sabato 11 gennaio 2014

Il mistero del falco

Ariel Sharon
(Kfar Malal, 26 febbraio 1928 - Ramat Gan, 11 gennaio 2014)
L’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon è morto dopo aver trascorso gli ultimi otto anni in uno stato vegetativo. La cessazione delle sue funzioni vitali, in fondo, ha solo fatto da suggello finale ad un’epoca che sembrava già lontanissima.
Nel momento dell’estremo saluto, l’immagine che ne hanno trasmesso i media internazionali e le dichiarazioni dei grandi della Terra è stata quella di «un patriota al servizio del suo Paese» (Angela Merkel) che «ha avuto il coraggio di dialogare con i palestinesi» (François Hollande), di prendere «decisioni coraggiose per il perseguimento della pace» (David Cameron). Tutti lo hanno ricordato, in definitiva, come «un falco sulla via della pace».
Ma la sua lunga parabola politica, che getta la propria ombra sull’intera storia dello Stato di Israele, è quasi uno sberleffo a tutti gli steorotipi più ricorrenti sul Medio Oriente, e alla retorica dei “falchi” e delle “colombe” in particolare. Pare che lo smantellamento degli insediamenti israeliani della Striscia di Gaza, ordinato dal suo governo nel 2005, abbia cancellato in un sol colpo ogni traccia di una vita che fino ad allora aveva avuto come stella polare il più sistematico e indiscriminato uso della forza.
Dalla strage di Sabra e Chatila del 1982 – perpetrata dai cristiano-maroniti libanesi di Elie Hobeika con la connivenza dell’esercito israeliano – alla provocatoria visita sulla Spianata delle Moschee del 2000 – che scatenò la Seconda Intifada palestinese, consegnandogli però una netta vittoria elettorale – fino all'invasione della Cisgiordania con l’«Operazione Scudo difensivo» del 2002 e alle innumerevoli esecuzioni extragiudiziarie dei leader della rivolta palestinese: si faceva vanto di essere un «guerriero» sempre con le armi in pugno, un «bulldozer» insofferente ai codici militari e alle lungaggini della politica. Persino il ritiro dalla Striscia di Gaza, alla luce della sua vicenda umana, richiede una rilettura assai diversa da quella corrente.
Ariel Sharon durante l'invasione israeliana del Libano (1982)
Comunque la si pensi sul suo conto, infatti, significherebbe disonorarne la memoria non ricordare che per Sharon il piano di disimpegno unilaterale da Gaza non era mai stato concepito come il primo passo di un processo negoziale con i palestinesi, ma come l’unica rilevante cessione territoriale che potesse essere concessa ad una autonomia palestinese completamente assoggettata alle esigenze di sicurezza dello Stato ebraico.
Fu lui stesso a dichiararlo, in un’intervista rilasciata nell'agosto 2005 a Nahum Barnea e Shimon Shiffer per il quotidiano Yedioth Ahronot: «Già nel 1988, in una riunione dei ministri del Likud, dissi che avremmo dovuto decidere a cosa rinunciare, altrimenti saremmo stati costretti a tornare ai confini del ’67». E aggiunse: «I coloni hanno fatto molto. Se non fosse stato per loro oggi non saremmo a Hebron, Gush Etzion, Ma’aleh Adumim, Ariel, Eli, Shilo e Beith El». «E la valle del Giordano?» chiesero Barnea e Shiffer, riferendosi alla fascia di insediamenti formatasi nella zona orientale della Cisgiordania che impedisce ai palestinesi l’accesso alle acque del fiume Giordano. «La aggiunga pure alla lista», rispose il premier. «Insieme alle alture che dominano la pianura costiera e l’aeroporto».
Lo smantellamento forzato degli insediamenti ebraici costruiti illegalmente sulla Striscia di Gaza, inutile dirlo, fu un duro colpo per l’opinione pubblica israeliana e per l’elettorato del Likud in particolare, ma eliminò gli ingenti costi legati alla protezione dei coloni, oscurò la parallela, inarrestabile colonizzazione della Cisgiordania e rafforzò Israele sul piano diplomatico. Viste in quest’ottica, le reazioni della comunità internazionale, che allora celebrò Ariel Sharon e che oggi lo piange, altro non sono che la consacrazione di un indubbio successo.

Manuel Lambertini

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