John Dawson Winter III
(Beaumont, Texas, 23 febbraio 1944 - Zurigo, 16 luglio 2014)
|
Albino come il fratello Edgar, che per tutta la vita lo ha accompagnato in giro per il mondo, era considerato uno dei più grandi chitarristi blues
in attività; talento e carisma gli avevano però fatto oltrepassare i confini
del genere, e il suo virtuosismo con la chitarra slide poté arricchire di
interpretazioni memorabili alcuni tra i più grandi classici rock, da Johnny B. Goode di Chuck Berry a Highway 61 Revisited di Dylan.
Calcava le
scene dall’età di quindici anni, con dedizione e disciplina, tra abusi di alcol
e droghe e collaborazioni straordinarie. Appena diciassettenne, si dice avesse
convinto il già celebre B.B. King a cedergli palco e chitarra, entusiasmando un
pubblico di soli neri. Al suo primo album, The
Progressive Blues Experiment (1968), avevano partecipato musicisti del
calibro di Willie Dixon e Little Walter. Nel 1969 si era esibito all’ultima
giornata del Festival di Woodstock, un’esperienza che fin da allora parve segnare
in modo indelebile tutta la sua carriera. Aveva poi condiviso il palcoscenico
con Jimi Hendrix e gli era stata attribuita una breve relazione con Janis
Joplin. Il suo nome, non solo tra i cultori dell’electric blues, sarebbe
entrato nello stesso Pantheon di John Lee Hooker, Jimmy Page, Eric Clapton, Allman
Brothers e Lynyrd Skynyrd.
Nelle vesti di
produttore gli si deve la rinascita musicale del suo mito di gioventù, Muddy
Waters, di cui ha prodotto dischi come Hard
Again (1977), I’m Ready (1978) e King Bee (1981): Waters lo avrebbe
definito «il mio figlio adottivo».
Tra gli album di maggior successo, Saints & Sinners (1974), Nothin’ But The Blues (1977), l'amatissimo Guitar Slinger (1984) e Let Me In (1991), oltre a un numero sterminato di registrazioni live. Premiato con il Grammy Award nel 2004 per I’m a Bluesman, la rivista «Rolling Stone» lo ha collocato al 63esimo posto tra i 100 migliori chitarristi di tutti i tempi. Sono infine freschi di realizzazione il documentario Johnny Winter: Down and Dirty (2014), presentato in occasione del suo settantesimo compleanno, e l'album Step Back, che sarà pubblicato postumo.
Johnny Winter al Festival di Woodstock nel 1979 |
Tra gli album di maggior successo, Saints & Sinners (1974), Nothin’ But The Blues (1977), l'amatissimo Guitar Slinger (1984) e Let Me In (1991), oltre a un numero sterminato di registrazioni live. Premiato con il Grammy Award nel 2004 per I’m a Bluesman, la rivista «Rolling Stone» lo ha collocato al 63esimo posto tra i 100 migliori chitarristi di tutti i tempi. Sono infine freschi di realizzazione il documentario Johnny Winter: Down and Dirty (2014), presentato in occasione del suo settantesimo compleanno, e l'album Step Back, che sarà pubblicato postumo.
Reduce di un’esistenza vissuta sulla strada, Winter era stato in Italia solo poche
settimane fa, alla fine di maggio, per esibirsi in un mini tour di tre date a
Roma, Udine e Mezzago. Nel febbraio 2012 aveva invece fatto tappa al Teatro
Novelli di Rimini, con la tournée dell’album Roots. Ebbi il privilegio di incontrarlo lì. Insieme alle poche
persone che si erano radunate davanti al teatro qualche ora prima del concerto,
vidi parcheggiare il camper sul quale riposava. Erano appena arrivati dall'Est Europa, ci disse una sua giovane assistente, ma se avessimo aspettato qualche
minuto saremmo stati ricevuti uno alla volta. Quando arrivò il mio turno, fui
accompagnato al suo tavolo. Mi trovai davanti una creatura nobile, esile,
fragilissima; i capelli mi sembrarono più radi, forse perché raccolti dietro a
un grande cappello da cowboy. Capii subito che era diventato quasi
cieco; ricordo l’impegno e la fatica con cui autografò la piccola fotografia
che gli avevo portato, chinando il capo quasi fino a sfiorarla col viso.
Rimini, 25 febbraio 2012 |
Forse per una
suggestione legata al luogo dell’incontro, mi venne in mente l’oracolo
ermafrodita di Fellini Satyricon, gallina
dalle uova d’oro di una corte dei miracoli decisa a sfruttarne fino in fondo le
doti e la fama. Prima di andare via volli stringergli la mano, e per attirarne
l’attenzione dovetti toccargli le dite: restai stupito dalla risolutezza della
sua presa, da quanta forza avesse conservato; e scacciai ogni pensiero cinico.
Johnny Winter sapeva che ad affollare i suoi concerti erano persone legate a
una leggenda del passato, già appagate e spesso incapaci di pretendere alcunché dalle nuove performance di un così grande sopravvissuto. Ma non poteva vivere in modo
diverso. Era scritto che il suo cammino dovesse interrompersi senza attese,
nella frugalità di un luogo senza importanza, come in una sublime e dolente
improvvisazione blues.
Sempre su un
palco, sempre sulla strada. Gli sia lieto il prossimo viaggio.
Manuel
Lambertini