mercoledì 3 ottobre 2012

Novant’anni con La Capria

Novant’anni e non sentirli. Tanti ne sono trascorsi da quel 3 ottobre 1922 in cui Napoli dette alla luce uno dei suoi figli più illustri, e dei più discreti. Il grande scrittore Raffaele La Capria può tagliare l’ambito traguardo in buona salute e perfetta lucidità: «Ho sempre pensato che si diventasse vecchi a 60 anni, e ancora adesso considero tali i sessantenni. Io mi sento più giovane di loro e anche più giovane di me stesso a 80 anni, quando pubblicai L’estro quotidiano». Sei anni fa, un lieve infarto e un intervento al cuore conclusosi con l’applicazione di tre by-pass hanno segnato per lui una rinascita anche letteraria, l’inizio del recupero di due decenni «perduti» tra distrazioni e «false partenze»… «Ho perso, non proprio nel senso di averli sprecati, dieci anni fra il primo e il secondo libro, e altrettanti tra il secondo e il terzo. [...] Nei vent’anni perduti ho scritto articoli per il “Corriere” e solo due libri; per uno che di mestiere fa lo scrittore non sono molti. [...] E così ancora oggi mi domando che scrittore sarei, che persona sarei, se avessi lavorato, se non mi fossi lasciato sfuggire quei vent’anni dalle mani, come fossero sabbia o acqua di mare: avrei scritto altri libri? O libri migliori? Poi penso che tutto quello che ci accade ci doveva accadere, e che in un certo qual modo anche quei vent’anni sprecati fanno parte della mia formazione».
Il suo primo libro, Un giorno d’impazienza, venne pubblicato nel 1952 da Bompiani, su intercessione di Alberto Moravia. Il secondo, Ferito a morte (1961), vinse il Premio Strega ed entrò a pieno diritto tra i capolavori della letteratura italiana del Novecento; anticipò le sperimentazioni stilistiche e strutturali della neoavanguardia e fu fonte di ispirazione per generazioni di scrittori. «Il suo libro mi ha incantato», scrisse in una lettera a La Capria l’editore Valentino Bompiani. Il romanzo, avrebbe poi annotato Claudio Magris, «fonde perfettamente natura e storia, coerenza strutturale della costruzione narrativa (esperta della più rigorosa e sperimentale tecnica romanzesca) e impalpabile poesia del fluire della vita,  percezione sensibile e critica politica, l’istante atemporale dell’epifania esistenziale e la storicità (entrambi incarnati in una Napoli mitica e reale, scevra di ogni oncia di grasso sentimentalpittoresco), pessimismo e felicità, compresenti nel cuore come nella seduzione del mare, fisicità immediata e riflessione». A Ferito a morte seguì, nel 1973, Amore e psiche, da cui egli stesso avrebbe poi preso le distanze, volgendo il proprio stile ad una semplicità dalle profonde implicazioni emotive ed esistenziali. Lo «stile dell’anatra», un approccio ampiamente sviluppato nei lavori successivi: l’anatra che fila leggera sulla superficie dell’acqua, e che nasconde la fatica delle sue zampette annaspanti…
Stabilitosi a Roma dopo aver soggiornato a Parigi e a Londra, La Capria era frattanto divenuto condirettore di «Nuovi Argomenti» e collaboratore del «Corriere della Sera», lavorando anche alla redazione di radiodrammi per la Rai. Numerose inoltre le sue traduzioni: da Sartre a Eliot, da Cocteau a Orwell… In coincidenza con la pubblicazione di Ferito a morte, aveva fatto la sua prima incursione nel mondo del cinema come co-sceneggiatore di Leoni al sole, esordio alla regia di Vittorio Caprioli. Si sarebbero poi avvalsi della sua collaborazione Luigi Comencini, Lina Wertmüller e Alberto Negrin, oltre agli amici di sempre Francesco Rosi (Le mani sulla città, Uomini contro, Cristo si è fermato a Eboli) e Giuseppe Patroni Griffi, come lui formatisi al liceo Umberto I di Napoli, insieme ad Antonio Ghirelli e a Giorgio Napolitano. Al 1966 risalgono invece le sue nozze con Ilaria Occhini: dalla loro unione sarebbe nata Alexandra, anch’ella attrice.
Raffaele La Capria, Francesco Rosi e Antonio Ghirelli
Nel 1974 venne dato alle stampe False partenze, che segnò l’inizio di una nuova e più prolifica stagione della sua carriera letteraria. Fu quindi la volta di titoli come Fiori giapponesi (1979), L’armonia perduta (1986) e La neve del Vesuvio (1988). Nel 1990 raccolse gran parte degli articoli pubblicati negli anni sul «Corriere» in Letteratura e salti mortali. La sua identità partenopea, tanto forte quanto aperta alle contaminazioni, permeò lavori come Capri e non è più Capri (1991),  L’occhio di Napoli (1994) e Napolitan Graffiti (1998), mentre il suo stile sempre più marcatamente colloquiale finì per trasformare i ricordi personali in oggetto privilegiato di narrazione, senza disdegnare la forma vera e propria dell’intervista-confessione: è il caso di Letteratura e liberta. Conversazioni con Emanuele Trevi (2002) e di Me visto da lui stesso. Interviste 1970-2001 sul mestiere di scrivere (2002), a cui può aggiungersi il documentario Chiara Gamberale intervista Raffaele la Capria (2011) di Pierluigi De Pasquale.
Nel 2003, in leggero ritardo sul suo ottantesimo compleanno, la Mondadori ne raccolse le opere in un Meridiano. Tra tutte, all’autore è rimasta nel cuore La mosca nella bottiglia. Elogio del senso comune (1996), una presa di posizione contro il «concettualismo degradante di massa», la dilagante tendenza ad astrarre concetti dalla realtà fino a nascondere la realtà stessa. Oggi, per celebrare i suoi novant’anni, Mondadori pubblica Doppio misto, che riunisce cinque racconti già editi ma qui legati da un fil rouge di perversioni, passioni, silenzi, dolore. Un La Capria ancora perplesso, ancora incantato dalla vita. E ancora capace di essere «profondamente superficiale».

Manuel Lambertini

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