sabato 22 dicembre 2012

L’ultima (gira)volta del «Gatto Felix»

E dunque ha lasciato. Per l’ammirazione di tutti e il sollievo di molti. Nel suo ultimo discorso a Montecitorio, salutato da ripetuti applausi e da una standing ovation finale, Walter Veltroni ha offerto un conciso ma esauriente saggio della sua visione «riformista», corredata dai rifermienti politici di sempre e dai migliori auspici per il futuro. Il dovere di «non aver paura della paura», di Roosevelt. Il bisogno di una «rivoluzione democratica» alla maniera di Piero Gobetti, che preluda «a nuove libertà, a nuovi diritti, a nuove opportunità per esseri umani nuovi». Il «non siamo contro la ricchezza, siamo contro la povertà» di Olof Palme. La lotta contro «tutti i conservatorismi», e contro la corruzione e l’illegalità, «che sono – ce ne vogliamo rendere conto? – il primo problema italiano». Il «dichiarare una guerra alle mafie e a ogni illegalità, costi quel che costi», come precondizione perché l’Italia riparta. «E bisogna unire i produttori, capire che c’è una comunità di destino tra il piccolo imprenditore e il suo operaio, che insieme cresceranno e insieme perderanno; e questo significa più produttività e salari più civili, uno Stato amico che anche fiscalmente colpisca i furbi e premi chi investe, chi rischia e fatica per creare ricchezza. Ricchezza che sia equamente distribuita». E poi il mantra, immancabile, del meno-stato-più-mercato: «Lo Stato e le istituzioni devono essere lievi, gestire di meno e preoccuparsi di promuovere e garantire i diritti, e poi il bello della nostra società, la scuola, la ricerca, la cultura, l’ambiente, il nostro talento, ciò che nessuno potrà mai riprodurre o delocalizzare». Quindi la gratitudine per Napolitano e per Monti. E infine la necessità di superare quel clima di odio e di immobilismo per il quale «Berlusconi porta più responsabilità di ogni altro italiano».
Ascoltandolo, anche nei suoi exploit più condivisbili, non può non venire in mente il soprannome appioppatogli da Cossiga, quello di «Gatto Felix», di «riformista del nulla» che «capisce molto di cinema ma poco di politica». Lui, discepolo di Pasolini e adorante allievo di Vittorio Foa, fece convergere popolari e postcomunisti nel nuovo Partito Democratico, incastonando quest’ultimo in un cielo a stelle e strisce che rinnegava e umiliava la tradizione socialdemocratica europea. Lui che per primo ebbe il merito di esternare il proprio entusiasmo per Obama, sfidando tutti i sondaggi e contro ogni razionale previsione, credette forse di poter essere il protagonista di un’analoga esperienza italiana. E fallì. E negli anni in cui fu segretario del Pd, dall’ottobre 2007 al febbraio 2009, guidò la marcia funebre di una sinistra senza bussola, seguito da cartelli con slogan all’amerikana e da un corteo di opportunisti e baciapile rifugiatisi sotto l’insegna della «fine delle ideologie». Gli va tuttavia reso l’onore delle armi, e riconosciuto il merito di aver tentato di immaginare il futuro. Degli anni Settanta, da lui poi rigettati in blocco, aveva assorbito meglio di molti altri quel desiderio di «fantasia al potere» che più simboleggia i sogni e le inquietudini della sua generazione.
Ora la sua carriera parlamentare è terminata. Dalla prossima legislatura, Veltroni si occuperà di progetti umanitari a favore dell’Africa, dove da anni dice di aver lasciato il cuore. E avrà più tempo da dedicare alla scrittura. Molti dei suoi romanzi, del resto, hanno già ottenuto un buon successo di pubblico, oltre ai giudizi lusinghieri della critica e di tutta l’elite letteraria italiana. Ne lessi uno anch’io, un paio di anni fa: Quando cade l’acrobata, entrano i clown (Einaudi, 2010), brevissimo e toccante, sulla tragedia dell’Heysel. Ne rimasi favorevolmente colpito, e riuscii finalmente a deporre le ostilità nei suoi confronti. E mi accorsi di aver sempre saputo che il «Gatto Felix», in fondo, aveva solo sbagliato mestiere.


Manuel Lambertini

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