mercoledì 2 febbraio 2011

Con Ágnes Heller

Nell’Ungheria governata dalla destra ultranazionalista, una legge in vigore dal 1° gennaio 2011 impone pesanti restrizioni alla libertà di stampa. L’esecutivo guidato da Viktor Orbán, ora presidente di turno dell’Unione Europea, ha affidato ampi poteri ad un «Consiglio dei media» composto da soli membri del partito di maggioranza, l’Unione civica ungherese (Fidesz). Se dovessero rendersi responsabili di una non meglio identificata «violazione dell’interesse pubblico», le testate giornalistiche saranno sottoposte ad elevate sanzioni, e dovranno rivelare le loro fonti in caso di notizie relative alla «sicurezza nazionale». In tutti i media, la cronaca nera non potrà occupare uno spazio superiore al 20 per cento, mentre le radio e le televisioni finanziate dallo Stato convergeranno in un’unica agenzia di stampa nazionale, la MTI. A questa politica sfacciatamente antiliberale si sono aggiunte epurazioni eccellenti, condanne senza appello agli «sprechi di denaro pubblico» delle più prestigiose istituzioni culturali del Paese e persino campagne mediatiche contro gli ebrei e gli omosessuali. Forte di un’ampia maggioranza parlamentare, il governo Orbán sta lanciando una sistematica offensiva all’intellighenzia ungherese.
Non si esibirà più in patria Andràs Schiff, pianista e direttore d’orchestra di fama internazionale, denigrato con insulti antisemiti da un giornalista amico del premier. Il filosofo Tamás Gáspár Miklós è stato licenziato in tronco dall’Accademia delle scienze, con un provvedimento poi sospeso grazie alle proteste internazionali. La stessa sorte è toccata al direttore del Teatro nazionale Ròbert Alfoeldi, marchiato come «traditore, ebreo, omosessuale»: aveva permesso che il teatro, nel giorno della festa nazionale rumena, ospitasse il party diplomatico degli antichi rivali. «Clima pesante, sono cambiati i persecutori ma i perseguitati sono sempre gli stessi che negli anni ’70 e ‘80», ha dichiarato Tamás Gáspár Miklós a La Repubblica del 26 gennaio. «Il linguaggio contro l’intelligentsija ricorda le parole di Goebbels contro la “belva intellettuale” […] I media governativi sparano su di noi ogni giorno in prima pagina, seducono l’opinione pubblica parlando di soldi dei contribuenti sprecati dagli intellettuali per inutili traduzioni rivedute e corrette di Platone».
Il giornale di centro-destra Magyar Nemzet ha infatti accusato la filosofa Ágnes Heller di aver sperperato, tra il 2004 e il 2005, 1 milione e 800 mila euro in ricerche inutili. Secondo le accuse, Heller avrebbe pilotato concorsi e fondi insieme ad altri cinque membri dell’Istituto nazionale di ricerca e tecnologia, con la complicità dell’allora primo ministro Ferenc Gyurcsány.
Figura centrale della filosofia contemporanea, Ágnes Heller è forse la pensatrice più importante del Paese. Nata nel 1929 in una famiglia ebraica, aveva quindici anni quando Auschwitz le portò via il padre. Allieva di György Lukàcs, nonchè massima rappresentante di quel marxismo dissidente che prese corpo all’interno della «Scuola di Budapest», entrò ben presto in conflitto con il socialismo reale. Allontanata dal partito comunista nel 1949, durante il governo stalinista di Mátyás Rákosi, fu poi riammessa per un breve periodo, quindi definitivamente espulsa nel 1958. Come Lukàcs, per lungo tempo credette alla possibilità di realizzare un socialismo diverso. Già compromesse dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, le sue speranze si dissolsero irrimediabilmente dopo la morte del maestro, nel 1971. Infatti il regime di János Kádár inasprì la repressione: ad Ágnes Heller venne precluso l’insegnamento, mentre per altri membri della «Scuola di Budapest» – tra cui suo marito, Ferenc Fehér – si aprirono le porte del carcere. Alla fine degli anni ‘70, Heller decise di lasciare l’Ungheria alla volta dell’Australia, per poi accettare la cattedra di filosofia offertagli dalla New School for Social Research di New York. Un incarico che ricopre tuttora, nonostante abbia fatto ritorno in patria all’indomani della caduta del Muro.
Col passare del tempo, il pensiero di Ágnes Heller ha subito non pochi mutamenti. Oggi non si professa più marxista, anzi ammette di non esserlo mai stata, ma rifiuta di demonizzare il filosofo di Treviri: «Marx è stato uno dei più significativi pensatori del XIX secolo, può continuare a essere letto, e reinterpretato. E farlo non significa necessariamente essere marxisti. Se leggi Hegel, non per questo sei hegeliano. Può ancora essere utilizzato? La questione è aperta. Ho un atteggiamento ambivalente nei suoi confronti, credo che per certi versi sì, e per altri no. La sua descrizione del capitalismo è ancora molto valida, ma ciò che disse a proposito del collasso del capitalismo, della rivoluzione proletaria, della società comunista, è irrilevante» (La Stampa, 17 novembre 2008). Negli anni ’80, gli ideologi del craxismo trovarono in lei un imprescindibile punto di riferimento, e i suoi articoli ebbero regolare accoglienza su Mondo Operaio. In Occidente, è nota soprattutto per aver elaborato la molto citata teoria dei bisogni radicali. Distaccatasi dall’approccio lukàcsiano, Heller sostiene che i bisogni dell’uomo debbano essere distinti in due categorie: i bisogni alienanti, legati alla ricchezza, al denaro, al potere; e i bisogni, per l’appunto, radicali, come l’amicizia, l’amore, l’introspezione, la convivialità e il gioco. Se i primi hanno una natura quantitativa impossibile da appagare, i secondi sono invece qualitativi. Mai rinnegata nè disconosciuta, questa intuizione si è rivealta anticipatrice dell’approdo di Ágnes Heller al pensiero liberal-democratico-socialista. Nei suoi scritti più recenti, alcuni hanno addirittura notato preoccupanti punte di neoconservatorismo, attribuendone l’origine agli eventi dell’11 settembre 2001...
Il fatto che la stampa filogovernativa si scagli con tanta violenza su questa ottantunenne ipermoderata la dice lunga sulla gravità della situazione in Ungheria. In un appello rivolto all’Unione Europea, filosofi del calibro di Jürgen Habermas e di Julian Nida-Rümelin hanno scritto: «Siamo preoccupati per la sorte dei colleghi ungheresi, in senso sia politico che professionale. Ágnes Heller, Mihaly Vajda e Sandor Radnoti sono al centro del conflitto, per aver criticato pubblicamente la discutibile legge sui media voluta dal primo ministro Orbán. […] Ágnes Heller, che nella Repubblica federale tedesca è stata insignita del Premio Lessing e del Hannah-Arendt-Preis, e lo scorso anno, durante una solenne cerimonia, ha ricevuto dall’Istituto Goethe di Weimar la “medaglia di Goethe”, ha sporto denuncia penale contro il giornale Magyar Nemzet per le volgarità pubblicate contro di lei. Facciamo quindi appello alla Commissione della Ue affinché rompa gli indugi e proceda finalmente a un esame giuridico della legge ungherese sui media, anche sotto il profilo della prassi adottata dal governo e dalle autorità ungheresi, con particolare riguardo al modo in cui vengono trattati gli scienziati e gli intellettuali critici nei confronti del regime».
Mai come in questo momento, in Ungheria e altrove, paiono profetiche le parole che proprio Ágnes Heller ebbe a scrivere sulla libertà, sul rischio di perderla e sulla necessità di difenderne lo spirito: «La libertà è gravosa, si accompagna a gravi responsabilità, è difficile, come sostiene Lévinas. La libertà non promette immediata soddisfazione dei desideri, felicità e nemmeno sicurezza personale. Caino era libero di scegliere tra il bene e il male, e scelse il male. Il popolo di Israele abbandonò il Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù e al suo posto adorò il Vitello d’oro. Gesù di Nazareth fu crocifisso, Socrate bevve la cicuta. Dopo aver prosperato per breve tempo, le libere repubbliche decadono e trionfa il dispotismo. Ma mostrare la sconfitta non deve significare pessimismo. Se solleviamo la questione se ne valeva o se ne vale la pena, tutte le grandi narrazioni sulla libertà forniscono una risposta inequivocabile: comunque ne valeva assolutamente la pena. Vale la pena avere solo le cose che si possono perdere. La vita è preziosa perché la mia vita e quella dei miei cari andranno necessariamente perdute. La libertà è preziosa perché la mia libertà e quella dei miei cari si possono perdere. Ma non necessariamente».

Manuel Lambertini

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