martedì 11 gennaio 2011

Lietta Tornabuoni

Mentre Michael Douglas annunciava ai microfoni della Nbc di aver sconfitto il cancro, al Policlinico Umberto I di Roma si spegneva una delle firme più prestigiose della critica cinematografica italiana. Lietta Tornabuoni, come hanno riportato le agenzie, era stata ricoverata in ospedale alcune settimane fa, dopo essersi sentita male durante una proiezione.  Improvvisamente aggravatasi nella giornata di ieri, e minata da tre arresti cardiaci, la sua salute non ha retto.
Giulietta Tornabuoni, per tutti Lietta, era nata a Pisa il 24 marzo 1931. Discendeva da una nobile famiglia toscana, e da quella Lucrezia Tornabuoni che aveva dato alla luce Lorenzo il Magnifico. Giornalista dal 1950, aveva esordito come cronista nei settimanali «Noi Donne» e «Lavoro»; era poi passata alla Rizzoli, presso «Annabella», «Novella» e «L’Europeo», lavorando anche per il «Corriere della Sera» e, fino all’ultimo, per «L’espresso». Dal 1970 faceva parte della redazione de «La Stampa»: nel 1989, alla morte dell’amico Stefano Reggiani, divenne il critico cinematografico titolare del grande quotidiano torinese. A segnalarla era stato Gianni Agnelli, complice un articolo in cui Lietta citava Tamara Lees e Dorian Gray, due attrici molto amate dall’Avvocato e di cui nessuno parlava più.
Dei suoi libri, oltre a Sorelle d’Italia (Bompiani, 1977), si ricordano soprattutto Era Cinecittà (Bompiani, 1979) e Album di famiglia della tv (Mondadori, 1981), scritti con Oreste Del Buono. Curò, inoltre, due importanti pubblicazioni, Federico Fellini. La voce della luna (La Nuova Italia, 1990) e Federico Fellini (Rizzoli, 1995). Quest’ultimo ripercorre i progetti non realizzati del maestro riminese: la grande giornalista ne parlò a lungo in un memorabile incontro svoltosi al MAMbo di Bologna nel giugno 2010, durante la mostra Fellini. Dall’Italia alla Luna.
Il cinema l’aveva conquistata sin dall’infanzia: «Conoscevo a memoria tutto Roma citta aperta, che io e i miei fratelli recitavamo: mio fratello faceva Maria Michi, io Harry Feist, il colonnello nazista. Da allora il film di Rossellini mi è rimasto nel cuore: ancora oggi quando lo vedo, alla scena in cui Anna Magnani insegue il camion, mi vengono le lacrime agli occhi». Qualche anno fa, «Film Tv» pubblicò a puntate una carrellata di (auto)ritratti riguardanti i critici italiani: Lietta Tornabuoni fu la settima a raccontarsi, con aneddoti simili a quello appena riportato. Prima figura femminile in un ambiente dominato da uomini, si fece conoscere per uno stile semplice, quasi elementare, che acquisì familiarità tra gli appassionati di cinema.
 «Quello del critico è un lavoro bellissimo», scrisse ancora in quell’occasione. «È un’idea sbagliata che sia un lavoro “facile”, per pigri. Magari… Ti tocca vedere tutti i film, anche quelli pessimi (e ormai sono tanti) e poi scriverne in modo informato e obiettivo. La stroncatura è un facile esercizio di scrittura, ma non serve a nessuno se non a chi la scrive, che si mette in mostra. […] Due sono le limitazioni principali per un critico, oggi: gli spazi, sempre più ridotti. E la cultura dei lettori. Devi raggiungere ogni fascia di pubblico, anche chi non sa, quindi non usare parole difficili, nomi che non siano spiegati. Scrivere in modo chiaro e facile è una priorità. Molti colleghi non lo fanno. Ma disapprovo: significa avere come punto di riferimento altri colleghi e non i lettori».

Manuel Lambertini

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