domenica 9 marzo 2014

Bukowski oltre Bukowski

Charles Bukowski
(Adernach, 16 agosto 1920 - San Pedro, 9 marzo 1994)
Non c’è scrittore del XX secolo che possa vantare un saccheggio di citazioni pari a quello quotidianamente subito da Charles Bukowski. Henry Chinaski, o Hank, per gli amici. I suoi libri, riferisce il biografo Jim Christy in La sconcia vita di Charles Bukowski (Feltrinelli, 1998), sono i più rubati in tutte le biblioteche americane e canadesi. Le sue riflessioni, ironiche, sporche, amare, e le sue inimitabili imprecazioni, hanno fatto di lui l’autore americano contemporaneo più tradotto al mondo, nonché il «compagno di sbronze» ideale per milioni di persone.
Quelle frasi, è giusto ricordarlo, non sono state pensate come aforismi. Mai sarebbe passato per la testa a un tipo come Bukowski di scrivere aforismi. Sono dialoghi di romanzi, versi di poesie, o al più dichiarazioni selvaggiamente estrapolate dalle tante interviste rilasciate negli anni. Un’operazione non troppo diversa, di fatto, da quella compiuta con Il sole bacia i belli: Interviste, incontri, insulti (Feltrinelli, 2014), il libro a cura di David Stephen Calonne che Feltrinelli ha pubblicato pochi giorni fa per celebrarne il ventennale della morte.
Come spesso accade agli autori di così vasta popolarità, anche Bukowski ha i suoi detrattori eccellenti. Tra gli altri, il noto critico Dan Schneider – in rappresentanza, per la verità, di gran parte della critica ufficiale – e il cantautore australiano Nick Cave. Quest’ultimo, in un’intervista a “Rolling Stone” del 1994, alla domanda su quali opere dovessero leggere gli studenti liceali, rispose: «Dovrebbero leggere la Bibbia, dovrebbero leggere Lolita. Dovrebbero smetterla di leggere Bukowski e dovrebbero smetterla di ascoltare la gente che dice loro di leggere Bukowski».
Per tutti, Bukowski è il «vecchio sporcaccione» nichilista dedito all’alcol, al sesso e alle corse dei cavalli. E Il sole bacia i belli, nel quale lui stesso si racconta con la consueta onestà, non disattende affatto questa descrizione: «Norman Mailer ne ha sparate tante di stronzate, ma una cosa bella penso l’abbia detta: “La maggior parte degli americani trova la propria ispirazione spirituale quando è ubriaca, e io sono uno di questi americani”. Un’affermazione che io appoggio al cento per cento, ‘fanculo Il nudo e il morto. L’unica cosa è che uno deve stare attento a come mischia alcol e sesso. La cosa migliore per un uomo saggio è di fare sesso prima di ubriacarsi perché l’alcol distrae il vecchio picciolo lì in basso. Fino ad ora mi è andata piuttosto bene». (Glenn Esterly, La poesia butterata di Charles Bukowski. Taccuino di una vecchia umanità sporcacciona, “Rolling Stone”, 17 giugno 1976).
Grazie a questa nuova raccolta di interviste si può venire a conoscenza di qualche particolare in più sulla sua vita e sul suo pensiero; e trarne – come sempre, quando si tratta del vecchio Hank – un gran divertimento. Saltano agli occhi, prima di tutto, la sua unicità di scrittore, la sua voglia di isolamento unita ad un fondo di tenerezza, e la strenua resistenza che oppone a chiunque tenti di incasellarlo in questa o in quella corrente letteraria. In particolare, viene più volte rimarcata una certa ostilità per la Beat Generation.
Quando la giornalista di “High Times” Silvia Bizio, unica intervistatrice italiana della raccolta, gli chiede conto della sua assenza al Festival dei poeti di Castel Porziano, cui avrebbe dovuto partecipare nell’estate 1980, lui risponde senza giri di parole: «Non sono andato perché non mi piaceva la sfilza di poeti americani con i quali avrei dovuto tenere il reading. Non leggerei con loro neanche a Santa Monica in California; non starei neanche nella stessa stanza con loro». Appena gli viene fatto notare che in Italia la sua figura è leggendaria quanto quella di Allen Ginsberg, il suo tono si fa sarcastico: «Allen è ok, Allen non è male, sì, sono tutti bravi poeti: Gregory Corso, il ragazzo di Ginsberg [Peter Orlovsky], Joan Baez, Timothy Leary, Frank Zappa, Bob Dylan… La cultura americana non è male. La cultura americana è… credo sia arretrata anni luce. È come un corpo che trascina una coda, ma la coda è dietro al corpo e trascina la polvere».
Già nel 1975, conversando con Marc Chénetier per la “Northwest Review”, aveva chiaramente preso le distanze da Kerouak e Ginsberg: «In loro sento una certa falsità di fondo. Non mi piace nessuno di quella cricca. Facevano troppo gli amiconi fra loro. Si riunivano e facevano questo e quello, ma credo che gli artisti lo abbiano fatto per molto tempo. Riunirsi e leggere poesie e così via; ma questo mi ha sempre irritato. Mi piacciono gli uomini che ce la fanno per conto loro, senza doversi unire e stare insieme. Ero a Frisco [San Francisco], sai, in un caffè, e un tizio mi ha accompagnato a casa e ha detto: “Be’, a volte, a qualsiasi ora del giorno, li trovi lì dentro a bere caffè”. Voglio dire… diavolo!». Poi però ammetteva di non aver conservato grandi ricordi di quel periodo: «Non ne so molto. Ero immerso nei miei dieci anni alcolici all’epoca. Mi sono fermato completamente con la scrittura per dieci anni e mi sono ubriacato e basta. Mentre i beat beattavano io bevevo. Quindi non so cosa sia successo. Ho cominciato a bere – a bere sul serio… a venticinque anni e non ho mai smesso fino ai trentacinque. In quei dieci anni non ho scritto una riga».
Nato ad Adernach, in Germania, il 16 agosto 1920, si era trasferito a Los Angeles con la famiglia all’età di tre anni. Il padre era violento, la madre anaffettiva. A quattordici anni la sua faccia si era ricoperta di pustole, che gli avevano lasciato segni permanenti. Se ne era andato di casa finito il liceo, non prima di aver fatto le due migliori scoperte della sua vita: le biblioteche pubbliche e i bar. Dopo i «dieci anni alcolici» – durante i quali era sopravvissuto facendo i lavori più disparati, trovando poi un impiego stabile alle Poste – aveva cominciato ad inviare racconti e poesie ad un gran numero di piccole riviste letterarie. Nel 1967 gli era stata offerta la possibilità di tenere una rubrica settimanale su un noto giornale undergroung di Los Angeles, “Open Space”; titolo della rubrica: Taccuino di un vecchio sporcaccione. Pochi mesi prima di compiere cinquant’anni si era licenziato dalle Poste, accettando di firmare un contratto con la casa editrice Black Sparrow Press, e aveva terminato il suo primo romanzo, Post Office (1971). A seguire, una lunga serie di libri di culto, dati alle stampe a poca distanza l’uno dall’altro: Storie di ordinaria follia (1972), Compagno di sbronze (1972), Factotum (1975), Donne (1978), Shakeaspeare non l’ha mai fatto (1979) Panino al prosciutto (1982). Fino a quello che molti considerano il suo miglior pezzo di prosa: Hollywood, Hollywood! (1989), ispirato alla difficile lavorazione del film Barfly, con Mickey Rourke nel ruolo di Henry Chinaski.
«Ho i miei dubbi che a qualcuno importi ancora di quel vecchio spauracchio che è il Grande Romanzo Americano», scrive Jim Christy. «Ma sono convinto che la verità – e l’ironia – sia che Charles Bukowski, in Hollywood, Hollywood!, si è avvicinato più di chiunque altro a scriverlo».
Perché Bukowski, come sottolineava già Beniamino Placido, non è un vagabondo e basta. È un vagabondo che scrive. Con ferrea disciplina. E che prima di scrivere ha acquisito una solida conoscenza di tutta la grande letteratura, americana e non solo. Nella sua biblioteca: Dostoevskij, Nietzsche, Céline, Kafka, D. H. Lawrence, Jean Paul Sartre, Orwell, Knut Hamsun, Sinclair Lewis, Robinson Jeffers, Hemingway, John Fante, Henry Miller. Per questi e altri scrittori, a modo suo, sentiva una gratitudine smisurata. Durante i vagabondaggi o il lavoro in fabbrica – scrive ne Il capitano è fuori a pranzo (Feltrinelli, 2000) – cercava di immaginare la loro vita quotidiana, fantasticava sulle loro abitudini, sui loro vizi: «Chiunque fossero, per me gli scrittori erano una magia. Aprivano le porte in modo diverso. Al risveglio avevano bisogno di bere qualcosa di forte. La vita era maledettamente troppo per loro. Ogni giorno era come camminare sul cemento fresco. Ne facevo i miei eroi. Me ne nutrivo. L’idea che ne avevo mi sosteneva nel mio nulla. Pensare a loro era molto meglio che leggerli. […] Mi stendevo sul mio letto da affamato e pensavo a quegli uomini. La letteratura era così… Romantica. Sì».
Vedeva Dostoevskij «come uno che sbavava per le ragazzine», e ringraziava il cielo che non fosse stato fucilato per le attività sovversive condotte contro le autorità zariste. Sentiva «l’urlo dallo stomaco» di John Fante che lottava per diventare uno scrittore. Faulkner, lo vedeva «come un uomo eccentrico e dall’alito pesante». Hemingway, «come uno che si esercitava nella danza classica dietro una porta chiusa». Ma non tutti i grandi autori erano di suo gusto… «Mi ricordo che un giorno ricevetti una lettera furibonda da un tale il quale sosteneva che non avevo diritto di dire che Shakespeare non mi piace. Troppi giovani mi avrebbero creduto senza nemmeno darsi la pena di leggere Shakespeare. Non avevo diritto di affermare una cosa simile. E così via. Non gli ho mai risposto. Lo faccio adesso. Fottiti, amico. E non mi piace nemmeno Tolstoj!».
Negli ultimi anni, quando la giovane moglie Linda Lee ne aveva ormai domato gli istinti, e quando si dilettava a scrivere poesie al computer circondato dai gatti, in un’elegante villa con piscina a San Pedro, al centro dei suoi pensieri c’era soprattutto la morte. La Signora Morte, uno schianto di donna che nel suo ultimo romanzo, Pulp (1994), si rivolge all'investigatore privato Nick Belane per la ricerca di un certo Céline, e lo aiuta a rintracciare un misterioso e tanto sospirato Passero Rosso.
Prima di trovarsi faccia a faccia con il dannato uccellaccio, il 9 marzo 1994, Charles Bukowski aveva avuto il tempo di immaginare il dopo: «L’altro giorno pensavo al mondo senza di me. Il mondo va avanti a fare quel che deve. E io non ci sono. Davvero strano. Il camion della spazzatura viene a tirar su l’immondizia e io non ci sono. Oppure il giornale è sul vialetto e io non sono lì a raccoglierlo. Impossibile. Ma il peggio è che qualche tempo dopo la mia morte mi scopriranno veramente. Tutti quelli che quando ero vivo avevano paura di me o mi odiavano d’un tratto mi capiranno appieno. Le mie parole saranno ovunque. Si formeranno circoli e associazioni. Sarà nauseante. Gireranno un film sulla mia vita. Faranno di me un uomo molto più coraggioso e dotato di quanto non sia. Molto di più. Roba da far vomitare gli dei. La razza umana esagera tutto: i propri eroi, i propri nemici, la propria importanza. Stronzi. Ecco, mi sento meglio. Stramaledetta razza umana. Ecco, mi sento meglio».

Manuel Lambertini

1 commento:

  1. Un uccello azzurro - Charles Bukowski

    nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
    vuole uscire
    ma con lui sono inflessibile,
    gli dico: rimani dentro, non voglio
    che nessuno ti
    veda.

    nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
    vuole uscire
    ma io gli verso addosso whisky e aspiro
    il fumo delle sigarette
    e le puttane e i baristi
    e i commessi del droghiere
    non sanno che
    lì dentro
    c'è lui

    nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
    vuole uscire
    ma io con lui sono inflessibile,
    gli dico:
    rimani giù, mi vuoi fare andar fuori
    di testa?
    vuoi mandare all'aria tutto il mio
    lavoro?
    vuoi far saltare le vendite dei miei libri in
    Europa?

    nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
    vuole uscire
    ma io sono troppo furbo, lo lascio uscire
    solo di notte qualche volta
    quando dormono tutti.
    gli dico: lo so che ci sei,
    non essere
    triste

    poi lo rimetto a posto,
    ma lui lì dentro un pochino
    canta, mica l'ho fatto davvero
    morire,
    dormiamo insieme
    così col nostro
    patto segreto
    ed è così grazioso da
    far piangere
    un uomo, ma io non
    piango, e
    voi?


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