venerdì 29 novembre 2013

Stavolta voto Civati

Avevo giurato a me stesso che quelle dell’anno scorso sarebbero state le mie ultime primarie del Pd. Mai avrei immaginato che quella che malgrado tutto ho continuato a considerare la mia parte potesse popolarsi di figuri irritanti e indisponenti quanto i membri della destra berlusconiana. E invece le facce di bronzo dei dirigenti storici e molte delle nuove leve renziane – riciclati e voltagabbana in testa – hanno fatto sì che questo accadesse più e più volte. Dopo la mancata elezione di Prodi al Quirinale, poi, quel proposito era diventato una decisione definitiva, una certezza incrollabile. Al punto che ero arrivato a riconoscermi in un post pro-Grillo largamente diffuso sui social network, a firma di Michele Darling: «L’elettore democratico vota il meno peggio. Ma giura, giura sempre: “È l’ultima volta!”. L’elettore democratico è sempre Nanni Moretti. Il Moretti di allora, così come il Moretti […] sul palco a Napoli accanto a Bersani. Perché l’elettore democratico, quand’è sul palco, tutto sommato è felice, si limita a dei buffetti sulla guancia: “Sono qui – ha detto il regista – perché nonostante lo spot elettorale ‘Smacchiamo il giaguaro’, voterò il Pd”. L’elettore democratico è l’elettore “nonostante”».
Nel sentirmi preso in mezzo, mi ero ripromesso di non cascarci più. L’unico motivo che avrei considerato valido per mettere una croce sul simbolo del Pd, dicevo, sarebbe stata la certezza di poterne decretare l’esplosione finale. Insomma, l’epilogo degno di un partito nel quale un terzo dei rappresentanti parlamentari era stato capace di pugnalare alle spalle il proprio padre fondatore nel nome di miserabili interessi correntizi. E invece andrò a votare, alle primarie dell’8 dicembre. Anche stavolta. E voterò Giuseppe Civati.
Parte svantaggiato, Civati. Non ha alle spalle il favore dei media e dei poteri forti, di cui Renzi gode da oltre due anni. È anche inviso all’establishment del Pd di provenienza diessina, che ha ancora una certa influenza sui militanti e che è mobilitato a sostegno di Cuperlo. A differenza dell’uno e dell’altro, Civati non sembra coltivare un disegno egemonico sul partito: chiede più democrazia interna, più apertura, più possibilità di partecipazione per gli iscritti e i militanti.
Nel suo programma si possono leggere proposte come la riduzione dei componenti dell’Assemblea Nazionale e della Direzione; un bilancio completo, aperto, comprensibile, partecipato, che superi le opacità legate alla struttura federale del partito e alle fondazioni che lo sorreggono; l’adozione di meccanismi che favoriscano capillarmente la partecipazione e le occasioni di deliberazione collettiva (referendum interni e assemblee di discussione); la promozione di forme di autofinanziamento “a progetto”, in favore delle realtà periferiche.
E ho citato solo alcune delle proposte riguardanti la sua idea di partito. Perché l’8 dicembre si eleggerà il segretario del Pd, non il candidato premier del centro-sinistra. Non sono sicuro che i cittadini che si receranno alle primarie abbiano chiaro il concetto, e ho come l’impressione che il vantaggio di Renzi sia legato anche a questo equivoco… L’elezione di Renzi alla segreteria del partito comporterebbe una mutazione antropologica del Pd verso destra, come fu per il Psi di Craxi: una banda di yuppies folgorati sulla via dell’edonismo reaganiano che trovò poi la propria collocazione naturale tra le fila berlusconiane. Però non mi si dica che a non votare Cuperlo si spiana la strada al sindaco di Firenze. Pretendere che anche stavolta possa dare ascolto a questa voce sarebbe troppo. È arrivato il momento di rischiare, punto e basta. Ne riparleremo al secondo turno, se ci sarà.
Anche perché a differenza di Cuperlo, Pippo Civati parla chiaro. E ha un’abitudine sconveniente: prende posizione prima che le decisioni vengano assunte. Prima che i giochi si chiudano. Mai è capitato di sentirlo lamentare le conseguenze di un dibattito a cui si fosse guardato dal prendere parte, per meglio trarre vantaggio dai fallimenti altrui. Per la Presidenza della Repubblica aveva votato Rodotà con il Movimento 5 Stelle, esponendosi poi a favore di Prodi. Si era detto contrario alle larghe intese prima che venissero stipulate, non dopo. E senza dilettarsi in stucchevoli esercizi ricattatori. Aveva chiesto le dimissioni della Cancellieri prima del voto parlamentare, e non – come ha fatto furbescamente Renzi – a giochi ormai conclusi. Un partito guidato da lui potrebbe quantomento gettare le basi di un’intesa con la società civile fondata sulla lealtà e su un confronto finalmente aperto.
Ma il sindaco Renzi viene presentato in ogni servizio giornalistico come «il favorito». Scalfari lo ha recentemente definito «un grande venditore di se stesso», «un avventuriero» di talento. Un formidabile free-rider politico, dovremmo aggiungere, funambolico, capace come nessun altro di sfruttare le opportunità del momento e di pescare voti a destra a colpi di battute e di argomenti vuoti. Non risponde alle domande che gli vengono fatte, ma a quelle che vorrebbe sentirsi fare.
Che la politica si faccia anche così è convinzione ormai diffusa. E forse possiamo solo attaccarci alla speranza che Renzi voglia dirottare verso una politica di centro-sinistra i voti raccolti a destra. Ovvero la speranza che stia prendendo per i fondelli un corpo elettorale abituato a premiare i grandi illusionisti. Ma veniamo da un ventennio in cui la politica è stata fatta solo così, e in Renzi non è dato vedere proprio nessun cambiamento. Ancor più inquietanti appaiono poi le sue vaghe proposte politiche, tutte orientate allo smantellamento del welfare, alla flessibilità selvaggia del lavoro, all’umiliazione delle organizzazioni sindacali e dei piccoli pensionati. Altro elemento di continuità con un passato che si vorrebbe avviare alla rottamazione.
Insomma, chi potrebbe ricordare Matteo Renzi se non il Berlusconi del ‘94? Forse a questa domanda retorica c’è una risposta. Però dobbiamo allargare lo sguardo all’Europa, oltremanica. Il nostro uomo è Tony Blair. The Boy. Il leader del New Labour, l’ex premier britannico alfiere della Terza Via. E questo ci consente di chiudere con una nota di colore. Perché è fresca di stampa la notizia che Rupert Murdoch abbia divorziato dalla moglie Wendi Deng a causa di una love story che lei avrebbe intrattenuto proprio con Blair. Inutile dire che l’irresistibile ascesa del giovane Tony dovette molto alla sua amicizia con Murdoch, e al sostegno espressogli dai tabloid di Murdoch durante tutte le tre campagne elettorali che lo videro vincitore. Il marketing, si sa, è importante. A ciascuno il suo tycoon. Il guru di Blair era Murdoch, lo Squalo”; quello di Renzi si chiama Giorgio Gori: già dirigente Fininvest, ex direttore di Canale 5, fondatore della Casa di Produzione Televisiva Magnolia – quella del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi, per intenderci – e attuale marito di Cristina Parodi. Arriviamo sempre con vent’anni di ritardo, noi italiani. E siamo sempre più sfigati degli altri.

Manuel Lambertini

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