giovedì 17 aprile 2014

Gabo

Gabriel Garcìa Márquez (Aracataca, 6 marzo 1927 - Città del Messico, 17 aprile 2014)
Nei maggiori siti web di informazione la notizia della scomparsa di Gabriel Garcìa Márquez ha surclassato un’altra notizia, di tutt’altro tenore: la scoperta, a 500 anni luce dalla nostra galassia, di un pianeta molto simile alla Terra, che presenterebbe tutte le condizioni necessarie alla presenza di acqua allo stato liquido.
La morte di Gabo ha interrotto queste fantasticherie. È stato come se la dipartita del più grande scrittore contemporaneo, il padre del realismo magico, ci avesse riportato coi piedi per terra, ricordandoci di quante meraviglie sia ancora capace questo mondo, e di quanta generosa nobiltà possano brillare le sue anime migliori. La sua ossessione, diceva, era la solitudine dell'uomo; ha dato il meglio del proprio genio nel raccontare la solitudine del potere, quell'ebbrezza destinata a «decomporsi in raffiche di disagio» che nelle sue narrazioni viene sempre ricondotta ad una dimensione eminentemente umana.

Da Cent’anni di solitudine (1967): «Allora entrarono nella stanza di José Arcadio Buendía, lo scossero con tutte le loro forze, gli gridarono nell’orecchio, gli misero uno specchio davanti alle narici, ma non riuscirono a svegliarlo. Poco dopo, quando il falegname gli prendeva le misure per la bara, videro attraverso la finestra che stava cadendo una pioggerella di minuscoli fiori gialli. Caddero per tutta la notte sul villaggio in una tormenta silenziosa, e coprirono i tetti e ostruirono le porte, e soffocarono gli animali che dormivano all’aperto. Tanti fiori caddero dal cielo, che al mattino le strade erano tappezzate di una coltre compatta, e dovettero sgombrarle con pale e rastrelli perché potesse passare il funerale».

La pioggia di fiori gialli, da questa parte dell'oceano, non è ancora arrivata. Ma per non smettere di guardare il cielo, continueremo ad aspettarla.

Manuel Lambertini

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