Da sinistra: Renzo Piano, Elena Cattaneo, il Presidente del Senato Pietro Grasso e Carlo Rubbia. Palazzo Madama, Roma, 4 settembre 2013. |
Se la riforma
del Senato dovesse uscire immutata dal lungo iter parlamentare che la attende,
i cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica resterebbero in
carica sette anni. Una scelta deliberata il 4 agosto, lo stesso giorno in cui
si è votato il mantenimento dell’immunità parlamentare: «Per rispetto ai nostri
padri costituenti non possiamo distruggere qualcosa che è stato immaginato come
corollario della nostra Costituzione», ha detto il capogruppo del Pd Luigi
Zanda… E con ragione! Benché i maligni possano covare il sospetto che la sua
deferenza fosse rivolta più a Berlusconi che ai «padri costituenti», non è dato
vedere alcun valido motivo per riservare ai 100 membri del futuro Senato un trattamento
di sfavore rispetto ai ben 630 deputati che dell’immunità continuerebbero a
beneficiare!
Ora, anche alla
luce della spiccata sensibilità istituzionale del senatore Zanda, sarebbe forse
scandaloso voler sapere come mai ai senatori a vita sia toccata una sorte
diversa? Credo sia giusto chiederselo, anche rischiando di porsi al di fuori di
un comune sentire che li irrideva ormai da anni. Stiamo parlando di figure a
cui sono molto affezionato, lo ammetto. Addirittura resto fermamente convinto
che nessun altro istituto dell’Italia repubblicana sia stato all’altezza delle
proprie funzioni quanto quello dei senatori a vita, anche nei casi di persone
nominate per chiare ragioni di opportunità politica.
Da sinistra: Oscar Luigi Scalfaro, Giorgio Napolitano, Rita Levi-Montalcini, Carlo Azeglio Ciampi, Carlo Rubbia. Palazzo del Quirinale, Roma, 20 aprile 2009. |
Ecco,
l’abolizione dei senatori a vita non è che un piccolo segnale di questa deriva “barbarica”,
nel senso neutro della parola: l’ostentata ignoranza del linguaggio della
politica, il dilettantesco disprezzo per i suoi meccanismi, per le sue incastellature
formali, per i suoi simboli. Davvero si può gioire di fronte all’abolizione di
un istituto che dal 1948 ad oggi ha annoverato tra i propri dignitari
personalità come don Luigi Sturzo, Ferruccio Parri, Eugenio Montale, Pietro Nenni,
Eduardo De Filippo, Norberto Bobbio, Mario Luzi, Rita Levi-Montalcini, Giulio
Andreotti, Claudio Abbado? Se non è barbarie questa… Eppure sarebbe ingiusto addebitare
ogni responsabilità al governo Renzi: i Cinquestelle avevano perfino proposto l’abolizione
totale del Senato, con l'ovvia conseguenza che
anche le leggi di revisione costituzionale avrebbero dovuto essere approvate dalla
sola Camera!
Non c’è dubbio:
i protagonisti della nuova politica italiana, tutti imbevuti di un berlusconismo
peggiore dell’originale, stanno liquidando una storia più grande di loro. Con
quale criterio logico lo stiano facendo, poi, rimane un mistero. Perché
assegnare al Capo dello Stato la prerogativa di nominare cinque senatori «per
meriti illustri» precisando poi che gli effetti di tali meriti si estingueranno
dopo sette anni, senza possibilità di un secondo mandato? La mia è un’obiezione
più di forma che di merito, una riserva quasi estetica: che senso ha tutto
questo?
Al di là dell’irrisoria
riduzione dei costi prevista dall’operazione, l’unico valido motivo che
potrebbe animarla sarebbe l’intima certezza che non esistano né esisteranno più
eccellenze pari a quelle del passato, insieme a un’incrollabile convinzione
nell’idea che non possano esservi meriti tanto alti da implicare l’assegnazione
di una qualsiasi carica pubblica «a vita».
Ebbene, io
intendo combattere l’una e l’altra idea: per tenere viva la gratitudine e il
senso di meraviglia nei confronti di chi, nel presente, illustra «la Patria per altissimi meriti
nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Chi meglio potrebbe
occupare gli scranni di Palazzo Madama tra Dario Fo, Umberto Eco, il già citato
Eugenio Scalfari, Stefano Rodotà, Pietro Citati, Giorgio Albertazzi, Marco Pannella, Gino Strada, Francesco
Guccini, Ennio Morricone, Carla Fracci, Renzo Arbore? Quanti nomi dovremmo ancora aggiungere!
Lo scranno di Giulio Andreotti |
Alcuni di loro
onorerebbero l’investitura regalandoci grandi interventi e indimenticabili
furori, altri vi rinuncerebbero il giorno stesso della nomina, come già fecero
Arturo Toscanini e Indro Montanelli. Quest’ultimo, in particolare, era convinto
che il potere andasse tenuto «a debita distanza»: «In questo mondo in cui tutti
si scannano per ficcarsi in, io sono
nato out, e out devo restare», scrisse al presidente Cossiga. È il caso di dire
che sbagliò, se si considera quello che avrebbe potuto dare. Ed era anche clamorosamente
sbagliata la famosa battuta sul berlusconismo in cui affermava: «Berlusconi è
una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di
Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove
vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L’immunità che si
ottiene col vaccino». L’ultimo decennio gli ha dato torto, e oggi Berlusconi è
più in che mai: detta l’agenda
politica al governo e alle opposizioni, è entrato a far parte del loro stesso codice
genetico. Solo il futuro dirà se Montanelli avesse invece ragione quando emetteva un altro lapidario verdetto, tremendamente rinunciatario ma mai smentito dai
fatti: «In Italia si può cambiare soltanto la Costituzione. Il
resto rimane com’è».