Ricorrono i cinquant'anni da quando il romanzo italiano più venduto del
XX secolo, Il Gattopardo di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo da Feltrinelli nel 1958, venne elevato
a capolavoro cinematografico da Luchino Visconti. Nei prossimi giorni la
pellicola sarà proiettata in oltre settanta sale italiane, in una versione restaurata
dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con The Film Foundation di Martin
Scorsese. E nel marzo 2014 l’Accademia delle arti e della scienza del cinema di
Los Angeles assegnerà l’Oscar alla carriera al costumista Piero Tosi, a
coronamento di un’avventura umana e professionale che ha pochi confronti nel
panorama mondiale.
La storia di Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, Duca di
Querceta, Marchese di Donnafugata, continua a incantare il pubblico e a sollevare
annosi interrogativi sull’ineluttabile ciclicità della storia. Con la
sconfitta dell’aristocrazia terriera siciliana, costretta ad accettare l’annessione
al Regno d’Italia e la compenetrazione di elementi borghesi nelle sue stesse
strutture familiari – tramite il matrimonio del giovane Tancredi con Angelica, la
figlia del facoltoso sindaco di Donnafugata – si assiste al perpetuarsi degli antichi
rapporti di potere e di prevaricazione. Una trasformazione a cui Don Fabrizio rifiuta
di prendere parte, terminando i suoi giorni in un volontario, avvilente
isolamento.
L’opera di Tomasi di Lampedusa non è però sopravvissuta al suo autore in una forma del tutto compiuta. In coda al romanzo, un capitolo mai terminato avrebbe dovuto contenere 17 sonetti nei quali sarebbe stato svelato l’amore di Don Fabrizio per la bellissima Angelica. Quello che segue è il più eloquente dei sonetti ritrovati.
L’opera di Tomasi di Lampedusa non è però sopravvissuta al suo autore in una forma del tutto compiuta. In coda al romanzo, un capitolo mai terminato avrebbe dovuto contenere 17 sonetti nei quali sarebbe stato svelato l’amore di Don Fabrizio per la bellissima Angelica. Quello che segue è il più eloquente dei sonetti ritrovati.
lento procede e fra l’ingombro
triste
di sepolte speranze a pianto
miste
deve aprirsi la strada; e mummie
orrende
di vizzi affetti sbarran le sue
piste.
S’insedia alfine, strappa le sue
bende:
negli occhi ha sol una beffa ch’offende
non più, com’ebbe, voluttà
intraviste.
Tiranno in gioventù, boia in
vecchiezza
non più di vita messo ma di
morte,
suscita pene, orror, vergogna,
liti.
Io soffro, piango, impreco e lui
disprezza;
mi strazia con torture e con
ritorte,
fiero mi seguirà sui neri liti.
Manuel Lambertini
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