Albert Camus (Mondovi, 7 novembre 1913 - Villeblevin, 4 gennaio 1960) |
«Io non sono un filosofo. Non
credo abbastanza alla ragione per credere a un sistema. Quello che mi interessa
è sapere come bisogna comportarsi. E più precisamente come ci si può comportare
quando non si crede in Dio o nella ragione».
Forse, a cento anni dalla
nascita, lo scrittore – e filosofo – Albert Camus non avrebbe potuto ricevere
omaggio migliore della biografia dedicatagli da Michel Onfray, L’ordine libertario (Ponte alle Grazie,
2013). Un’opera che nel ripercorrere la «vita filosofica» di Camus rimarca l’importanza
centrale delle sue umili origini e delle sue vicende umane.
Nato nel 1913 a Mondovi, in Algeria,
in una famiglia povera, perse il padre all’età di un anno e si trasferì ad
Algeri con la madre, il fratello maggiore e la nonna materna. Minato fin da
giovanissimo da una forma acuta di tubercolosi, si laureò in filosofia nel 1936
con una tesi su Plotino e Agostino, affiancando allo studio un’intensa attività
politica e pubblicistica. Alcuni dei saggi scritti in quel periodo furono
raccolti nel volume Il rovescio e il
diritto (1937). Dopo aver aderito al movimento antifascista Amsterdam-Pleyel nel ’33 e al partito comunista
nel ’34, fu licenziato dalla redazione di Soir-Républicain nel 1940 sotto le pressioni
del governo coloniale. Si trasferì a Parigi pochi mesi più tardi. Nei
drammatici anni dell’occupazione nazista, durante i quali non fece mancare il
proprio sostegno alla resistenza, e nell’immediato dopoguerra, furono concepite
molte delle sue opere più note: Lo straniero (1942), Il mito di Sisifo (1942), Caligola
(1944), La peste (1947) e Lo stato
d’assedio (1948).
Alla fine degli anni ‘40 Camus era
ormai parte del circolo di intellettuali parigini legati all’editore Gallimard,
con Jean-Paul Sartre, André Breton, André Malraux e molti altri. Ma le sue
forti tendenze libertarie, talvolta in netto dissenso con l’ortodossia
marxista-leninsta, unite ad una condanna senza appello del totalitarismo
stalinista, portarono al suo definitivo isolamento dopo la pubblicazione de L’uomo in rivolta (1951), oggetto
di una dura polemica con Sartre.
Jean-Paul Sartre e Albert Camus (1944) |
Nelle parole di Michel Onfray,
intervistato da Magazine Littéraire nel 2012, Camus è «il
libertario per eccellenza, altrimenti detto: l’uomo libero», ben lontano dagli
«anarchici guardiani del tempio» che «hanno sempre bisogno di compulsare
Bakunin o Kropotkin per sapere cosa devono pensare». A renderlo unico, secondo
Onfray, è proprio la sua formazione da autodidatta, nonché il fatto di essere
«un uomo che non dipende dalla tribù, che non si costruisce guardandosi nello
specchio della storia»: «Camus, figlio di poveri, fedele al suo ambiente
d’origine, non intercala mai la sua biblioteca tra il mondo e se stesso, al
contrario della gran parte degli intellettuali e dei filosofi che vanno per
la maggiore. Se deve ragionare sulla miseria, non si chiede cosa ne dicessero
Marx ed Engles, perché lui l’ha vista a casa sua, in una famiglia senza padre e
con una madre disabile. Non commenterà un commentario, ma dirà cosa ha visto:
quale metodo migliore per un filosofo?».
L’ingombrante reputazione con cui
Camus è arrivato fino a noi è però quella di «filosofo dell’assurdo», che
finisce per inserirlo a forza nel clima storico e culturale
dell’esistenzialismo. Un tema, l’assurdità della condizione umana, che Camus
delineò nelle pagine de Lo straniero ben prima di dedicarvi
un’esplicita trattazione teorica.
Lo straniero (1942) |
Meursault, il protagonista del
romanzo, è un normale impiegato franco-algerino che trascorre le sue giornate
nella più totale indifferenza. È straniero all’amore, alla paura della morte, all’amicizia,
alla religione, e a tutte le passioni che riempiono l’esistenza degli altri
esseri umani. Seppellisce senza una lacrima la madre appena morta in un
ospizio. Il giorno dopo decide di andare al mare, incontra un’ex collega di
ufficio, Maria, e con lei inizia una relazione. Finché, su una spiaggia
assolata, dopo una lite nella quale non era direttamente coinvolto e che
sembrava essersi risolta, uccide un arabo con quattro colpi di pistola. Senza
un reale motivo. E senza cercare giustificazioni alla sua condotta neanche in
sede processuale, affrontando un’evitabilissima condanna a morte con la stessa
impassibilità. Nelle sagge parole del pubblico ministero che chiede la sua
testa, «il vuoto dell’animo quale si ritrova in quest’uomo diventa un abisso
dove la società può perire». Meursault non si conforma a nessuno dei dettami
della società che non sia in linea con la propria natura. Ma la sua
insensibilità, che pareva mostruosa, diventa profondamente umana nel momento in
cui egli rifiuta convenzioni sociali che gli sembrano false, forzose, infelici,
innaturali. Ed in attesa dell’esecuzione, grida al prete che gli fa visita in
cella tutto ciò che ha imparato dalla sua breve vita, la vanità dell’esistenza
e l’inevitabile trionfo della morte, su ogni uomo e su tutte le fedi; una
verità crudele, che però non intende rinnegare: «Era come se avessi atteso
sempre quel minuto… e quell’alba in cui sarei stato giustiziato. Nulla, nulla
aveva importanza e sapevo bene il perché. […] Dal fondo del mio avvenire,
durante tutta questa vita assurda che avevo vissuta, un soffio oscuro risaliva
verso di me attraverso annate che non erano ancora venute e quel soffio
uguagliava, al suo passaggio, ogni cosa che mi fosse stata proposta allora
nelle annate non meno irreali che stavo vivendo. Cosa mi importavano la morte
degli altri, l’amore di una madre, cosa mi importavano […] Dio, le vite che
ognuno si sceglie, i destini che un uomo si elegge, quando un solo destino
doveva eleggere me e con me miliardi di privilegiati che […] si dicevano miei
fratelli?».
Nel protagonista de Lo straniero
non si scorgono solo i disperati abissi del nichilismo senza uscita, ma anche
le premesse creatrici de L’uomo in
rivolta. «È una verità ancora negativa,» quella di Meursault, scrisse lo
stesso Camus, «senza la quale però nessuna conquista di sé e del mondo sarà mai
possibile». Per dirla con Nicola Chiaromonte: «Il sentimento della natura e
della felicità naturale da una parte; quello della mortalità dell’uomo
dall’altra. Questa dualità è un […] aspetto fondamentale di ciò che egli chiama
assurdo. L’assurdo, in Camus, non è un concetto, ma uno stato d’animo: lo stato
d’animo di un uomo che, sapendosi mortale, non può accettare, del mondo, che
ciò che s’accorda con questo sentimento, ossia in sostanza il rispetto
incondizionato della vita in quanto ricerca della sola felicità possibile: la
felicità naturale».
"La libertà non è che una possibilità di essere migliori" Albert Camus, Resistenza, Ribellione e Morte (1961) |
A metà strada tra l’apatia di
Meursault e l’uomo in rivolta c’è il mito di Sisifo. L’eroe che dopo
aver sfidato gli dèi viene condannato per l’eternità a spingere un masso su una montagna, per vederlo ricadere ogni volta che raggiunge la cima, è eletto a simbolo dell’assurdità dell’esistenza umana. Una esistenza che vede
confrontarsi l'indifferenza e l'opaca irragionevolezza dell’universo con «il desiderio
violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo». E l’uomo
deve rendersi protagonista di una vera «rivolta metafisica», un movimento individuale
che lo veda ribellarsi «contro la propria condizione e contro l’intera
creazione», per rivendicare il diritto ad «un’unità felice» che fronteggi «la
sofferenza del vivere e del morire». Egli deve affermare che «noi siamo davanti
alla storia e la storia deve fare i conti con questo noi siamo che a sua volta
deve mantenersi nella storia». Il noi
siamo si concretizza nel valore della
dignità umana «che non posso lasciare avvilire in me stesso e neppure negli
altri»; un valore supremo, che nessun potere ha il diritto di calpestare; la
cui violazione non può essere giustificata da alcun ideale o fine superiore; e
che rifiuta qualsiasi forma di assolutismo.
È dunque nell’affermazione della
propria libertà e nella gioiosa lotta contro una condizione assurda che l’essere
umano può aspirare alla felicità: «Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si
ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che
nega gli dèi e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo
universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello
di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di
notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a
riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».
Manuel Lambertini
Vado leggere queste post, ma già ti voglio dire che incontro atractivo tuo blog. Leggo facilmente italiano y lo parlo quando sto li. Abbiamo una cosa in comune: Elsa Morante. Dopo ti lascio un comentario di vero.
RispondiEliminaSaluti da Amsterdam
Che sorpresa! Grazie mille per il tuo commento!
RispondiEliminaGià, Elsa Morante... E' una cosa molto importante, quella che abbiamo in comune! ;-)