Avevo giurato a me stesso che
quelle dell’anno scorso sarebbero state le mie ultime primarie del Pd. Mai
avrei immaginato che quella che malgrado tutto ho continuato a considerare la mia
parte potesse popolarsi di figuri
irritanti e indisponenti quanto i membri della destra berlusconiana. E invece
le facce di bronzo dei dirigenti storici e molte delle nuove leve renziane – riciclati
e voltagabbana in testa – hanno fatto sì che questo accadesse più e più volte. Dopo
la mancata elezione di Prodi al Quirinale, poi, quel proposito era diventato
una decisione definitiva, una certezza incrollabile. Al punto che ero arrivato
a riconoscermi in un post pro-Grillo largamente diffuso sui social network, a
firma di Michele Darling: «L’elettore democratico vota il meno peggio. Ma
giura, giura sempre: “È l’ultima volta!”. L’elettore democratico è sempre Nanni
Moretti. Il Moretti di allora, così come il Moretti […] sul palco a Napoli
accanto a Bersani. Perché l’elettore democratico, quand’è sul palco, tutto
sommato è felice, si limita a dei buffetti sulla guancia: “Sono qui – ha detto
il regista – perché nonostante lo spot elettorale ‘Smacchiamo il giaguaro’,
voterò il Pd”. L’elettore democratico è l’elettore “nonostante”».
Nel sentirmi preso in mezzo, mi
ero ripromesso di non cascarci più. L’unico motivo che avrei considerato valido
per mettere una croce sul simbolo del Pd, dicevo, sarebbe stata la certezza di
poterne decretare l’esplosione finale. Insomma, l’epilogo degno di un partito
nel quale un terzo dei rappresentanti parlamentari era stato capace di
pugnalare alle spalle il proprio padre fondatore nel nome di miserabili
interessi correntizi. E invece andrò a votare, alle primarie dell’8 dicembre. Anche
stavolta. E voterò Giuseppe Civati.
Parte svantaggiato, Civati. Non
ha alle spalle il favore dei media e dei poteri forti, di cui Renzi gode da oltre
due anni. È anche inviso all’establishment
del Pd di provenienza diessina, che ha ancora una certa influenza sui militanti
e che è mobilitato a sostegno di Cuperlo. A differenza dell’uno e dell’altro,
Civati non sembra coltivare un disegno egemonico sul partito: chiede più
democrazia interna, più apertura, più possibilità di partecipazione per gli
iscritti e i militanti.
Nel suo programma si possono
leggere proposte come la riduzione dei componenti dell’Assemblea Nazionale e della
Direzione; un bilancio completo, aperto, comprensibile, partecipato, che superi
le opacità legate alla struttura federale del partito e alle fondazioni che lo
sorreggono; l’adozione di meccanismi che favoriscano capillarmente la
partecipazione e le occasioni di deliberazione collettiva (referendum interni e
assemblee di discussione); la promozione di forme di autofinanziamento “a progetto”,
in favore delle realtà periferiche.
E ho citato solo alcune delle proposte
riguardanti la sua idea di partito. Perché l’8 dicembre si eleggerà il
segretario del Pd, non il candidato premier del centro-sinistra. Non sono
sicuro che i cittadini che si receranno alle primarie abbiano chiaro il
concetto, e ho come l’impressione che il vantaggio di Renzi sia legato anche a questo equivoco… L’elezione di Renzi alla segreteria del partito comporterebbe
una mutazione antropologica del Pd verso destra, come fu per il Psi di Craxi:
una banda di yuppies folgorati sulla via dell’edonismo reaganiano che trovò poi
la propria collocazione naturale tra le fila berlusconiane. Però non mi si dica
che a non votare Cuperlo si spiana la strada al sindaco di Firenze. Pretendere
che anche stavolta possa dare ascolto a questa voce sarebbe troppo. È arrivato
il momento di rischiare, punto e basta. Ne riparleremo al secondo turno, se ci
sarà.
Anche perché a differenza di
Cuperlo, Pippo Civati parla chiaro. E ha un’abitudine sconveniente: prende
posizione prima che le decisioni
vengano assunte. Prima che i giochi
si chiudano. Mai è capitato di sentirlo lamentare le conseguenze di un
dibattito a cui si fosse guardato dal prendere parte, per meglio trarre
vantaggio dai fallimenti altrui. Per la Presidenza della Repubblica aveva votato Rodotà
con il Movimento 5 Stelle, esponendosi poi a favore di Prodi. Si era detto
contrario alle larghe intese prima
che venissero stipulate, non dopo. E senza dilettarsi in stucchevoli esercizi
ricattatori. Aveva chiesto le dimissioni della Cancellieri prima del voto parlamentare, e non – come ha fatto furbescamente
Renzi – a giochi ormai conclusi. Un partito guidato da lui potrebbe quantomento
gettare le basi di un’intesa con la società civile fondata sulla lealtà e su un
confronto finalmente aperto.
Ma il sindaco Renzi viene
presentato in ogni servizio giornalistico come «il favorito». Scalfari lo ha
recentemente definito «un grande venditore di se stesso», «un avventuriero» di
talento. Un formidabile free-rider
politico, dovremmo aggiungere, funambolico, capace come nessun altro di
sfruttare le opportunità del momento e di pescare voti a destra a colpi di
battute e di argomenti vuoti. Non risponde alle domande che gli vengono fatte,
ma a quelle che vorrebbe sentirsi fare.
Che la politica si faccia anche così è convinzione ormai diffusa. E forse possiamo solo attaccarci alla speranza che Renzi voglia
dirottare verso una politica di centro-sinistra i voti raccolti a destra. Ovvero
la speranza che stia prendendo per i fondelli un corpo elettorale abituato a
premiare i grandi illusionisti. Ma veniamo da un ventennio in cui la politica è
stata fatta solo così, e in Renzi non
è dato vedere proprio nessun cambiamento. Ancor più inquietanti appaiono poi le
sue vaghe proposte politiche, tutte orientate allo smantellamento del welfare,
alla flessibilità selvaggia del lavoro, all’umiliazione delle organizzazioni
sindacali e dei piccoli pensionati. Altro elemento di continuità con un passato
che si vorrebbe avviare alla rottamazione.
Insomma, chi potrebbe ricordare
Matteo Renzi se non il Berlusconi del ‘94? Forse a questa domanda retorica c’è
una risposta. Però dobbiamo allargare lo sguardo all’Europa, oltremanica. Il nostro uomo è Tony Blair. The Boy. Il leader del New Labour, l’ex premier
britannico alfiere della Terza Via. E questo ci consente di chiudere con una
nota di colore. Perché è fresca di stampa la notizia che Rupert Murdoch abbia
divorziato dalla moglie Wendi Deng a causa di una love story che lei
avrebbe intrattenuto proprio con Blair. Inutile dire che l’irresistibile ascesa
del giovane Tony dovette molto alla sua amicizia con Murdoch, e al sostegno espressogli
dai tabloid di Murdoch durante tutte le tre campagne elettorali che lo videro
vincitore. Il marketing, si sa, è importante. A ciascuno il suo tycoon. Il guru
di Blair era Murdoch, “lo Squalo”; quello di Renzi si chiama Giorgio Gori: già dirigente
Fininvest, ex direttore di Canale 5, fondatore della Casa di Produzione
Televisiva Magnolia – quella del Grande
Fratello e dell’Isola dei Famosi,
per intenderci – e attuale marito di
Cristina Parodi. Arriviamo sempre con vent’anni di ritardo, noi italiani. E
siamo sempre più sfigati degli altri.
Manuel Lambertini