Ariel Sharon (Kfar Malal, 26 febbraio 1928 - Ramat Gan, 11 gennaio 2014) |
L’ex primo ministro israeliano Ariel
Sharon è morto dopo aver trascorso gli ultimi otto anni in uno stato
vegetativo. La cessazione delle sue funzioni vitali, in fondo, ha solo fatto da suggello finale ad
un’epoca che sembrava già lontanissima.
Nel momento dell’estremo saluto, l’immagine che ne hanno trasmesso i media internazionali e le dichiarazioni dei grandi della Terra è stata quella di «un patriota al servizio del suo Paese» (Angela Merkel) che «ha avuto il coraggio di dialogare con i palestinesi» (François Hollande), di prendere «decisioni coraggiose per il perseguimento della pace» (David Cameron). Tutti lo hanno ricordato, in definitiva, come «un falco sulla via della pace».
Nel momento dell’estremo saluto, l’immagine che ne hanno trasmesso i media internazionali e le dichiarazioni dei grandi della Terra è stata quella di «un patriota al servizio del suo Paese» (Angela Merkel) che «ha avuto il coraggio di dialogare con i palestinesi» (François Hollande), di prendere «decisioni coraggiose per il perseguimento della pace» (David Cameron). Tutti lo hanno ricordato, in definitiva, come «un falco sulla via della pace».
Ma la sua lunga parabola politica,
che getta la propria ombra sull’intera storia dello Stato di Israele, è quasi uno
sberleffo a tutti gli steorotipi più ricorrenti sul Medio Oriente, e alla retorica
dei “falchi” e delle “colombe” in particolare. Pare che lo smantellamento degli
insediamenti israeliani della Striscia di Gaza, ordinato dal suo governo nel
2005, abbia cancellato in un sol colpo ogni traccia di una vita che fino ad
allora aveva avuto come stella polare il più sistematico e indiscriminato uso della forza.
Dalla strage di Sabra e Chatila del
1982 – perpetrata dai cristiano-maroniti libanesi di Elie Hobeika con la connivenza dell’esercito
israeliano – alla provocatoria visita sulla Spianata delle Moschee del 2000 –
che scatenò la Seconda Intifada
palestinese, consegnandogli però una netta vittoria elettorale – fino all'invasione
della Cisgiordania con l’«Operazione Scudo difensivo» del 2002 e alle innumerevoli
esecuzioni extragiudiziarie dei leader della rivolta palestinese: si faceva
vanto di essere un «guerriero» sempre con le armi in pugno, un «bulldozer» insofferente
ai codici militari e alle lungaggini della politica. Persino il ritiro dalla
Striscia di Gaza, alla luce della sua vicenda umana, richiede
una rilettura assai diversa da quella corrente.
Ariel Sharon durante l'invasione israeliana del Libano (1982) |
Comunque la si pensi sul suo
conto, infatti, significherebbe disonorarne la memoria non ricordare che per Sharon il
piano di disimpegno unilaterale da Gaza non era mai stato concepito come il
primo passo di un processo negoziale con i palestinesi, ma come l’unica rilevante
cessione territoriale che potesse essere concessa ad una autonomia palestinese completamente assoggettata alle esigenze di sicurezza dello Stato ebraico.
Fu lui stesso a dichiararlo, in
un’intervista rilasciata nell'agosto 2005 a Nahum Barnea e Shimon Shiffer per il
quotidiano Yedioth Ahronot: «Già nel 1988, in una riunione dei
ministri del Likud, dissi che avremmo dovuto decidere a cosa rinunciare,
altrimenti saremmo stati costretti a tornare ai confini del ’67». E aggiunse: «I
coloni hanno fatto molto. Se non fosse stato per loro oggi non saremmo a
Hebron, Gush Etzion, Ma’aleh Adumim, Ariel, Eli, Shilo e Beith El». «E la valle
del Giordano?» chiesero Barnea e Shiffer, riferendosi alla fascia di insediamenti
formatasi nella zona orientale della Cisgiordania che impedisce ai palestinesi
l’accesso alle acque del fiume Giordano. «La aggiunga pure alla lista», rispose
il premier. «Insieme alle alture che dominano la pianura costiera e l’aeroporto».
Lo smantellamento forzato degli
insediamenti ebraici costruiti illegalmente sulla Striscia di Gaza, inutile
dirlo, fu un duro colpo per l’opinione pubblica israeliana e per l’elettorato
del Likud in particolare, ma eliminò gli ingenti costi legati alla protezione
dei coloni, oscurò la parallela, inarrestabile colonizzazione della Cisgiordania e rafforzò
Israele sul piano diplomatico. Viste in quest’ottica, le reazioni della comunità
internazionale, che allora celebrò Ariel Sharon e che oggi lo piange, altro non
sono che la consacrazione di un indubbio successo.
Manuel Lambertini