domenica 5 agosto 2012

Cinquant'anni senza Marilyn

A Truman Capote aveva confidato la volontà di essere cremata, e il desiderio di vedere le proprie ceneri disperse nell’oceano. E proprio quel geniale, autodistruttivo Capote, in Musica per camaleonti, l’avrebbe poi descritta come «una bellissima bambina», lasciando inviolate tutte le emozioni con cui la diva più famosa del mondo aveva conquistato anche gli spettatori meno impressionabili.
Ma non sono le onde del mare a custodire i resti di Norma Jeane Baker, e a cullarli nel loro eterno infrangersi contro le scogliere della West Coast. Marilyn Monroe – questo il nome con cui si fece conoscere, a partire dalla metà degli anni ’40 – riposa al Westwood Village Memorial Park Cemetery, in quella Los Angeles che il 1° giugno 1926 le aveva dato i natali. La sua vita si spegneva la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, dopo un’overdose di barbiturici che fu subito liquidata come «probabile suicidio».
Con questa tragica uscita di scena, all’età di trentasei anni, il mito di Marilyn veniva consegnato ad un’immortalità che forse era già inscritta nel suo triste destino. Lei che fin da piccola, con occhi sognanti, osservava le impronte dei divi di Hollywood stampate sul cemento dinanzi al Chinese Theatre. Lei che, orfana di padre e mai amata dalla madre, raccontava agli amichetti di essere figlia di Clark Gable, senza sapere che col Rhett Butler di Via col vento avrebbe condiviso il set dell'ultimo film, Gli spostati (1961).
Nella sua folgorante carriera, tanti successi e tante sofferenze. Numerosi amanti, anche celebri, e tre matrimoni – con James Dougherty (1942-1946), Joe Di Maggio (1954), Arthur Miller (1956-1961) –, quattro se si conta anche quello celebrato quasi per gioco a Tijuana, nell’ottobre 1952, con l’amico Robert Slatzer. Una trentina le pellicole a cui prese parte, per la regia dei più importanti cineasti dell’epoca: da John Huston a Billy Wilder, da Howard Hawks a George Cukor, passando per Jean Negulesco, Henry Hathaway, Laurence Olivier. Il ruolo di «Zucchero» nel capolavoro di Wilder, A qualcuno piace caldo (1959), le valse un Golden Globe. E titoli come Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde, Come sposare un milionario (1953), Quando la moglie è in vacanza (1955), Il principe e la ballerina (1957) segnarono la sua incontenibile, definitiva irruzione nel firmamento delle stelle di Hollywood.
Non fu infatti la prematura scomparsa a trasformarla in leggenda. Essa creò, semmai, una seconda leggenda, nella quale cominciarono ad aggirarsi – come comparse, ma niente di più – tutti i protagonisti dell’America di allora: John e Robert Kennedy, la mafia, la Cia, l’Fbi con il suo potente direttore J. Edgar Hoover, gli intellettuali di sinistra e dalle pericolose simpatie comuniste… Una leggenda dentro la leggenda, alimentata dai più inquietanti sospetti circa la fine di un’attrice instabile, che poteva essere entrata in possesso di informazioni imbarazzanti.
Marilyn ritratta da Bert Stern (1962)
Perchè Marilyn Monroe era molto più che un’attrice fra le tante, come ebbe a scrivere il grande Norman Mailer nella «biografia romanzata» che dedicò alla diva nel 1973: «Poteva anche avere la voce modesta e la carne morbida della ragazza della porta accanto, ma sullo schermo era più grande che nella vita. Già agli inizi degli anni Cinquanta, l’era di Eisenhower, Marilyn prometteva che sarebbe venuto un tempo in cui il sesso sarebbe stato facile, dolce e democratico per tutti. Il suo stomaco, libero da corpetti o guaine, sporgeva in un pieno ventre di donna, terribilmente inelegante, un’affermazione di un ventre frequentemente inumidito di seme – quel ventre che non avrebbe mai avuto un bambino – e i suoi seni puntavano boccioli e germogli di carne sulla faccia di molti sudati patiti del cinema. Era una cornucopia, dispensatrice di sogni mielati». Un abbagliante sogno erotico collettivo, dunque, inconsapevole anticipazione di una rivoluzione dei costumi che si sarebbe realizzata solo dopo la sua morte: «Al suo apogeo, l’eco della sua piccola e perfetta creazione raggiunse l’orizzonte della nostra mente. Noi la udimmo parlare con quella flebile voce tintinnante così simile a un campanellino, ed esso suonò dopo la sua morte per tutto quel decennio degli anni Sessanta che lei aveva contribuito a creare, attraverso le sue esaltazioni, i suoi spettri e il suo centro magico. [...] Nella sua ambizione, così faustiana, e nella sua ignoranza delle dimensioni della cultura, nella sua liberazione e nei suoi desideri tirannici, nelle sue nobili aspirazioni democratiche intimamente contraddette dal sempre più ampio stagno del suo narcisismo (dove ogni amico o schiavo doveva bagnarsi), possiamo vedere lo specchio ingrandito di noi stessi, la nostra generazione esagerata e ora decisamente sconfitta; sì, essa condusse una ricognizione attraverso gli anni Cinquanta, e alla sua morte ci lasciò un messaggio: “Dateci dentro, ragazzi!”. Ora è lo spettro degli anni Sessanta».
Ebbene, è trascorso mezzo secolo da quella notte d’agosto in cui Marilyn lasciò la vita. A salutare questo anniversario, insieme ad un film con un’acclamatissima Michelle Williams, si sono ammassate decine e decine di pubblicazioni – tra ristampe e opere inedite – su quella che è ancora celebrata come «la donna più bella del mondo». È stata finalmente tradotta in italiano l’opera di Mailer appena citata, Marilyn (Dalai). E oltre al libro da cui è stato tratto il recente film, La mia settimana con Marilyn (Mondadori) di Colin Clark, è d’obbligo segnalare il romanzo noir di J. I. Baker, Il diario segreto di Marilyn (Rizzoli), Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe (Rizzoli) di Keith Badman e La donna più bella del mondo (Aliberti) di Andrea Carlo Cappi, nonché i memoir fotografici di Lawrence Schiller, Andrè De Dienes e Bert Stern. Quest’ultimo, in particolare, ebbe in sorte di immortalarla solo sei settimane prima della scomparsa, in un servizio fotografico entrato nella storia. Vi è ritratta una fragile e bellissima bambina, assopitasi cinquant’anni fa. Una stella che non si spegne.

Manuel Lambertini

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