domenica 18 agosto 2013

L'uomo nell'ombra





«Senza dubbio in Polanski si avverte un fascino per l’oscurità del mondo, si percepisce una ricerca in questo senso. Anche la sua vita testimonia questo fascino e questa ricerca».

Krzysztof Zanussi





«Ogni volta che sono felice ho un terribile presentimento». Ci sono tutti gli ottant'anni di Roman Polanski in questa battuta tagliente e amara, suggello solo apparente di una definitiva pacificazione interiore. Ottant'anni di trionfi e di miserie, di fughe e di ritorni. Una vita spesa a regalare film indimenticabili e a superare immense tragedie.
Al secolo Rajmund Roman Thierry Liebling, nacque a Parigi nel 1933 da una famiglia ebraica. Nel 1936 si trasferì in Polonia con i genitori, preoccupati per il crescente antisemitismo della Francia di quegli anni. Trascorse l’infanzia nel ghetto di Cracovia, e sfuggì ai rastrellamenti nazisti. Il padre sopravvisse al campo di concentramento di Mauthausen, la madre morì ad Auschwitz: ancora oggi Roman si commuove parlando di lei a Laurent Bouzerau, autore del documentario Roman Polanski: A Film Memoir.
Mosse i primi passi nel mondo del cinema grazie ad Andrzej Wajda, per il quale recitò in film come Generazione, Lotna, Ingenui perversi e Samson. Nel 1959 si diplomò alla Scuola Nazionale di Cinema di Lodz e convolò a nozze con l’attrice Barbara Lass: un «incosciente matrimonio giovanile» che finì nel 1962. Nello stesso anno, dopo alcuni apprezzati cortometraggi, realizzò Il coltello nell’acqua, un lungometraggio scritto a quattro mani con Jerzy Skolimowsky che gli valse un’immediata notorietà internazionale e la nomination all’Oscar per il miglior film straniero.
Lasciò la Polonia per la Francia, per trasferirsi poi in Ighilterra. Qui la sua carriera proseguì con Repulsion (1965), in cui diresse una giovanissima Catherine Deneuve, Cul-de-sac (1966) e Per favore non mordermi sul collo (1967): quest’ultimo ebbe come protagonista femminile la bellissima attrice americana Sharon Tate, che un anno dopo sarebbe diventata la sua seconda moglie.
Del 1968 è l’acclamatissimo Rosemary’s Baby, ancora oggi una pietra miliare dell’horror, che addensò su di sé una nube di inquietanti presagi: il Dakota, il condomio di Central Park dove fu ambientata la vicenda, è lo stesso al cui ingresso sarebbe stato ucciso John Lennon nel 1980; e alcuni spettatori giurarono di aver visto nella scena finale l’immagine del diavolo, benché il regista abbia sempre negato di averla girata.
Ma ogni leggenda metropolitana impallidisce se confrontata con ciò che avvenne l’anno successivo nella sua villa di Bel Air, e in sua assenza, quando la setta satanica di Charles Manson torturò e uccise la moglie Sharon Tate, all’ottavo mese di gravidanza, e gli amici che erano con lei. Una notte di crudeltà aveva posto fine al periodo più felice della sua vita. «Per la prima volta nella mia vita», aveva detto ad un giornalista poco tempo prima, «sento i giovani parlare d’amore e di pace e credo che siano realmente convinti di poter mettere in pratica le loro idee». E a Sharon, anche negli anni successivi, non smetterà mai di rivolgere parole d’amore: «Era la dolcezza in persona, con tutti e con tutto – persone, animali, ogni cosa. Non è facile descrivere il suo carattere. Era assolutamente buona, l’essere umano più dolce che abbia mai incontrato, con una pazienza estrema. Vivere con me era una prova della sua pazienza, perché starmi vicino deve essere un incubo».
Dopo mesi di solitudine poté risollevarsi dal trauma solo realizzando l’adattamento di una tragedia shakespeariana, il Macbeth (1971). Fu poi la volta di Che? (1972), girato nella villa di Carlo Ponti ad Amalfi, e del ben più celebre Chinatown (1974), che ebbe undici nomination agli Oscar. Con L’inquilino del terzo piano (1976), del quale è anche attore protagonista, terminò poi la “trilogia dell’appartamento” iniziata con Repulsion e Rosemary’s Baby.
Nel 1977, un altro drammatico evento, dagli strascichi più che trentennali. Un rapporto sessuale con una ragazzina di quasi quattordici anni, Samantha Geimer, con cui stava realizzando un servizio fotografico per Vogue, gli costò il carcere e un’accusa di violenza sessuale, poi ridotta a «relazione extraconiugale con persona minorenne». Scontò 42 giorni di detenzione nel carcere di massima sicurezza di Chino; ma quando il giudice Rittenband ritirò la sentenza con cui gli aveva concesso il pagamento di un’ammenda e gli arresti domiciliari, riparò a Londra, per poi stabilirsi a Parigi. Ma il fantasma di quella brutta storia sarebbe improvvisamente ricomparso nel settembre 2009, quando Polanski fu arrestato in Svizzera a seguito di una domanda di estradizione inoltrata dagli Stati Uniti: la richiesta venne respinta dalle autorità elvetiche nel luglio 2010, e lui fu definitivamente rilasciato dopo aver trascorso mesi agli arresti domiciliari nel suo chalet di Gstaad. In quel periodo la stessa Geimar ricordò di averlo perdonato: «Penso che sia dispiaciuto, penso che lui sappia che era sbagliato. Non credo che sia un pericolo per la società. Non credo ci sia il bisogno di rinchiuderlo per sempre».
Negli anni successivi a quell’episodio, tuttavia, riuscì ad innamorarsi di nuovo, stavolta della protagonista di Tess (1979) Natassja Kinski, e a girare il divertente Pirati (1986) con Walter Matthau. Ma l’incontro con la donna della sua vita sarebbe avvenuto due anni più tardi, sul set di Frantic (1988): la modella francese Emmanuelle Seigner, di trentatré anni più giovane, divenne la sua terza moglie, e gli fu musa ispiratrice per pellicole come il discusso Luna di fiele (1992) e La nona porta (1999), fino all’ultimo Venere in pelliccia (2013). Ancora oggi, a quarantasette anni, è tra le donne più belle del mondo, e ha trascorso al fianco di Polanski più di metà della propria vita.
«Ti sei dato una calmata o ti sei solo risposato?», gli chiese una volta Sydne Rome, l’attrice protagonista di Che?, nel ritrovarlo a molti anni di distanza dal loro ultimo incontro. Lui rispose con un sorriso. Ma una delle sue frasi più famose avrebbe potuto parlare al suo posto: «Ci sono due cose al mondo che mi piacciono veramente. La seconda è girare un film…».
Dalla Seigner ha avuto due figli, Morgane ed Elvis, ai quali dedicò Oliver Twist nel 2005. Chi invece si è spinto a chiedergli quale fosse il suo capolavoro ha ricevuto una risposta secca: Il pianista (2002), tratto dall’autobiografia di Wladyslaw Szpilman, perché «racconta la mia vita». Un’opera che è già parte della storia del cinema, grazie anche ad uno straordinario Adrien Brody, e per la quale attore e regista furono premiati con l’Oscar.
Non sono molti gli artisti che al pari di Polanski rendano così difficile l’identificazione di un tema ricorrente, di una magnifica ossessione, di una cifra minima che accomuni le diverse opere. E ammesso che vi sia, tale elemento è da ricercare in quel «fascino per l’oscurità del mondo» rilevato dal suo illustre connazionale Krzysztof Zanussi, in una visione dei rapporti umani crudamente realistica – ben esemplificata da Carnage (2011) – che tocca vette di particolare brutalità quando si imbatte in vicende dalle chiare implicazioni politiche – come in La morte e la fanciulla (1994) e L’uomo nell’ombra (2010).
Ma ora Roman Polanski può tagliare il traguardo degli ottant'anni in condizioni di relativa serenità. E con lo sguardo rivolto ad un nuovo progetto. D., un film sul caso Dreyfus, avrà tutti gli elementi della più sordida spy story: «Lo spettacolo della caccia alle streghe contro le minoranze, la paranoia per la sicurezza, i tribunali militari segreti, le agenzie d'intelligence al di là di ogni controllo, le operazioni governative di insabbiameno, la stampa avida di notizie». È insomma esplicito l’intento di «mostrare le evidenti connessioni con quello che accade nel mondo di oggi». Auguri...

Manuel Lambertini

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