamenti. Oggi non si professa più marxista, anzi ammette di non esserlo mai stata, ma rifiuta di demonizzare il filosofo di Treviri: «Marx è stato uno dei più significativi pensatori del XIX secolo, può continuare a essere letto, e reinterpretato. E farlo non significa necessariamente essere marxisti. Se leggi Hegel, non per questo sei hegeliano. Può ancora essere utilizzato? La questione è aperta. Ho un atteggiamento ambivalente nei suoi confronti, credo che per certi versi sì, e per altri no. La sua descrizione del capitalismo è ancora molto valida, ma ciò che disse a proposito del collasso del capitalismo, della rivoluzione proletaria, della società comunista, è irrilevante» (La Stampa, 17 novembre 2008). Negli anni ’80, gli ideologi del craxismo trovarono in lei un imprescindibile punto di riferimento, e i suoi articoli ebbero regolare accoglienza su Mondo Operaio. In Occidente, è nota soprattutto per aver elaborato la molto citata teoria dei bisogni radicali. Distaccatasi dall’approccio lukàcsiano, Heller sostiene che i bisogni dell’uomo debbano essere distinti in due categorie: i bisogni alienanti, legati alla ricchezza, al denaro, al potere; e i bisogni, per l’appunto, radicali, come l’amicizia, l’amore, l’introspezione, la convivialità e il gioco. Se i primi hanno una natura quantitativa impossibile da appagare, i secondi sono invece qualitativi. Mai rinnegata nè disconosciuta, questa intuizione si è rivealta anticipatrice dell’approdo di Ágnes Heller al pensiero liberal-democratico-socialista. Nei suoi scritti più recenti, alcuni hanno addirittura notato preoccupanti punte di neoconservatorismo, attribuendone l’origine agli eventi dell’11 settembre 2001...
Il fatto che la stampa filogovernativa si scagli con tanta violenza su questa ottantunenne ipermoderata la dice lunga sulla gravità della situazione in Ungheria. In un appello rivolto all’Unione Europea, filosofi del calibro di Jürgen Habermas e di Julian Nida-Rümelin hanno scritto: «Siamo preoccupati per la sorte dei colleghi ungheresi, in senso sia politico che professionale. Ágnes Heller, Mihaly Vajda e Sandor Radnoti sono al centro del conflitto, per aver criticato pubblicamente la discutibile legge sui media voluta dal primo ministro Orbán. […] Ágnes Heller, che nella Repubblica federale tedesca è stata insignita del Premio Lessing e del Hannah-Arendt-Preis, e lo scorso anno, durante una solenne cerimonia, ha ricevuto dall’Istituto Goethe di Weimar la “medaglia di Goethe”, ha sporto denuncia penale contro il giornale Magyar Nemzet per le volgarità pubblicate contro di lei. Facciamo quindi appello alla Commissione della Ue affinché rompa gli indugi e proceda finalmente a un esame giuridico della legge ungherese sui media, anche sotto il profilo della prassi adottata dal governo e dalle autorità ungheresi, con particolare riguardo al modo in cui vengono trattati gli scienziati e gli intellettuali critici nei confronti del regime».
Mai come in questo momento, in Ungheria e altrove, paiono profetiche le parole che proprio Ágnes Heller ebbe a scrivere sulla libertà, sul rischio di perderla e sulla necessità di difenderne lo spirito: «La libertà è gravosa, si accompagna a gravi responsabilità, è difficile, come sostiene Lévinas. La libertà non promette immediata soddisfazione dei desideri, felicità e nemmeno sicurezza personale. Caino era libero di scegliere tra il bene e il male, e scelse il male. Il popolo di Israele abbandonò il Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù e al suo posto adorò il Vitello d’oro. Gesù di Nazareth fu crocifisso, Socrate bevve la cicuta. Dopo aver prosperato per breve tempo, le libere repubbliche decadono e trionfa il dispotismo. Ma mostrare la sconfitta non deve significare pessimismo. Se solleviamo la questione se ne valeva o se ne vale la pena, tutte le grandi narrazioni sulla libertà forniscono una risposta inequivocabile: comunque ne valeva assolutamente la pena. Vale la pena avere solo le cose che si possono perdere. La vita è preziosa perché la mia vita e quella dei miei cari andranno necessariamente perdute. La libertà è preziosa perché la mia libertà e quella dei miei cari si possono perdere. Ma non necessariamente».

Manuel Lambertini