La locandina del film |
A due anni esatti dalla prima proiezione de La grande bellezza, presentato alla 66esima
edizione del Festival di Cannes, Paolo Sorrentino è tornato al cinema con un
film dal respiro internazionale: Youth - La
giovinezza, che vede sfilare un cast di stelle, dal protagonista Michael
Caine a Harvey Keitel, da Rachel Weisz a Jane Fonda.
Il tocco sicuro e l’apparente autoreferenzialità del regista
non devono ingannare: il film che segue la vittoria di un Oscar è il più difficile
per tutti. Lo fu per Giuseppe Tornatore, che con Stanno tutti bene restò lontano anni luce dal folgorante successo
di Nuovo Cinema Paradiso. Andò allo
stesso modo a Gabriele Salvatores, tuttora costretto a confrontarsi con i fasti
di Mediterraneo: l’aver indicato fin
dall’inizio Lanterne Rosse di Zhang
Yimou quale vincitore morale dell’Oscar non bastò ad attirargli l’indulgenza
della critica nei riguardi dei film successivi. Per non parlare dello scherno che
accolse il Pinocchio di Benigni, insignito
nel 2002 del Razzie Award al peggior attore protagonista.
Di Youth è stato detto
che non aggiunge nulla al dibattito accesosi negli ultimi anni intorno al
cinema di Sorrentino: agli ammiratori il buon gioco di esaltarne l’estetica e
la potenza visiva, ai detrattori il facile esercizio di stigmatizzare la
frammentarietà della sceneggiatura e la debolezza della storia. Niente di
nuovo, insomma. Anche gli aggettivi, dall’uno e dall’altro punto di vista,
restano gli stessi: emozionante, inconsistente, anticonvenzionale, kitsch,
felliniano.
Michael Caine e Harvey Keitel in Youth (2015) |
Le principali riserve su Youth
sono a loro volta riconducibili ai due grandi filoni critici già consolidatisi a
proposito degli altri film. Il primo filone, più popolare, non avrebbe potuto
trovare esemplificazione migliore di quella offerta anni fa da Paolo Cirino
Pomicino in un dibattito tv su Il divo:
«Durante il film mi stavo addormentando». È il rischio di annoiare gli
spettatori il più grande nemico di chi fa cinema come Sorrentino. Ma il fatto
che questo giudizio metta d’accordo una buona parte di pubblico dovrebbe far
riflettere più il pubblico stesso che il regista: sulla generale incapacità di discostarsi
dai modelli mainstream, di cogliere
la grandiosità del mezzo cinematografico e il suo valore in sé; sulla perdita
dell’abitudine a contemplare la forma, i dettagli, i caratteri di personaggi
curati fin nei minimi particolari. Dal Tony Pisapia de L’uomo in più al Cheyenne di This
Must Be The Place, fino all’ormai citatissimo Jep Gambardella de La grande bellezza: non c’è regista
italiano dell’ultima generazione la cui filmografia possa vantare personaggi tanto
originali e memorabili.
L’altro filone di critiche al cinema di Sorrentino – e a Youth – si concentra invece sul fronte logoro
ma incandescente del contenuto. Qui riscuotono
indiscusso apprezzamento la fotografia di Luca Bigazzi e le musiche di Lele
Marchitelli o David Lang, ma ciò che non viene perdonato è l’assenza di un
messaggio forte. In altre parole, la lentezza nel ritmo e la raffinatezza del
linguaggio sarebbero state tollerate (e persino celebrate) se poste al servizio
di grandi temi a sfondo sociale. Ed ecco che su Sorrentino si abbatte l’inappellabile
accusa di «fellinismo», con l’aggravante di una così autocompiaciuta
magniloquenza a fare da cornice al peggior «cinema del nulla».
Il cast di Youth al Festival di Cannes (20 maggio 2015) |
Malgrado i toni eccessivi e stupidamente zelanti di certe critiche,
non si allontanerebbe molto dalla verità chi considerasse Youth come un nuovo capitolo, quasi un’appendice, de La grande bellezza. Non c’è la sfavillante
indifferenza di Roma, ma un albergo di lusso sulle Alpi svizzere, meta di
villeggiatura di una schiera di artisti, attori, celebrità decadute e agiati
intellettuali in età senile. Ritorna invece Federico Fellini, il Fellini di 8 ½, che insieme a La montagna incantata di Thomas Mann si accredita coma la
principale fonte d’ispirazione del film. Al posto di Jep, Roman, Ramona e Dadina
abbiamo il direttore d’orchestra in pensione Fred Ballinger (Michael Caine),
insidiato da un emissario della Regina d’Inghilterra che intende fargli
dirigere un ultimo concerto per il Principe Filippo, e il regista Mick Boyle
(Harvey Keitel), alle prese con la stesura del suo film-testamento; poi la
figlia di Ballinger, Lena (Rachel Weisz), con un divorzio in vista, l’attore
hollywoodiano Jimmy Tree (Paul Dano), l'ultima Miss Universo (Madalina Ghenea) e un Diego Armando Maradona (Roly Serrano)
ormai attaccato alla bombola d’ossigeno.
La sceneggiatura, anche qui, punta più sulle battute
fulminanti e sul solenne distacco dei suoi nobili interpreti – e l’ironia
leggera di alcuni critici non ha risparmiato nemmeno Sir Michael Caine,
«truccato da Toni Servillo» – che sulla costruzione narrativa o su particolari
articolazioni nell'intreccio. Fred e Mick, giunti alla fine di una vita che li
ha portati alla gloria, sono legati da un’amicizia strana: parlano solo di cose
belle, restano complici soprattutto per quello che non si dicono. Ma il Fred Ballinger che libera dalla polvere
dell’apatia il suo antico amore per la moglie, tra le lacrime di commozione di Lena,
non è molto diverso dal Jep Gambardella che ricomincia a scrivere, a vivere. Perché
a volerlo trovare per forza, il senso del cinema di Sorrentino è nello sguardo saggio
e amoroso con cui illumina i suoi personaggi. Nessuno di loro va incontro a
condanne definitive, anche i più miserabili vengono sfiorati da lievi folate di
grazia.
Si potrà allora sostenere che questo regista appena quarantacinquenne abbia fatto sempre lo stesso film, a patto di riconoscerlo come un film su esseri umani che hanno – o non hanno – il coraggio di deporre maschera e armatura, di aprirsi a nuovi rischi. Persone che comunque si rivelano essere qualcosa di più della loro indifferenza. «Le emozioni sono tutto quello che abbiamo»: è questo l'unico, vero testamento che Mick riesce ad affidare a Fred. A fare il paio con un'altra grande lezione, impartita in altri tempi da Alfred Hitchcock: «Il cinema è il come, non il cosa».