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Charles Bukowski
(Adernach, 16 agosto 1920 - San Pedro, 9 marzo 1994) |
Non c’è scrittore del XX secolo
che possa vantare un saccheggio di citazioni pari a quello quotidianamente
subito da Charles Bukowski. Henry Chinaski, o Hank, per gli amici. I suoi
libri, riferisce il biografo Jim Christy in La
sconcia vita di Charles Bukowski (Feltrinelli, 1998), sono i più rubati in
tutte le biblioteche americane e canadesi. Le sue riflessioni, ironiche,
sporche, amare, e le sue inimitabili imprecazioni, hanno fatto di lui l’autore
americano contemporaneo più tradotto al mondo, nonché il «compagno di sbronze»
ideale per milioni di persone.
Quelle frasi, è giusto
ricordarlo, non sono state pensate come aforismi. Mai sarebbe passato per la
testa a un tipo come Bukowski di scrivere aforismi. Sono dialoghi di romanzi,
versi di poesie, o al più dichiarazioni selvaggiamente estrapolate dalle tante
interviste rilasciate negli anni. Un’operazione non troppo diversa, di fatto,
da quella compiuta con Il sole bacia i
belli: Interviste, incontri, insulti
(Feltrinelli, 2014), il libro a cura di David Stephen Calonne che Feltrinelli
ha pubblicato pochi giorni fa per celebrarne il ventennale della morte.
Come spesso accade agli autori di
così vasta popolarità, anche Bukowski ha i suoi detrattori eccellenti. Tra gli
altri, il noto critico Dan Schneider – in rappresentanza, per la verità, di
gran parte della critica ufficiale – e il cantautore australiano Nick Cave.
Quest’ultimo, in un’intervista a “Rolling Stone” del 1994, alla domanda su
quali opere dovessero leggere gli studenti liceali, rispose: «Dovrebbero
leggere la Bibbia,
dovrebbero leggere Lolita. Dovrebbero
smetterla di leggere Bukowski e dovrebbero smetterla di ascoltare la gente che
dice loro di leggere Bukowski».
Per tutti, Bukowski è il «vecchio
sporcaccione» nichilista dedito all’alcol, al sesso e alle corse dei cavalli. E
Il sole bacia i belli, nel quale lui
stesso si racconta con la consueta onestà, non disattende affatto questa
descrizione: «Norman Mailer ne ha sparate tante di stronzate, ma una cosa bella
penso l’abbia detta: “La maggior parte degli americani trova la propria
ispirazione spirituale quando è ubriaca, e io sono uno di questi americani”.
Un’affermazione che io appoggio al cento per cento, ‘fanculo Il nudo e il morto. L’unica cosa è che
uno deve stare attento a come mischia alcol e sesso. La cosa migliore per un
uomo saggio è di fare sesso prima di ubriacarsi perché l’alcol distrae il
vecchio picciolo lì in basso. Fino ad ora mi è andata piuttosto bene». (Glenn
Esterly, La poesia butterata di Charles
Bukowski. Taccuino di una vecchia umanità sporcacciona, “Rolling Stone”, 17
giugno 1976).
Grazie a questa nuova raccolta di
interviste si può venire a conoscenza di qualche particolare in più sulla sua
vita e sul suo pensiero; e trarne – come sempre, quando si tratta del vecchio
Hank – un gran divertimento. Saltano agli occhi, prima di tutto, la sua unicità
di scrittore, la sua voglia di isolamento unita ad un fondo di tenerezza, e la
strenua resistenza che oppone a chiunque tenti di incasellarlo in questa o
in quella corrente letteraria. In particolare, viene più volte rimarcata una
certa ostilità per la
Beat Generation.
Quando la giornalista di “High
Times” Silvia Bizio, unica intervistatrice italiana della raccolta, gli chiede
conto della sua assenza al Festival dei poeti di Castel Porziano, cui avrebbe
dovuto partecipare nell’estate 1980, lui risponde senza giri di parole: «Non
sono andato perché non mi piaceva la sfilza di poeti americani con i quali
avrei dovuto tenere il reading. Non leggerei con loro neanche a Santa Monica in
California; non starei neanche nella stessa stanza con loro». Appena gli viene
fatto notare che in Italia la sua figura è leggendaria quanto quella di Allen
Ginsberg, il suo tono si fa sarcastico: «Allen è ok, Allen non è male, sì, sono
tutti bravi poeti: Gregory Corso, il ragazzo di Ginsberg [Peter Orlovsky], Joan
Baez, Timothy Leary, Frank Zappa, Bob Dylan… La cultura americana non è male.
La cultura americana è… credo sia arretrata anni luce. È come un corpo che
trascina una coda, ma la coda è dietro al corpo e trascina la polvere».
Già nel 1975, conversando con
Marc Chénetier per la “Northwest Review”, aveva chiaramente preso le distanze
da Kerouak e Ginsberg: «In loro sento una certa falsità di fondo. Non mi piace
nessuno di quella cricca. Facevano troppo gli amiconi fra loro. Si riunivano e
facevano questo e quello, ma credo che gli artisti lo abbiano fatto per molto
tempo. Riunirsi e leggere poesie e così via; ma questo mi ha sempre irritato.
Mi piacciono gli uomini che ce la fanno per conto loro, senza doversi unire e
stare insieme. Ero a Frisco [San Francisco], sai, in un caffè, e un tizio mi ha
accompagnato a casa e ha detto: “Be’, a volte, a qualsiasi ora del giorno, li
trovi lì dentro a bere caffè”. Voglio dire… diavolo!». Poi però ammetteva di
non aver conservato grandi ricordi di quel periodo: «Non ne so molto. Ero
immerso nei miei dieci anni alcolici all’epoca. Mi sono fermato completamente
con la scrittura per dieci anni e mi sono ubriacato e basta. Mentre i beat beattavano io bevevo. Quindi non so
cosa sia successo. Ho cominciato a bere – a bere sul serio… a venticinque anni
e non ho mai smesso fino ai trentacinque. In quei dieci anni non ho scritto una
riga».
Nato ad
Adernach, in Germania, il 16 agosto 1920, si era trasferito a Los Angeles con
la famiglia all’età di tre anni. Il padre era violento, la madre anaffettiva. A
quattordici anni la sua faccia si era ricoperta di pustole, che gli avevano
lasciato segni permanenti. Se ne era andato di casa finito il liceo, non prima
di aver fatto le due migliori scoperte della sua vita: le biblioteche pubbliche
e i bar. Dopo i «dieci anni alcolici» – durante i quali era sopravvissuto
facendo i lavori più disparati, trovando poi un impiego stabile alle Poste –
aveva cominciato ad inviare racconti e poesie ad un gran numero di piccole
riviste letterarie. Nel 1967 gli era stata offerta la possibilità di tenere una
rubrica settimanale su un noto giornale undergroung di Los Angeles, “Open
Space”; titolo della rubrica: Taccuino di
un vecchio sporcaccione. Pochi mesi prima di compiere cinquant’anni si era
licenziato dalle Poste, accettando di firmare un contratto con la casa editrice
Black Sparrow Press, e aveva terminato il suo primo romanzo, Post Office (1971). A seguire, una
lunga serie di libri di culto, dati alle stampe a poca distanza l’uno
dall’altro: Storie di ordinaria follia
(1972), Compagno di sbronze (1972), Factotum (1975), Donne (1978), Shakeaspeare
non l’ha mai fatto (1979) Panino al prosciutto (1982). Fino a
quello che molti considerano il suo miglior pezzo di prosa: Hollywood, Hollywood! (1989), ispirato alla difficile lavorazione
del film Barfly, con Mickey Rourke
nel ruolo di Henry Chinaski.
«Ho i miei dubbi che a qualcuno
importi ancora di quel vecchio spauracchio che è il Grande Romanzo Americano»,
scrive Jim Christy. «Ma sono convinto che la verità – e l’ironia – sia
che Charles Bukowski, in Hollywood, Hollywood!,
si è avvicinato più di chiunque altro a scriverlo».
Perché Bukowski, come
sottolineava già Beniamino Placido, non è un vagabondo e basta. È un vagabondo
che scrive. Con ferrea disciplina. E che prima di scrivere ha acquisito una
solida conoscenza di tutta la grande letteratura, americana e non solo. Nella
sua biblioteca: Dostoevskij, Nietzsche, Céline, Kafka, D. H. Lawrence, Jean
Paul Sartre, Orwell, Knut Hamsun, Sinclair Lewis, Robinson Jeffers, Hemingway,
John Fante, Henry Miller. Per questi e altri scrittori, a modo suo, sentiva una gratitudine smisurata. Durante i vagabondaggi o il lavoro in fabbrica –
scrive ne Il capitano è fuori a pranzo
(Feltrinelli, 2000) – cercava di immaginare la loro vita quotidiana,
fantasticava sulle loro abitudini, sui loro vizi: «Chiunque fossero, per me gli
scrittori erano una magia. Aprivano le porte in modo diverso. Al risveglio
avevano bisogno di bere qualcosa di forte. La vita era maledettamente troppo
per loro. Ogni giorno era come camminare sul cemento fresco. Ne facevo i miei
eroi. Me ne nutrivo. L’idea che ne avevo mi sosteneva nel mio nulla. Pensare a
loro era molto meglio che leggerli. […] Mi stendevo sul mio letto da affamato e
pensavo a quegli uomini. La letteratura era così… Romantica. Sì».
Vedeva Dostoevskij «come uno che
sbavava per le ragazzine», e ringraziava il cielo che non fosse stato fucilato
per le attività sovversive condotte contro le autorità zariste. Sentiva «l’urlo
dallo stomaco» di John Fante che lottava per diventare uno scrittore. Faulkner,
lo vedeva «come un uomo eccentrico e dall’alito pesante». Hemingway, «come uno
che si esercitava nella danza classica dietro una porta chiusa». Ma non tutti i
grandi autori erano di suo gusto… «Mi ricordo che un giorno ricevetti una
lettera furibonda da un tale il quale sosteneva che non avevo diritto di dire
che Shakespeare non mi piace. Troppi giovani mi avrebbero creduto senza nemmeno
darsi la pena di leggere Shakespeare. Non avevo diritto di affermare una cosa
simile. E così via. Non gli ho mai risposto. Lo faccio adesso. Fottiti, amico.
E non mi piace nemmeno Tolstoj!».
Negli ultimi anni, quando la giovane
moglie Linda Lee ne aveva ormai domato gli istinti, e quando si dilettava a
scrivere poesie al computer circondato dai gatti, in un’elegante villa con
piscina a San Pedro, al centro dei suoi pensieri c’era soprattutto la morte. La Signora Morte, uno
schianto di donna che nel suo ultimo romanzo, Pulp (1994), si rivolge all'investigatore privato Nick Belane per la ricerca di
un certo Céline, e lo aiuta a rintracciare un misterioso e tanto sospirato Passero
Rosso.
Prima di trovarsi faccia a faccia
con il dannato uccellaccio, il 9 marzo 1994, Charles Bukowski aveva avuto il tempo di
immaginare il dopo: «L’altro giorno
pensavo al mondo senza di me. Il mondo va avanti a fare quel che deve. E io non
ci sono. Davvero strano. Il camion della spazzatura viene a tirar su
l’immondizia e io non ci sono. Oppure il giornale è sul vialetto e io non sono
lì a raccoglierlo. Impossibile. Ma il peggio è che qualche tempo dopo la mia
morte mi scopriranno veramente. Tutti quelli che quando ero vivo avevano paura
di me o mi odiavano d’un tratto mi capiranno appieno. Le mie parole saranno
ovunque. Si formeranno circoli e associazioni. Sarà nauseante. Gireranno un
film sulla mia vita. Faranno di me un uomo molto più coraggioso e dotato di
quanto non sia. Molto di più. Roba da far vomitare gli dei. La razza umana
esagera tutto: i propri eroi, i propri nemici, la propria importanza. Stronzi.
Ecco, mi sento meglio. Stramaledetta razza umana. Ecco, mi sento meglio».
Manuel Lambertini